La diffusione della tecnologia nella nostra quotidianità ha portato ad un’accelerazione dei ritmi della nostra vita, sia lavorativa che privata. Se fino a qualche tempo fa bisognava aspettare qualche giorno per ricevere una lettera di carta, oggi viviamo in una condizione in cui il “mi serve per ieri” è la norma. Tutto questo ha portato ad un approccio al lavoro che oggi definiamo spesso con orgoglio multitasking, il quale ha dato vita a fenomeni come il workaholism e il burnout.
Una condizione che porta sempre più persone verso una stanchezza fisica cronica, e ad un vero e proprio esaurimento cognitivo.
Gli effetti negativi di un rapporto non equilibrato col digitale
Lo stress ci accompagna in ogni momento delle nostre giornate, giornate spesso segnate da stati di ansia più o meno forti. Tutto questo porta molte persone a soffrire di insonnia e/o ad una bassa qualità del sonno (dato che si può evincere dai molti report dedicati a questo tema, come il report Stress in America 2021 – Stress and Decision-Making During the Pandemic dell’American Psychological Association).
Stress, ansia, esaurimento fisico e cognitivo sono figli di comportamenti che oggi possono essere considerati quasi patologici.
La presenza nella nostra quotidianità dei dispositivi digitali ha notevolmente contribuito ad accentuare questa condizione. Ovviamente, non si può affermare che sono l’unica causa, ma sicuramente sono fra le cause principali.
È sufficiente soffermarci su fenomeni emersi negli ultimi anni, come, ad esempio, la nomofobia (NO Mobile Phone PhoBIA), il phubbing (termine nato dalla crasi delle parole phone e snubbing), la FOMO (Fear Of Missing Out), la ringxiety, la textiety o lo sharenting (dall’unione del verbo “to share” e dalla parola “parenting”).
Termini che descrivono comportamenti “negativi” causati da un rapporto non equilibrato con i dispositivi digitali, e che sono la cartina di tornasole di quanto questi ci stiano condizionando. Tanto che oggi fra gli esperti del settore si discute su quanto l’analfabetismo funzionale sia diventato un’emergenza. Come ha riportato la giornalista Elisa Murgese nell’articolo “Analfabeti funzionali, il dramma italiano: chi sono e perché il nostro Paese è fra i peggiori” apparso sull’Espresso il 21 marzo 2017.
Anche gli adolescenti sono toccati da questo fenomeno. Il rapporto OCSE-PISA 2018 ha messo in evidenza un dato molto interessante riguardo alla capacità definita nel rapporto “literacy”, che è definita nel rapporto OCSE-PISA come “la capacità degli studenti di comprendere, utilizzare, valutare, riflettere e impegnarsi con i testi per raggiungere i propri obiettivi, sviluppare le proprie conoscenze e potenzialità e partecipare alla società”.
Gli studenti italiani hanno ottenuto in questa competenza 476 punti, un punteggio molto inferiore alla media dei Paesi OCSE, che è di 487 punti. Un risultato che li ha collocati tra il 23° e il 29° posto dei Paesi OCSE.
La dipendenza dai dispositivi digitali, ed in particolare dallo smartphone, ha addirittura portato alla definizione di un nuovo termine: smombie (dall’unione delle parole smartphone e zombie). Entrato oramai come neologismo nel dizionario Treccani, e che definisce il profilo di quelle persone che manifestano una patologica dipendenza dallo smartphone, tanto da camminare per la strada senza guardare ciò che si ha attorno, arrivando così a sbattere contro pali, porte, inciampare sulle scale, e così via.
Gli impatti negativi dell’economia dell’attenzione
Cosa ci ha portati ad assumere questi comportamenti? Comportamenti che chiunque, fermandosi a riflettere qualche istante, comprende non essere compatibili con la natura umana e, di conseguenza, non essere propedeutici alla creazione di una condizione di benessere nella nostra vita?
Per capire il “perché”, è necessario unire fra loro dei fatti che apparentemente non sembrano essere connessi. Un po’ come nel gioco “unisci i puntini” che si trovano nelle riviste dedicate all’enigmistica dobbiamo compiere un piccolo viaggio nel tempo.
Questi che ho descritto nelle righe precedenti sono, infatti, gli effetti negativi, le conseguenze, di un fenomeno che oggi è conosciuto come economia dell’attenzione.
Siamo tutti più smemorati, colpa degli smartphone? Gli studi
Il primo a parlare di economia dell’attenzione è stato Herbert Simon. Nel 1971 nell’articolo Designing Organizations for an Information-rich World pubblicato nel volume M. Greenberger (Ed.), Computers, communications, and the public interest dalla casa editrice MD: The Johns Hopkins Press a Baltimora (Stati Uniti d’America).
In questo articolo, Simon, osserva che “ciò che l’informazione consuma è piuttosto ovvio: consuma l’attenzione dei suoi destinatari. Quindi una ricchezza di informazioni crea una povertà di attenzione e la necessità di allocare quell’attenzione in modo efficiente tra la sovrabbondanza di fonti di informazione che potrebbero consumarla”.
Tiziana Terranova, nel suo saggio “Cervello sociale, apprendimento ed economia dell’attenzione nella cultura digitale”, contenuto nel volume “Quali culture per altre educazioni possibili?” edito da Franco Angeli scrive: “L’attenzione è quella risorsa scarsa consumata da ciò che è abbondante”.
Michael Goldhaber, in un suo celebre articolo apparso sul The New York Times il 4 febbraio 2021, intitolato I Talked to the Cassandra of the Internet Age, ha definito l’economia dell’attenzione come un “sistema che ruota principalmente attorno al pagare, ricevere e cercare ciò che è più intrinsecamente limitato e non sostituibile da nient’altro, vale a dire l’attenzione di altri esseri umani”.
Come nota Nicholas Carr nel suo libro The Shallows edito dalla W. W. Norton & Company nel 2010: “ciò che internet sta facendo al nostro cervello, l’esposizione ripetuta ai media online richiede un cambiamento cognitivo da un’elaborazione intellettuale più profonda, come il pensiero focalizzato e critico, a processi veloci di pilota automatico, come la scrematura e la scansione, spostando l’attività neurale dall’ippocampo (l’area del cervello coinvolta nel pensiero profondo) alla corteccia prefrontale (la parte del cervello impegnata in rapidità, transazioni subconsce). In altre parole, stiamo scambiando la velocità per l’accuratezza e diamo priorità al processo decisionale impulsivo rispetto al giudizio deliberato […] Internet è un sistema di interruzione. Cattura la nostra attenzione solo per rimescolarla”.
La professoressa Shoshana Zuboff, della Harward Business School, ha definito questo modello economico, nel suo libro The Age of Surveillance Capitalism: The Fight for a Human Future at the New Frontier of Power (pubblicato dalla casa editrice Profile Books nel gennaio del 2019): capitalismo della sorveglianza.
Quali sono le condizioni che hanno permesso al capitalismo della sorveglianza di nascere e di generare a sua volta l’economia dell’attenzione?
La tempesta perfetta
Per comprendere queste cause dobbiamo soffermarci su alcuni fatti. Viviamo in un momento storico che è definibile come una vera e propria “tempesta perfetta”, che offre, come mai prima, alle aziende tantissime occasioni di business e a manipolatori e imbonitori le condizioni per approfittare delle persone.
Dal telefax a internet
Il seme dell’economia dell’attenzione è stato piantato molto tempo fa. Intorno alla metà del XIX secolo l’invenzione da parte di Alexander Bain della tecnologia che sarà la base dei telefax, dà il là a quella progressiva velocità di propagazione delle informazioni che continua tutt’oggi.
Di invenzione tecnologica in invenzione tecnologica, l’essere umano è stato in grado di svolgere i medesimi compiti in sempre meno tempo. Ad inizio XIX secolo la ricezione di una lettera poteva richiedere settimane se non mesi. Il telegrafo di Samuel Morse nel 1837 permise di far arrivare un breve messaggio in poche ore a migliaia di chilometri di distanza, il telefax velocizzerà ancora di più questa capacità di invio di messaggi.
Il 10 marzo 1876, Alexander Graham Bell effettua la prima telefonata ufficiale della storia. In pochi secondi si ha la possibilità di parlare con qualcuno a grande distanza. La nascita della rete, poi, ha creato le condizioni per permettere in pochi anni ad ogni persona di accedere sempre più facilmente a qualsiasi tipo di informazione.
È il 1969 quando viene accesa ARPANET, la rete creata dall’esercito degli Stati Uniti d’America che sarà poi la base tecnologica di quella che oggi chiamiamo internet.
Al progredire del numero di utenti connessi alla rete, le attività che questi potevano svolgere sulla rete si sono moltiplicate. Queste attività hanno così iniziato a produrre delle tracce. Hanno iniziato a produrre dati. Dati a cui una manciata di aziende ha iniziato a guardare con grande interesse.
La conseguenza è stata quella di innescare un circuito che si autoalimenta. Le aziende hanno investito sempre più risorse nella creazione di contenuti e servizi fruibili attraverso la rete, il numero degli utenti di conseguenza è costantemente aumentato, e soprattutto è aumentato il tempo trascorso sulla rete.
La rete ha permesso di inviare una e-mail in qualche istante in qualsiasi parte del pianeta. Ha permesso l’invio di foto, video, messaggi audio ovunque ci fosse la possibilità di collegarsi alla rete. L’essere umano riesce sempre meno a tenerne il passo alla quantità di informazioni da gestire in un breve periodo di tempo, tanto che si inizia a parlare negli Stati Uniti nei primi anni 2000 di information overload, cioè di un fenomeno di esaurimento cognitivo causato da un eccesso di informazioni, come scriveva nel 2011 il mio caro amico Jonathan G. Spira nel suo Overload – How Too Much Information is Hazardous to Your Organization edito dalla John Wilery & Sons Inc., di Hoboken (New Jersey).
L’information overload diventa un tale problema che Spira assieme ad un altro esperto di information overload, Nathan Zeldes (altro caro amico), danno vita allo IORG, l’Information Overload Reasearch Group (rete internazionale di ricercatori e studiosi di cui mi onoro di far parte).
Con gli smartphone siamo arrivati al punto di non ritorno
Tutto cambia con l’introduzione dei primi esemplari di telefoni intelligenti, di smartphone. Con l’arrivo sul mercato di questi dispositivi si raggiunge il punto di non ritorno. Gli smartphone riescono a concentrare nella mano di ogni essere umano servizi che fino a prima dovevano essere fruiti da un luogo preciso. A casa, in ufficio, e così via… Con l’introduzione dello smartphone, assieme alle telefonate, arrivano ovunque ci troviamo, e-mail, messaggi, fotografie, immagini, vocali, canzoni, e una mole praticamente indefinita di informazioni di qualsiasi tipo. Non è più necessario disporre di un computer e di un cavo telefonico per collegarsi alla rete.
Iniziano così a sparire dalla nostra vita le cabine telefoniche pubbliche, i telefoni fissi, telefax e altre tecnologie diventano obsolete in pochissimo tempo. Nella nostra vita entrano le “App”.
Software facili da utilizzare, progettati per stimolarci a produrre continuamente a nostra volta informazioni, che veicoliamo attraverso la rete. Progettate per stimolarci a produrre dati, preziosi dati, che le aziende del settore digitale possono utilizzare per prosperare.
A questo punto l’essere umano è costretto a gestire una mole di informazione sempre maggiore. Telefonate, messaggi testuali, vocali, video, notifiche dai social network, e-mail, differenti applicazioni di messaggistica istantanea e così via.
Una mole di informazioni che fatica a gestire. Per chi ha dei figli l’esempio più semplice sono i gruppi WhatsApp che i genitori che hanno i figli nella stessa classe creano per tenersi aggiornati, diventando delle vere e proprie giungle di informazioni.
Come scrivevo qualche riga sopra, questo fenomeno era già stato percepito in tempi non sospetti. Infatti, è stato definito per la prima volta nel 1964 da Bertram Myron Gross nella sua opera The Managing of Organizations: the Administrative Struggle. A cui seguirà il lavoro del 1986 di Orrin Edgar Klapp, pubblicato nel suo libro Overload and Boredom: Essays on the Quality of Life in the Information Society.
L’illusione del multitasking
Uno dei temi di “tendenza” nel mondo del lavoro in questo periodo è rappresentato dalla parola “burnout”. Condizione che nasce da differenti comportamenti, come, ad esempio, il “workhaolism” o il cercare di affrontare la propria vita lavorativa (e privata) in modalità multitasking.
La nostra quotidianità, sia lavorativa che privata, è sempre più segnata dalla velocità. La mancanza di tempo, infatti, scandisce le nostre vite. Tanto che le parole “mi serve per ieri” sono diventate quasi un mantra che di continuo ci ripetiamo e ripetiamo alle persone che ci stanno attorno.
La realtà è che ci illudiamo di poter lavorare in modalità multitasking. Sono molti i ricercatori che si sono dedicati a questo problema, per citare i principali: Earl Miller professore del MIT che a partire dalla metà degli anni 2000 ha studiato con attenzione il perché non è possibile per un essere umano comportarsi in modalità multitasking. Lo psicologo Daniel J. Levitin, che nel suo libro pubblicato nel 2014 The Organized Mind: Thinking Straight in the Age of Information Overload afferma: “Il multitasking ci rende meno efficienti e comporta un vero e proprio esaurimento delle funzioni cerebrali”, e prosegue: “Il tipo di spostamento rapido e continuo che operiamo con il multitasking, fa sì che il cervello bruci il combustibile così rapidamente che ci sentiamo esausti e disorientati anche dopo breve tempo”.
Il dato più interessante, è però del 2005, quando la HP commissiona uno studio allo psicologo Glenn Wilson, per capire gli effetti negativi dell’eccesso di informazioni per un lavoratore. Wilson, valuterà che una persona soggetta ad un eccesso di informazioni, messa in una condizione di multitasking, diventa mene efficiente, commette più errori e soprattutto può arrivare a veder ridurre il proprio Q.I. (quoziente intellettivo) di 10 punti. Definirà questa condizione “infomania”.
Se le aziende nei primi anni 2000 da un lato comprendono le potenzialità economiche che offre la nascente economia dell’attenzione, dall’altro lato iniziano anche a comprendere che il cercare di catturare costantemente l’attenzione delle persone, in particolare dei lavoratori, può avere un costo piuttosto salato.
Le aziende che del monitoraggio dei dati prodotti dagli utenti hanno fatto il loro business (capitalismo della sorveglianza), sono spinte ad ottenere sempre più dati. Per riuscire in questo hanno la necessità di catturare l’attenzione degli utenti (economia dell’attenzione). Ma catturare l’attenzione di una persona significa distrarla dal compito che sta svolgendo.
Questa distrazione è un’interruzione, che ha costi economici per le aziende, ma ha anche dei costi sociali (basta pensare al numero di incendi automobilistici causati dalla distrazione per colpa degli smartphone). Nel 2008 la ricercatrice Gloria Mark del Department of Informatics della University of California di Irvine pubblica The Cost of Interrupted Work: More Speed and Stress. Un interessante studio esamina i costi che le aziende devono sostenere per colpa delle distrazioni, cioè delle interruzioni di lavoro causate dal fatto che l’attenzione di una persona è catturata da una notifica, da una e-mail, da una telefonata e così via. Nello studio riporta che ci vogliono in media 23 minuti e 15 secondi per tornare concentrati.
La celebre foto scattata dal fotografo Eric Smith nel 2015 che ritrae un uomo seduto sulla cabina della propria barca intento a scrivere un messaggio e che non si accorge che a pochi centimetri da lui sta passando una balena è diventata il simbolo di questo fenomeno.
Nel 2009, Jonathan B. Spira stima nel suo studio Intel’s War on Information Overload: A Case Study, in 900 miliardi di dollari il costo che le aziende statunitensi devono sostenere per colpa del sovraccarico di informazioni.
È notizia di questi giorni, come una la ricerca Association of Habitual Checking Behaviors on Social Media With Longitudinal Functional Brain Development pubblicata su JAMA Pediatrics, condotta da Maria T. Maza e da altri suoi colleghi dell’Università della Carolina del Nord di Chapel Hill, ha messo in evidenza come i bambini che crescono controllando i social media con una certa frequenza diventando ipersensibili al feedback dei loro coetanei.
Questo è uno dei primi studi a lungo termine sullo sviluppo neurale adolescenziale e sull’uso della tecnologia. Il controllo abituale dei social media da parte degli adolescenti e legato ai successivi cambiamenti nel modo in cui il cervello rispondo al mondo che li circonda. È fondamentale, quindi, considerare quando si comprendono i benefici e i potenziali danni associati all’uso della tecnologia in età adolescenziale.
Ma tutto questo come è possibile che stia avvenendo? Perché le aziende dell’economia dell’attenzione prosperano così “facilmente”? Come è possibile che la nostra attenzione possa essere così facilmente catturata e, soprattutto, sfruttata da un punto di vista economico, senza che noi ne possiamo essere consapevoli?
La risposta, per quanto incredibile, sta in un fatto biologico. L’essere umano, infatti, si è evoluto sviluppando il proprio cervello e la propria mente in un modo tale che è di fatto incompatibile con le condizioni che ho illustrato in questo articolo.
La biologia del nostro cervello non consente una vita settata in modalità velocità/multitaksing e quando proviamo a vivere in questa modalità, il conto da pagare è piuttosto salato.
Il perché lo puoi leggere nell’articolo Burattini per scelta? Molto spesso si!