La battaglia sul mercato dell’app economy oggetto di dibattito in questi mesi si è più che altro incentrata sulle fee imposte da Apple e Google sui propri app store; tuttavia, il problema da sempre presente – e che è forse è il più evidente – riguarda proprio l’ecosistema Apple. Le regole che lo caratterizzano determinano un’esperienza utente limitata che paradossalmente ci induce a dubitare che l’iPhone sia davvero nostro (e non in leasing). Vediamo perché.
Chiedere il meteo a Google, nell’era in cui gli assistenti vocali si trovano praticamente ovunque, dovrebbe essere un’operazione semplicissima. Eppure, i possessori di iPhone, nella migliore delle ipotesi dovrebbero pronunciare qualcosa come: “Ehi Siri, ok Google”. Questa frase bizzarra nasce dall’unico workaround con cui si riesce ad utilizzare un assistente vocale diverso da quello di fabbrica, Siri appunto.
Pensate adesso di dover fare lo stesso artifizio per aprire un browser diverso da Safari sul vostro MacBook. Per analogia, ogni volta che vorrete navigare su internet, dovreste aprire Safari e chiedergli di passare a Google Chrome. Sarebbe inaccettabile, intollerabile. E infatti, sul vostro laptop, sia che si tratti di un Mac o di un qualsiasi pc Windows, potete tranquillamente impostare come browser preferito quello che volete, senza difficoltà aggiuntive rispetto a quello fornito dal produttore.
Eppure, sul nostro iPhone, che costa mediamente di più di un laptop, accettiamo questa limitazione. E non è finita qui, ne accettiamo di peggiori, accettiamo questi vincoli che rendono difficile e spesso impossibile scegliere quale software utilizzare per compiere le nostre azioni quotidiane.
La politica di Apple
Fin dal principio, con il lancio del primo iPhone, Apple ha sempre imposto uno stretto controllo su tutto ciò che poteva entrare ed uscire dal proprio smartphone. Chi acquista un iPhone sa che troverà tutto ciò che la stessa Apple ha disegnato e progettato per rispondere alle esigenze dei proprio utilizzatori.
Questa scelta era certamente vincente dieci anni fa. Gli smartphone erano appena stati lanciati, i servizi e le applicazioni scarseggiavano, molti di quelli che c’erano offrivano spesso una pessima esperienza utente e in alcuni casi nascondevano minacce. Steve Jobs con i suoi iPhone offriva un’esperienza utente pulita, tutelata e completa. Coerente con tutti gli altri prodotti del celebre brand della mela morsicata.
Nel 2021 tuttavia, le precedenti motivazioni non possono far altro che crollare di fronte ad una vasta e variegata offerta di applicazioni e servizi di qualità eccellente. In tanti casi le alternative al di fuori del brand Apple sono giudicate più complete e performanti da una grossa fetta di utenti Apple. Google Assistant è senza dubbio un assistente vocale performante al pari di SIri e, per alcuni use-case, senza dubbio da preferire. Possedere uno smartphone – seppur performante e rifinito nei minimi dettagli – che non ci consente di utilizzare facilmente e come prima scelta questi servizi, pregiudica la nostra quotidiana esperienza d’uso.
iPhone: un’esperienza utente limitata
Chi possiede un iPhone e vuole avviare l’assistente vocale senza l’utilizzo delle mani, ma direttamente con la voce, deve necessariamente pronunciare “Ehi Siri”. Utilizzare queste keywords per risvegliare il dispositivo è imprescindibile. Impostare un altro assistente di default è impossibile. Gli aggiornamenti degli ultimi anni hanno permesso, sempre tramite Siri, di richiamare altre applicazioni con la voce, tra queste anche altri assistenti vocali. Per riuscirci, dobbiamo affidarci alle shortcut di Siri, una sorta di collegamento vocale alle app. Con una sorta di “Ehi Siri, passami Google” possiamo riuscire ad utilizzare l’assistente di Google, non c’è altro modo. Ma quanto è macchinoso? Tanto.
Siri è solo una delle tante imposizioni di default del mondo Apple. Ad oggi, restano ancora imposte di default: Messaggi, l’app per le chiamate, la fotocamera e le mappe. Sebbene siamo in grado di installare Google maps, quando occorre interagire con indirizzi e indicazioni stradali, il sistema operativo avvia in automatico Mappe. Fino allo scorso anno non era possibile impostare in autonomia le nostre app preferite per la navigazione sul web e la consultazione della posta.
All’interno del nostro iPhone conserviamo una parte importante della nostra vita digitale ed è giusto tutelarla nel migliore dei modi. iCloud si occupa di caricare un backup criptografato dei nostri dati direttamente sui suoi server mentre il telefono non è utilizzato. L’ipotesi di affidarsi a servizi esterni come Google Drive è preclusa. Così come preclusa è la possibilità di conservare il backup su due differenti servizi. Come già approfondito in passato è buona norma duplicare i propri backup in differenti posizioni e servizi. Nella – seppur remota – possibilità che la porzione di iCloud che ospita i nostri dati venga meno, non avremmo altre opzioni di recupero. L’applicazione delle foto si comporta allo stesso modo, ma quando terminiamo i 5 giga gratuitamente offerti? Non possiamo far altro che pagare. I recenti updates hanno reso possibile – ma non immediato – l’upload delle foto su servizi come Google Photo.
Un’altra azione di uso comune, a cui dovrà rinunciare un utente Apple, è l’acquisto di ebook, film o altri contenuti digitali da app store che non siano quelle proprietarie. Completare, ad esempio, l’acquisto di un ebook dall’app del Kindle per iphone è impossibile. Per riuscirci, dobbiamo necessariamente acquistare prima dal sito tramite browser per poi, ritornando nell’app del Kindle, ritrovarci l’acquisto appena fatto nella nostra libreria. Stiamo parlando di un bene che, seppur digitale, è assimilabile ad un qualunque altro bene come un libro cartaceo o una stampante. A differenze dei beni digitali, quelli materiali sono tranquillamente acquistabili tramite l’app di amazon. Non ha senso.
Un approccio paradossale
Un utente che da Android passa ad iPhone non può non notare il paradossale approccio di Apple al comparto comunicativo.
L’app dei messaggi offre una serie di utili funzionalità come la crittografia delle chat a patto che, però, si comunichi esclusivamente con altri iPhone. Se infatti proviamo ad inviare un messaggio al di fuori di questa cerchia – certamente ampia ma non totalitaria – il messaggio moderno e pluri-funzionale si trasforma in un giurassico sms. E non potrebbe essere altrimenti, visto che il destinatario sprovvisto di iPhone non potrebbe mai ricevere e leggere il messaggio se non tramite sms. L’app dei messaggi di Apple è disponibile esclusivamente per iPhone. Fortuna che non abbiano pensato di utilizzare il fax per comunicare con il mondo esterno.
Stessa cosa vale per FaceTime. Servizi performanti e utili che tuttavia tagliano fuori tutti gli altri, venendo relegati esclusivamente a dialogare con i membri di questa “élite”.
Per garantire che tutte le applicazioni che approdano sull’iPhone siano in linea con i propri principi e restrizioni, Apple consente il download delle app da uno unico store, il proprio. Tramite questo, tutte le applicazioni che non rispettano i regolamenti imposti vengono filtrate e bannate. In aggiunta, qualunque applicazione che assomigli vagamente a un app store, viene prontamente bloccata. Celebre è il caso di AppGratis, l’applicazione che ogni giorno selezionava un’applicazione a pagamento e offriva ai propri utenti la possibilità di scaricarla gratuitamente. Dopo svariati anni sullo store venne rimossa e bannata per la sua “somiglianza” ad uno store, nonostante attingesse comunque al catalogo controllato dell’app store. Questo potrebbe essere un principio di prova, seppur del passato, del modus operandi di Apple a sostegno della tesi di monopolio e di distorsione della concorrenza nel mercato dell’app economy.
La battaglia sulle fee
Fino a ora non abbiamo fatto menzione alle fee trattenute da Apple (così come da Google) sull’acquisto delle applicazioni attraverso gli store e sulle funzionalità aggiuntive. Ma si tratta dell’analisi relativa al medesimo – seppur ancora presunto – meccanismo di distorsione del mercato oggetto della battaglia legale che vede antagonisti di Apple sia Spotify che Epic Games.
Ricordiamo che la Commissione Europea ha emanato, un mese fa, un comunicato di accusa (preliminare) a seguito delle segnalazioni inviate da Spotify.
Le motivazioni in questo “atto di accusa” sono chiare e sono oggetto di molteplici dibattiti nei tribunali statunitensi e nei congressi sulle Big Tech in questi giorni.
La limitazione della concorrenza, data dalla evidente posizione dominante sia di Apple che di Google, appare davvero logica: vige l’obbligo degli acquisti in App, meccanismo che sicuramente fornisce immediatamente un mercato enorme di utenti agli sviluppatori e, in genere, alle software house, ma che allo stesso tempo impedisce loro, di comunicare in qualsiasi modo la possibilità di utilizzare la propria app e di accedere ai propri servizi fuori dall’ecosistema iOS (o Android). Questo bacino di utenza ha un prezzo (per ora il 30% e nel caso di Fortnite, dopo le battaglie in Corte, del 15%) tutto addebitato sui fruitori (inconsapevoli), con la conseguente impennata dei prezzi finali.
Ad avviso di chi si scrive, la decisione del Giudice distrettuale statunitense Yvonne Gonzalez Rogers, nella famosa controversia tra Epic Games ed Apple sarà dirimente nel segmento dell’app economy. In altri termini, se Apple venisse condannata dovrà trovare un nuovo modello di business, quindi un rimedio che avrebbe senza dubbio un impatto enorme in questo settore di mercato. Assisteremmo all’allentamento delle limitazioni ad oggi presenti nell’ecosistema di Apple così come di Google.
Apple al momento si difende sostenendo che eventuali modifiche sul funzionamento attuale, oltre a violare i propri diritti di proprietà intellettuale, vanificherebbe tutto il lavoro effettuato fino ad oggi a protezione della sicurezza e della privacy dei propri utenti, soprattutto a causa dell’assenza della preliminare approvazione delle app ammesse sui dispositivi Apple.
“La privacy, dal nostro punto di vista, è una delle questioni più importanti di questo secolo, e sicurezza e protezione sono le fondamenta su cui si basa la privacy…Le moderne tecnologie hanno accesso a troppi dati, e noi vogliamo fornire alle persone degli strumenti per arginare questo problema” ha affermato Tim Cook dinanzi al giudice americano che emetterà la sentenza di proprio pugno nei prossimi mesi (auspicabilmente ad agosto).