la riflessione

OCSE-Pisa: il problema non è della scuola, ma del Paese

Non dobbiamo sottovalutare l’indagine PISA ma neanche cedere alla facile sirena di leggerlo solo come una disfida di risultati: bisogna cogliere l’occasione per migliorare quello che non va. In particolare eliminando le disparità geografiche, le differenze di rendimento legate allo status socieconomico e la dispersione

Pubblicato il 28 Gen 2020

Giovanni Perani

consulente in digital transformation

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Buttando uno sguardo ai risultati della settima edizione dell’indagine PISA relativi all’Italia, quello che dovrebbe saltare all’occhio è quello che manca a una scuola (e a un Paese) in evidente stato di stagnazione: manca un’uniformità nell’applicazione delle pratiche educative, un argine solido all’abbandono scolastico e una centralità della funzione istituzionale nel perseguire una crescita indistinta dei cittadini. Eppure, la stragrande maggioranza degli osservatori ha preferito vincere facile, puntando subito il dito su ragazzi e insegnanti.

Cos’è il PISA

Una volta tanto risulta facilissimo per noi italiani memorizzare un acronimo inglese. Parliamo di PISA, città di illustri studiosi ed architetti, che casualmente sta per “Programme for International Student Assessment”, una ciclica e vastissima indagine internazionale condotta dall’OCSE (Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico) nel campo dell’educazione.

Sotto la lente d’ingrandimento dei test della settima edizione del PISA, conclusa nel 2018, sono passati più di mezzo milione di quindicenni di un’ottantina di Paesi, in Italia poco meno di 12 mila studenti che frequentano il secondo anno di 550 tra licei, istituti tecnici e professionali. Le principali materie di indagine di questa ultima tornata: lettura e comprensione del testo in lingua madre, matematica e scienze, cui si aggiungano le competenze in ambito finanziario, argomento di indagine opzionale. Alcuni questionari collaterali hanno inoltre sondato l’atteggiamento degli studenti nei confronti della scuola e delle esperienze di vita e la familiarità con le tecnologie dell’informazione e della comunicazione.

I risultati complessivi sono stati resi noti all’inizio di dicembre 2019, ma non è così immediato interpretarli né compararli. Bisognerebbe quantomeno conoscere le peculiarità del sistema scolastico e le trasformazioni socio-economiche di ciascun Paese partecipante lungo tutto il corso ormai ventennale delle indagini. Ma questo lo lasciamo deferentemente ai più esperti analisti.

I risultati italiani

Buttiamo invece uno sguardo curioso entro i nostri confini. I dati macroscopici dicono che la matematica è decisamente nelle corde dei quindicenni, soprattutto maschi, e lo è di più rispetto alla comprensione di un testo, molto di più rispetto alle scienze. In generale, però, va rilevato che i punteggi medi di risposta non si discostano molto da quella degli altri Paesi europei, sennonché da noi latitano i cosiddetti “top performers”, cioè le eccellenze, e contestualmente sono aumentati gli insufficienti nel confronto tra le rilevazioni attuali e quelle precedenti. Ancora: i ragazzi hanno fatto registrare i migliori risultati in matematica; le ragazze affrontano la lettura con risultati nettamente superiori a quelle dei ragazzi, ma peggiori rispetto al passato.

Ma pensiamo che non siano questi i punti – e un’infinità di altri di simile tenore illustrati dall’indagine – su cui ci si dovrà concentrare. Né ci dobbiamo preoccupare del nostro lieve scivolamento verso il basso in una classifica che non tiene conto che in Cina, per esempio, partecipano solo i liceali delle province più produttive o che le materie dei test coincidono con le uniche obbligatorie nei Paesi anglosassoni.

Il vero problema della situazione scolastica italiana

Il vero problema è che la nostra situazione scolastica non è variata di molto in questi ultimi anni, ristagna, e in questo ristagno si registrano sempre le solite, verrebbe da dire borboniche, disparità: in primis la forbice verso il basso tra i punteggi medi del Nord Italia e quelli del Sud e Isole, che impressiona nonostante sia già emersa dai risultati dei test Invalsi proposti agli esami finali di terza media. Poi le differenze di rendimento, trasversali su tutto il territorio, legate allo status socio-economico della famiglia d’origine, con un ascensore che non solo pare che non si muova più verso l’alto, ma addirittura scenda a piani sottozero, visto che due su cinque tra i giovani svantaggiati che hanno dimostrato un buon livello culturale non sperano nemmeno di poter andare all’università. La direzione di scelta delle professioni, inoltre, è vero che non è totalmente a scartamento unico, però il secondo binario è lungi dall’essere completato: duro a morire infatti il pregiudizio di genere, con solamente una ragazza su otto tra quelle portate per le materie scientifiche che ha l’ambizione di abbracciare una carriera professionale in ambito ingegneristico o informatico – a fronte di uno su quattro dei colleghi maschi di pari livello – ritenendo come affrontabile per il mondo femminile quasi unicamente il percorso di studi in Medicina.

A ben guardare, e prima di puntare il dito contro il mondo dei nostri ragazzi, se c’è un problema è un problema da adulti, quegli stessi che oggi come oggi – visti sia il basso livello di istruzione degli individui tra i 25 e i 64 anni (quartultimi in Europa, come da rilevazione ISTAT 2018) sia il dilagante analfabetismo funzionale – con tutta probabilità non farebbero meglio dei propri figli. In più, lo sparo ad alzo zero di alcuni commentatori dell’ultima ora contro insegnanti e scuola non fanno altro che confermare certa incapacità o superficialità di analisi di chi i quindici anni li ha superati da un pezzo.

Conclusioni

Ragioniamo con calma e con calma prendiamo le corrette contromisure. D’altra parte una delle principali finalità del PISA è proprio «permettere a scuole, sistemi di istruzione e governi di individuare di volta in volta gli aspetti da migliorare». E, si badi bene e con occhio pragmatico, un miglioramento di prospettiva contribuirebbe non solo a tener alta la bandiera di Paese di cultura millenaria, ma a fare da volano allo sviluppo e alla riqualificazione del tessuto economico nazionale.

Possiamo imparare qualcosa dalle nazioni più performanti? Sicuramente sì. Il nostro sistema scolastico ha bisogno che si rivedano le modalità di utilizzo delle (sempre più risicate) risorse che gli vengono riservate? Di nuovo sì. I nativi digitali hanno bisogno di essere formati per riuscire finalmente a distinguere un’informazione seria da una fake news, per capire che la sostanza di un fatto è diversa da quella di un’opinione? Terzo sì. Ma in tutto questo crediamo di non dover cedere alla facile sirena di leggere il PISA come una disfida di risultati, alimentando il mito di un globish educativo. La nostra capacità non è mai stata fare lo spelling delle parole, ma fare delle parole, anche quelle in dialetto, una rara virtù.

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