Solo attraverso un controllo da parte della comunità scientifica che abbia a disposizione i dati grezzi si potrà con convinzione procedere a un piano vaccinale che veda ridotte al minimo le defezioni degli scettici.
Una convinzione, questa, che trova il suo fondamento in molteplici elementi, tra cui la radicata certezza che non si esce da una crisi se non si responsabilizzano i cittadini e la parte produttiva del Paese e che questo può avvenire soltanto attraverso la condivisione dei dati.
La lotta al Covid di Joe Biden e l’open government di Obama: cosa hanno in comune
Parto da un esempio che può servire a comprendere meglio il mio ragionamento: nel suo primo giorno di legislatura, il Presidente degli Stati Uniti Joe Biden ha firmato 17 provvedimenti per dare un segno di discontinuità forte con la precedente amministrazione: il primo decreto presidenziale od ordine esecutivo firmato da Biden ha riguardato l’emergenza epidemiologica Covid-19 e la lotta contro il Coronavirus e ha avuto quale focus l’obbligo di indossare la mascherina in tutte le aree di giurisdizione governativa federale, all’interno dei palazzi governativi, negli uffici pubblici e nei mezzi di trasporto di collegamento con i diversi stati USA.
In riferimento ai primi 100 giorni del presidente americano, l’operazione è stata da tutti battezzata come “100 Days Masking Challenge”.
Ebbene c’è una cosa che lega il presidente Barack Obama con il presidente Biden (oltre all’appartenenza politica e al cursus honorum), perché anche il Presidente Obama il suo primo giorno di legislatura ha sottoscritto un documento, a modo suo, storico: un memorandum sulla trasparenza dei palazzi governativi, destinato ai dirigenti governativi federali che intendeva introdurre per la prima volta il concetto di open governement, attraverso il coinvolgimento di ogni singolo cittadino americano, al fine di migliorare il sistema pubblico, utilizzando le risorse economiche e intellettuali delle menti del paese.
La condivisione dei dati per uscire dalla crisi
Entrambi i presidenti furono infatti chiamati a fronteggiare una crisi, economica quella del primo, che ha coinvolto le grandi banche d’affari del paese e le società di rating, facendo emergere un sistema nebuloso che necessitava di una cura d’impatto e di un controllo pubblico che doveva essere trascinata e generata anche con la partecipazione di un settore produttivo della popolazione; sanitaria per il secondo, che necessitava e necessita di una maggiore responsabilizzazione da parte del cittadino che deve necessariamente essere non solo l’oggetto, ma anche il soggetto attivo della politica di prevenzione dalla diffusione del virus.
Due questioni diverse, due vicende separate, che in verità sono legate in modo indissolubile da un sottile filo di collegamento, che non riguarda solo la semplice adesione o la fattiva collaborazione del popolo: entrambe le crisi avevano, hanno e avranno la necessità di un sistema basato sulla condivisione dei dati per essere lasciate alle spalle. Solo attraverso un’attenta informazione ed una condivisione del dato comune è stato e sarà possibile controllare le operazioni della finanza più oscura e solo attraverso la condivisione delle informazioni sarà possibile uscire dalla crisi sanitaria.
Dato bene comune: i benefici per imprese e cittadini
La sola condivisione dei dati viene stimata, in tutta l’Unione Europea come esternalità positiva con un ritorno economico che supera i 70 miliardi di euro.
Le ragioni di tale stima, che peraltro potrebbe essere rivista al rialzo, sono indubitabilmente legate al beneficio che può portare l’utilizzo di un dato condiviso da parte del cittadino e dell’impresa che, semplicemente tramite quel dato, potrebbe sviluppare un business o cercare di migliorare il business esistente.
Analizzando le carenze di un settore, si potrebbe chiaramente ottimizzare le risorse per un servizio con una marginalità produttiva migliore e contestualmente si creerebbe un sistema virtuoso che ha nella trasparenza della macchina amministrativa non solo il suo mezzo, ma anche il suo fine ultimo (e viceversa).
Sono infatti sempre più diffusi i sistemi e gli applicativi che pongono alla base la condivisione di un data base fornito in modo aperto, che permetta al cittadino di attingere da quel dato sia per fornire di un servizio, sia per creare un servizio.
Il nodo della “qualità”
Ma non è solo la quantità dei dati a creare un beneficio nei confronti della collettività, ma è soprattutto la qualità dei dati. Il coinventore del web (inteso proprio come rete globale – il www di world wide web) Tim Berners ha distinto la condivisione del dato in 5 livelli (o stelle).
Una condivisione ottimale, a cinque stelle, prevede che il dato possa interagire tra diversi data set per poter aggiungere informazioni e creare collegamenti tra diversi tipi di istituzioni. Mantenendoci sul doppio binario che esiste tra condivisione del dato ed emergenza epidemiologica emerge come non solo in Italia il dato sia stato poco condiviso, ma anche che il dato condiviso certamente ha delle mancanze evidenti in termini qualitativi: non serve un attento osservatore per poter valutare obsoleta la tabella excel che ormai abbiamo imparato tutti a conoscere, che viene condivisa dalla gestione commissariale governativa.
Per tale ragione il movimento #datibenecomune, promosso da Transparency International Italia, ha scritto una lettera aperta al Presidente del Consiglio nel novembre del 2020 chiedendo una maggiore trasparenza e la condivisione dei dati grezzi all’intera collettività, ricevendo l’adesione di ben 134 associazioni e di oltre 35.000 sottoscrittori.
Il caso Lombardia
Un caso di condivisione “riuscita”, seppur contro probabilmente le intenzioni degli ideatori, è sicuramente il caso lombardo.
La Regione Lombardia, al fine di permettere un tracciamento ed un’analisi dei dati da parte di tutti i sindaci dei comuni della Lombardia, ha creato un sistema che condivideva tutti i dati dei contagi, delle guarigioni, dei ricoverati e dei decessi provenienti da ogni singolo territorio comunale.
Ebbene, grazie a questa semplice condivisione, il sindaco di Peschiera Borromeo, Carolina Molinari, si è accorta nella seconda metà di gennaio 2021 che nel proprio paese vi era un numero spropositato di positivi al Covid 19, lo stesso valeva per il comune di Cesano Boscone, per il comune di Cornaredo e per Segrate. Semplicemente il sistema continuava a sommare i numeri dei positivi nei territori, senza sottrarre il numero di coloro che nel frattempo si erano negativizzati (almeno così si è letto nelle cronache giornalistiche del periodo).
Anche sul punto occorre fare una riflessione. Siamo sicuri che l’utilizzo di dati grezzi e non interpolati dai sistemi non avrebbe permesso di svelare il problema molto tempo prima?
Vaccino bene comune?
Con questo slogan molte parti della società hanno voluto denunciare il paradosso di investire soldi pubblici riversandoli in aziende private che quel vaccino poi avrebbero venduto proprio ai finanziatori pubblici.
Sul punto non posseggo un’opinione in merito, perché, in ogni caso, l’iniziativa privata produce in tutti i campi un rischio di impresa che viene affrontato almeno nella speranza che quel rischio possa generare un giorno un profitto.
Detto ciò, seppur finanziare una ricerca non significhi essere il proprietario dei risultati, un finanziamento pubblico non può limitarsi all’obiettivo di strappare un prezzo migliore, laddove sia i contratti, sia i termini e le condizioni, ma anche i dati siano segregati.
Se l’utilizzo di soldi pubblici non può trasformare l’attività intellettuale privata in collettiva, certamente deve produrre la condivisione dei dati sia in relazione ai costi generali sostenuti dalla comunità, ma anche e soprattutto dei risultati dei trial, in forma aperta, affinché si possa generare un dibattito pubblico sugli esiti dei vaccini stessi.
Il primo a denunciare l’assenza di condivisione dei dati grezzi sui vaccini è stato un professore universitario del Maryland – Peter Doshi – il quale ha evidenziato quale unico dato condiviso da parte di Pfizer/Biontech e di Moderna i soli paper inviati alla FDA (Food and Drug Administration) per un totale di 400 pagine. Il ricercatore analizzando i dati del vaccino della Pfizer ha verificato ben 4.731 casi di esclusione, quindi non inseriti nei risultati dei trial, di soggetti sospetti positivi Covid 19, a seguito della somministrazione del vaccino, che inficerebbe di gran lunga il risultato del 95% di efficacia. L’esclusione sarebbe stata generata da violazione dei protocolli, senza che tale violazione fosse menzionata in dettaglio. Peraltro, l’esclusione dai trial sarebbe giunta secondo lo stesso Professor Doshi dopo la decisione di un comitato composto da 4 membri (non indicati), anche, provenienti dallo staff dell’azienda produttrice.
La condivisione come consapevolezza
Solo attraverso una diffusione dei dati, che riguardano soprattutto i vaccini, si potranno superare le diffidenze della popolazione, che troppe volte è stata garantita dallo stato sulla sicurezza di alcune procedure (le emotrasfusioni di sangue infetto con il virus dell’epatite B, i proiettili con l’uranio impoverito, le polveri dell’amianto). Solo attraverso la condivisione dei dati potremo fregiarci di non dover procedere con l’introduzione dell’obbligo vaccinale, evitando fratture costituzionali difficilmente riparabili in futuro.