Sono due, a mio parere, i movimenti che una “Italia che vuole cambiare al suono del digitale” deve saper compiere.
Il primo comporta un rovesciamento di prospettiva che ancora non è stato tematizzato a sufficienza e che riguarda l’affermazione e l’acquisizione del primato della tecnologia digitale sulla logica delle procedure amministrative che ancora la precedono e le dettano legge. In poche parole: una dirigenza pubblica ancora poco incline alle tecnologie dell’informazione e della comunicazione non può continuare ad utilizzarle (meglio sarebbe dire a “subirle”) come mera duplicazione delle procedure pensate dal pensiero burocratico per lo più illiberale che considera i cittadini come sudditi. É – al contrario – la logica delle tecnologie a dettare i passaggi e non viceversa; una logica che paradossalmente mette al centro del processo di cambiamento una vista organizzativo-centrica secondo la quale occorre plasmare – partendo “prato verde” – l’assetto dell’ente in relazione alle potenzialità offerte dalle tecnologie digitali.
Il secondo movimento mette in discussione l'”illusione centralistica” che compare ad ogni delusione (e sono tante!) conseguente la messa in atto di qualsiasi processo riformatore nel nostro Paese. Non basta un indirizzo (per quanto giusto) dal centro. Esso deve accompagnarsi ad una manovra territoriale dal basso. In buona sostanza ci vogliono degli aggregatori locali simili , nel ruolo e nella posizione , alle nostre province: furono capaci storicamente di aggregazione nel versante delle nostre infrastrutture fisiche. Allo stesso modo dobbiamo immaginare dei (nuovi) cluster territoriali capaci di costruire, localmente, e per un aggregato di enti, il modello di architettura digitale indirizzato dal centro secondo una prospettiva che mira, da un lato, allo sfruttamento delle economie di scala e, dall’altro, rende possibile un cambiamento che ben difficilmente singoli enti locali sarebbero in grado di perseguire autonomamente.