Davvero abbiamo bisogno del digitale[1] per risolvere o almeno attenuare la crisi climatica e ambientale e avviare una vera transizione ecologica? Industriali, scienziati, economisti, businessman, finanza, tecnofili eccitati in servizio permanente effettivo, mass/social media, politici e governi e soprattutto tecnocrazie, guru della Silicon Valley e non solo, dicono di sì e lo ripetono ogni giorno, più volte al giorno e anche noi ormai lo ripetiamo come un mantra: senza digitale, niente transizione ecologica.
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Ma, a guardare bene, sembra una ulteriore forma di greenwashing se è vero, ed è vero, che l’unico modo per (almeno) attenuare la crisi climatica e ambientale è quella, radicale, di modificare profondamente, rovesciandolo, il nostro irrazionale modello di produzione e di consumo che appunto ha generato questa crisi ambientale.
Modello tecnico-economico di cui il digitale è parte oggi fondamentale e quindi – razionalmente – è davvero difficile credere che qualcosa che alimenta e accresce questo sistema irrazionale possa aiutarlo a diventare razionale o meno irrazionale.
È appunto una evidente contraddizione in termini, eppure il sistema lavora incessantemente – e con grande successo mediatico – per mascherare questa contraddizione.
L’impronta insostenibile del digitale
A comprendere meglio il rapporto – o il conflitto – tra digitale (cioè capitalismo) ed ecologia, ci aiuta un libro fresco di stampa: “Inferno digitale”, del francese Guillaume Pitron, giornalista e documentarista, vincitore nel 2017 del premio Érik Izraelewicz del quotidiano Le Monde per il giornalismo economico d’inchiesta. Un libro del 2021 e ora meritoriamente tradotto in italiano da Luiss University Press.
Il sottotitolo è chiarissimo per definire i contenuti del libro: “Perché Internet, smartphone e social network stanno distruggendo il nostro pianeta”. Già, perché? E perché non ce ne accorgiamo, travolti come siamo da parole come smart, de-materializzazione, cloud, virtuale?
Prima di tutto – scrive Pitron – “perché le tecnologie digitali generano [appunto, ma questa è la forza manipolativa del loro storytelling, in alleanza con il nostro feticismo infantile per la tecnica] un malinteso. Secondo i loro araldi, l’universo digitale sarebbe poco più concreto di una nuvola, il famoso cloud nel quale archiviamo documenti e fotografie”.
E dove giochiamo virtualmente, commerciamo online e “ci scanniamo su Twitter” davvero credendo che “questo non smuova, a prima vita, neanche un grammo di materia, un elettrone o una goccia d’acqua. In sintesi, è opinione diffusa che il digitale non abbia alcun impatto materiale”.
Ma la realtà è invece molto diversa dal racconto che il digitale fa di sé stesso. E questo libro lo dimostra, essendo un libro di inchiesta: “Per due anni di seguito abbiamo seguito, su quattro continenti, il percorso delle nostre e-mail, dei like e delle foto delle vacanze. Per farlo abbiamo dovuto attraversare le steppe della Cina settentrionale alla ricerca del metallo che fa funzionare gli smartphone, percorrere le vaste pianure del circolo artico dove si raffreddano gli account di Facebook e indagare sul consumo di acqua di uno dei più grandi data center del pianeta, quello della National Security Agency (NSA), costruito in uno degli stati più aridi degli Usa”.
E così scoprendo che il digitale – apparentemente immateriale – è in realtà “un intramondo costituito da data center, centrali idroelettriche e a carbone e da miniere di metalli strategici, tutto unito da una tripla ricerca: di potenza, di velocità e di freddo”. Sempre per la massimizzazione capitalistica del profitto privato – e quindi “gli industriali useranno tutti gli stratagemmi possibili per accrescere la nostra dipendenza dai loro prodotti”.
Ma soprattutto scoprendo – l’inchiesta di Pitron – che “l’industria digitale mondiale consuma così tanti materiali, acqua ed energia da rendere la sua impronta ecologica tre volte quella di un paese come la Francia o l’Inghilterra. Le tecnologie digitali consumano oggi il 10% dell’elettricità prodotta nel mondo (ossia l’equivalente della produzione di 100 centrali nucleari) e generano quasi il 4% delle emissioni globali di CO2, ovvero poco meno del doppio dell’aviazione civile mondiale”. Di più: il consumo elettrico del digitale aumenta del 5-7% ogni anno e quindi potrebbe richiedere, nel 2025, il 20% dell’elettricità mondiale, con le emissioni di CO2 raddoppiate entro lo stesso anno.
Da qui il problema di come regolamentare le imprese digitali non solo in termini di privacy da rispettare, di spionaggio commerciale da vietare, ma anche dal punto di vista ambientale. Problema delle stesse imprese, ma da tutt’altro punto di vista, che devono cercare di sembrare green mentre coltivano “la nostra ignoranza riguardo la loro impronta materiale” anche creando – analogamente all’industria del tabacco e del petrolio – falsi studi o rapporti e gruppi di ricerca di fatto a-scientifici, cioè di parte, ma capaci di far passare nell’opinione pubblica il messaggio che il proprio impatto ecologico è limitato, promettendo addirittura un guadagno netto per la biosfera.
Ovvero, continua Pitron, “il digitale non è, nella stragrande maggioranza dei casi, messo al servizio del pianeta e del clima. Pur essendo così evanescente, paradossalmente ci farà scontrare con i limiti fisici e biologici della nostra casa comune” – perché basato su una tecnologia (per altro utilissima per una infinità di cose) che, “in nome di un ideale quasi mitico di dematerializzazione, sta creando una modernità incredibilmente materialista”.
Questo non escludendo, ovviamente, che nel mondo esistano “reti e comunità di pionieri che ritengono sia concretamente possibile un digitale più sobrio e rispettoso dell’ambiente”. Ma sono casi ancora (troppo) limitati, aggiungiamo, che non modificano la potenza del digitale capitalistico e la sua pesantezza ecologica – per non parlare di quella sociale, nell’organizzazione del lavoro, nella ingegnerizzazione dei comportamenti individuali e sociali.
Materie prime e totalitarismo
Pitron riporta nel suo libro un elemento interessante, utile proprio per valutare l’impatto/impronta ecologica del digitale: “Fate un giro in un mercatino dell’usato. Vi imbatterete sicuramente in un vecchio telefono degli anni Sessanta, con il quadrante circolare: all’epoca, per produrlo servivano al massimo una decina di materie prime, come alluminio e zinco. Negli anni Novanta, un telefono conteneva altri 19 metalli aggiuntivi, tra cui rame, cobalto o anche piombo”. Oggi invece uno smartphone “contiene molte più materie prime, come oro, litio, magnesio, silicio, bromo…in tutto oltre cinquanta!”
E ancora: “Il digitale inghiotte il 15% del palladio, il 23% dell’argento, il 49% del tantalio, il 41% dell’antimonio, il 42% del berillio, il 66% del rutenio, il 70% del gallio, l’87% del germanio e addirittura l’88% del terbio”. Eppure, lo storytelling del digitale ci narra che lo smartphone è “un bell’oggetto, che trasmette un’idea di purezza. In che modo una cosa così bella potrebbe essere sporca?”
E invece è sporca in sé e sporca (anche di rifiuti digitali) è la sua produzione che impatta sull’ambiente; ed è sporca e ci sporca perché ci profila/spia, perché “è praticamente impossibile rendere i dati anonimi”, cioè “i dati anonimi sono una barzelletta”, come ricorda Pitron citando fonti autorevoli.
E quindi – aggiungiamo ancora una volta, questo esito sembrandoci uno scandalo di questa nostra ipermodernità – il digitale permette al capitalismo di fare molto più efficacemente e per profitto privato ciò che facevano i totalitarismi politici/ideologici del Novecento, appunto uno spionaggio di massa. Le imprese, oggi, dicono di farlo per aiutarci e per consigliarci e renderci la vita più semplice; in realtà lo fanno perché noi siamo la materia prima di cui necessitano per accrescere il loro profitto. Incredibile – aggiungiamo ancora – è che dopo avere condannato lo spionaggio di massa dei totalitarismi politici del XX secolo come cosa abominevole, illiberale, appunto totalitaria, noi tutti si accetti di essere ancor di più massivamente sorvegliati e spiati da imprese industriali e commerciali.
E dopo i dati arrivano i data broker, “intermediari discreti che comprano dati, compilano profili e li rivendono al miglior offerente. Il profilo di un consumatore può raccogliere 1.500 parametri venduti separatamente (circa 30 centesimi di euro per un nome e cognome) e più raramente in blocco (600 euro in media). Il mercato mondiale si avvicina ai 300 miliardi di euro”. Per non parlare dei QR code, ricorda Pitron. Ovvero, ciò che da noi occidentali è tanto esecrato – il sistema cinese di credito sociale – è solo la versione più evidente di ciò che da tempo viviamo nei paesi occidentali (ma criticare i cinesi è il mezzo migliore, per l’industria del digitale, per nascondere ciò che accade nelle cosiddette democrazie liberali).
E dunque? Pitron si chiede “se saremo in grado di sostenere tecnicamente la crescita esponenziale dei dati prodotti, scambiati, archiviati e trattati. Tenuto conto dell’energia e delle risorse che l’infrastruttura digitale richiede, le reti potranno assorbire lo tsunami immateriale di dati annunciato dal 5G e dall’Internet of Everything? La nostra società iperconnessa genera in effetti un cambiamento radicale di paradigma: le sfide di un mondo drogato di abbondanza sono ormai ancor più grandi di quelle di un mondo schiavo della scarsità. L’accumulo sta diventando più letale della mancanza”.
Conclusioni
E quindi – conclude Pitron, secondo noi però con un eccesso di ottimismo nella capacità umana di controllare e di governare i processi di innovazione tecnologica e capitalistica – “questa tecnologia è – e sarà – né più né meno ecologica di quanto lo siamo noi. Se ci piace sprecare risorse alimentari ed energetiche, il digitale accentuerà questa inclinazione. […] Questo strumento [ma noi ci domandiamo: è ancora uno strumento, cioè un mezzo; oppure l’Internet of Everything è il fine e il destino a cui ci vuole portare il tecno-capitalismo affinché tutto sia automatizzato e amministrato dalle macchine e dal capitale, negando di fatto ogni consapevolezza e ogni responsabilità umana?], questo strumento opera come un catalizzatore delle nostre iniziative quotidiane, di quelle meno meritevoli come di quelle più nobili. In fin dei conti il digitale ci invita, da demiurghi quali siamo diventati, in gran parte incoscienti degli innumerevoli poteri di cui abbiamo ormai la responsabilità, a maturare questa potente esortazione del mahatma Gandhi: Siate il cambiamento che volete vedere nel mondo”.
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Note
- E di una ulteriore digitalizzazione del mondo, fino ad arrivare all’Internet of Everything ↑