La riflessione

Nel flusso delle immagini. Lo sharing creativo è nuova partecipazione

Instagram e altri prodotti simili non apparterranno semplicemente alla storia della fotografia o del digitale. Ma sono un ulteriore contributo alla rivoluzione della nostra cultura

Pubblicato il 13 Dic 2012

Fabio Fornasari

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“Vivere momento per momento, volgersi interamente alla luna, alla neve, ai fiori di ciliegio e alle foglie rosse degli aceri, cantare canzoni, bere sake, consolarsi dimenticando la realtà, non preoccuparsi della miseria che ci sta di fronte, non farsi scoraggiare, essere come una zucca vuota che galleggia sulla corrente dell’acqua: questo, io chiamo ukiyo”. Ukiyo monogatari, trad. Racconti del mondo fluttuante, Asai Ryoi.

C’è qualcosa in questo antico scritto di Asiai Ryoi che, penso possa introdurre molto bene il nostro modo di intendere le immagini che generiamo e come le guardiamo all’interno della nostra vita digitale. Mi riferisco alle immagini che vediamo di istante in istante apparire sul nostro schermo ad ogni aggiornamento, che sia voluto o automatico; immagini pubblicate da chi ci racconta visivamente il proprio fluttuare nel mondo, il proprio sguardo che si appoggia su elementi del quotidiano che diventano speciali attraverso un processo che passa dal riconoscimento dell’attimo allo “scatto”. Non sono semplicemente fotografie. Sono immagini in quanto contengono qualcosa di più della semplice descrizione. Richiamano, o meglio suggeriscono uno straniamento rispetto alla semplice descrizione della realtà, come una sottile sofferenza che rende la fotografia una immagine personale, emotiva, talvolta nostalgica, e l’allontana dalla più semplice fotografia di reportage, di registrazione della realtà. E mentre le si guarda si fondono con i testi che le accompagnano e le precedono, in un unico flusso. A titolo di esempio: parlo delle immagini di Instagram. Sono foto che ci mostrano spesso le cose alle quali siamo attaccati, velate da una patina che allo stesso tempo è narrativa ed emotiva: le rende, per chi le produce, personali e per chi le legge capaci di trasmettere dei racconti, spesse volte emozionanti. Per intenderci: non esiste una fotografia semplicemente descrittiva in quanto ogni scatto è comunque un atto legato alla volontà del fotografo che comunque interpreta attraverso il proprio sguardo e quindi sceglie. Ma nel momento si fotografa con un software – una app – le cose cambiano. Una più larga parte di quello sguardo è fuori di noi.

Instagram è l’ultimo episodio di una storia lunga poco più di 130 anni, l’ultima edizione del genere “fotografia popolare” che vide in George Eastman – il fondatore della Kodak – il più importante tra i pionieri della fotografia inventore della pellicola che ha una storia che è arrivata fino oltre il 2000. Come molti visionari aveva un desiderio: rendere la fotografia alla portata di tutti allo stesso prezzo di una penna da scrivere: “quello che stavamo facendo non era soltanto fare lastre secche, […] stavamo partendo per rendere la fotografia un affare di tutti i giorni.”

Ora la fotografia sembra avere ben interpretato quanto ci dice la fisica teorica: il tempo non esiste. Non è più una pratica quotidiana ma semplicemente legata all’istante, a un momento: fare un’immagine e condividerla si esaurisce in un istante. La Kodak instamatic con la sua pellicola EastmanColor aveva notevolmente accelerato il processo di produzione delle fotografie che si perfezionò con le pellicole Polaroid che in 60 secondi restituivano la nostra visione. Se non fosse che i Social Network continuano a ragionare all’interno di una linearità del tempo ordinando le notizie all’interno delle loro timeline potremmo dire che la relazione col tempo sarebbe solo un fatto personale e non sociale. Io fotografo o maker di quella immagine so quando e perché ho scattato ma chi mi guarda no. Guardare e mostrare le foto non si lega al tempo. E’ un processo a-storico legato al nostro modo di guardare che ha sempre una componente culturale. La cultura visuale non si limita allo studio delle immagini o dei media ma si estende sempre alle pratiche quotidiane del vedere e del mostrare. A tal proposito un classico sul Pictorial Turn si trova qui.

Instagram

Dopotutto la fotografia digitale condivisa e prodotta in rete non appartiene alla più semplice storia della tecnologia o del digitale; più in generale è un ulteriore contributo alla rivoluzione della nostra cultura che con il Pictorial Turn ha superato il giudizio sulle immagini in quanto ingannevoli e portatrici di una conoscenza degradata. Non fosse così non avremmo potuto riconoscere come testimonianze e quindi come fonte di verità, le immagini di Instagram scattate a New York durante il passaggio di Sandy. Ma tutto questo è anche una risposta alla sofferenza vissuta nella società visuale che pone al centro non il solo consumo delle immagini ma la stessa produzione; stiamo parlando di una comunità che riconosce nella produzione dei contenuti un elemento di distinzione e nello stesso tempo di appartenenza: fare immagini e vederle pubblicate è qualcosa. Rende noi e quel momento unici e nello stesso tempo parte di quel qualcosa. Nell’esergo al volume Sulla fotografia di Susan Sontag il redattore della Einaudi riporta la seguente frase: «La fotografia è diventata uno dei principali meccanismi per provare qualcosa, per dare una sembianza di partecipazione». Ovviamente Susan Sontag, avendoci lasciato nel dicembre del 2004 non ha conosciuto nulla di ciò che stiamo vedendo e facendo con le immagini di instagram, ma già negli anni settanta aveva ben colto la natura della fotografia in relazione alla società e all’esperienza dell’immagine come atto di liberazione: “ciò che è importante ora è riscoprire i nostri sensi. Dobbiamo imparare a vedere di più, ad ascoltare di più, a sentire di più”. E sul guardare in relazione alla sofferenza si chiude il suo lavoro saggistico: Davanti al dolore degli altri.

Postare e guardare le immagini in rete è una continua esposizione di emozioni proprie e altrui, la condivisione spesso non cercata di brandelli di vita degli altri, un poco come quando si ascoltano le telefonate al cellulare. Un voyerismo non cercato e spesso non voluto. Ma nella rete il contratto è chiaro, condiviso ed è prodotto, come protetto, dal software culturale: il Social Network, il programma per la post-produzione delle immagini o i programmi/dispositivi fotografici come Instagram.

Le pratiche artistiche ci hanno ormai abituato alla Post-Produzione L’atto creativo è stato spostato dal momento dell’azione al momento della elaborazione. E’ il continuo gioco delle riletture, rieditazioni, citazioni di duchampiana memoria. L’atto creativo è stato spostato dal momento dell’azione al momento della elaborazione. E’ il continuo gioco delle riletture, rieditazioni, citazioni di duchampiana memoria. Instagram fa tutto questo per noi: rielabora la nostra visione proponendoci di prendere una ultima decisione, un’ultima scelta dei filtri possibili che restituiscono un sapore anacronistico, analogico, astorico all’immagine. Permette di dare una impronta alla visione della propria quotidianità, al flusso delle cose che vedo/registro/condivido intorno a me. Non cerco una verità imitativa ma voglio comunicare a tutti uno stato d’animo non alfabetico, visivo. Istagram permette di generare quello straniamento che è proprio del processo artistico. Il motto coniato nel 1880 da George Eastman “You press the button – we do the rest” sembra aver raggiunto il suo scopo.

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