Il like su post antisemiti pubblicati sui social network come grave indizio del reato di istigazione all’odio razziale: lo afferma la Cassazione con sentenza n. 4534/2022.
Prima di entrare nel merito della sentenza, esaminiamo gli articoli del Codice penale.
Istigazione all’odio razziale: il Codice penale
L’art. 604-bis del Codice penale, inserito dall’art. 2 del D.lgs. 21/2018, a presidio della tutela della dignità umana e nel rispetto del principio generale di uguaglianza, incrimina il delitto di propaganda e istigazione a delinquere per motivi di discriminazione razziale, etnica e religiosa. Prevede: la reclusione fino ad un anno e sei mesi o una multa fino a 6.000 euro per chiunque propagandi idee fondate sulla superiorità o sull’odio razziale o etnico, ovvero istighi a commettere o commette atti di discriminazione per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi. Punisce quindi, con la reclusione da sei mesi a quattro anni chi, in qualsiasi modo, istighi a commettere o commetta violenza o atti di provocazione alla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi.
Parimenti vietata, anche in un’analoga dimensione sociale di riprovevole aggregazione collettiva, è altresì ogni organizzazione, associazione, movimento o gruppo avente tra i propri scopi l’incitamento alla discriminazione o alla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi. Qualora ricorrano le predette ipotesi, infatti, chi partecipi a tali organizzazioni, associazioni, movimenti o gruppi, o presti assistenza alla loro attività è punito, per il solo fatto della partecipazione o dell’assistenza, con la reclusione da sei mesi a quattro anni. Coloro che promuovono o dirigono tali organizzazioni, associazioni, movimenti o gruppi sono puniti, invece, con la reclusione da uno a sei anni.
Il legislatore prevede, inoltre, l’irrogazione della pena della reclusione da due a sei anni se la propaganda, ovvero l’istigazione e l’incitamento, commessi in modo che derivi concreto pericolo di diffusione, si fondano in tutto o in parte sulla negazione, sulla minimizzazione in modo grave o sull’apologia della Shoah o dei crimini di genocidio, dei crimini contro l’umanità e dei crimini di guerra, come definiti dagli articoli 6, 7 e 8 dello statuto della Corte penale internazionale.
L’art. 604-ter del Codice penale
L’art. 604-ter del codice penale stabilisce, per i reati punibili con pena diversa da quella dell’ergastolo, una circostanza aggravante generica applicabile a tutti i reati commessi con le finalità di discriminazione etnica, razziale e religiosa indicate, ovvero per agevolare le associazioni destinate al medesimo scopo, precisando altresì che, in deroga alla disciplina generale sul giudizio di bilanciamento tra circostanze attenuanti ed aggravanti ex art. 69 del codice penale, le circostanze attenuanti, diverse da quella prevista dall’art. 98 del codice penale, concorrenti con l’aggravante di cui al primo comma, non possono essere ritenute equivalenti o prevalenti e le diminuzioni di pena si operano sulla quantità di pena risultante dall’aumento conseguente alla predetta aggravante.
La giurisprudenza
Al fine di ricostruire l’ambito di operatività della citata fattispecie criminosa, la giurisprudenza ha chiarito che il concetto di “propaganda” consiste nella “divulgazione di un’idea al fine di condizionare o influenzare il comportamento o la psicologia di un vasto pubblico in modo da raccogliere adesioni intorno all’idea propagandata”, mentre il concetto di “odio” penalmente rilevante, lungi dall’esprimere “qualsiasi sentimento o manifestazione di generica antipatia, insofferenza o rifiuto, pur se riconducibile a motivazioni attinente alla razza, alla nazionalità, all’etnia o alla religione”, è inteso come “un’avversione tale da desiderare la morte o un grave danno per la persona odiata” (Corte di Cassazione, sentenza 36906/2015).
In altri termini, per essere addebitata la responsabilità penale ai sensi dell’art. 604-bis del codice penale, deve sussistere un “sentimento idoneo a determinare il concreto pericolo dì comportamenti discriminatori”, secondo un accertamento sulla concreta pericolosità del fatto compiuto dal giudice, tenendo conto del contesto specifico in cui si colloca la singola condotta, “in modo da assicurare il contemperamento dei principi di pari dignità e di non discriminazione con quello di libertà di espressione” (Corte di Cassazione, sentenza 33414/2020).
La sentenza della Cassazione
Di recente, la Suprema Corte è tornata a pronunciarsi sulla configurabilità del reato di istigazione all’odio razziale ex art. 604-bis del codice penale rispetto alle peculiari dinamiche dell’ambiente digitale, attribuendo rilevanza indiziante anche ai cd. “like” associati, come forme di gradimento virtuale, a post antisemiti pubblicati sui social network, sull’assunto che “la diffusione dei messaggi inseriti nelle bacheche di Facebook, già potenzialmente idonei a raggiungere un numero indeterminato di persone”, favorisce la viralizzazione dei relativi contenuti da parte degli utenti, “i quali, a loro volta, hanno la possibilità di rilanciarne il contenuto”.
Prendendo atto dell’impatto pervasivo degli algoritmi utilizzati dai social network sul flusso comunicativo veicolato in ambiente digitale, i giudici di legittimità sottolineano la valenza del “like” che, ben oltre la semplice adesione ideologica ad un’opinione condivisa nell’esercizio della libertà di espressione, integra gli estremi di una condotta punibile per istigazione all’odio razziale, a maggior ragione ove risulti aggravata da ulteriori prove concrete, da cui emerga la portata criminosa del fatto contestato, desumibile, tra l’altro, dal livello di interazione che si riscontra nello scambio di contenuti diffusi in Rete all’interno di una comunità virtuale polarizzata, caratterizzata da “una vocazione ideologica di estrema destra neonazista, avente tra gli scopi la propaganda e l’incitamento alla discriminazione per motivi razziali, etnici e religiosi, ma anche la commissione di plurimi delitti di propaganda di idee on line fondate sull’antisemitismo, il negazionismo, l’affermazione della superiorità della razza bianca nonché incitamenti alla violenza per le medesime ragioni” (Corte di Cassazione, sentenza n. 4534/2022).
In tale prospettiva, la portata applicativa della fattispecie incriminatrice di cui all’art. 604-bis del codice penale risulta integrata “non solo dai rapporti di frequentazione, fisici e ripetuti, con altri utenti, ma anche dalle plurime manifestazioni di adesione e condivisione dei messaggi confluiti sulle bacheche presenti nelle piattaforme sociali dal chiaro contenuto negazionista, antisemita e discriminatorio per ragioni di razza”. Proprio in ambiente virtuale, peraltro, si riscontra un maggiore potenziale lesività della condotta posta in essere, in quanto, grazie al sostegno virtuale operato dal gruppo telematico, diviene ancor più concreto il pericolo di diffusione dei messaggi tra un numero indeterminato di persone, animate dalla condivisione propagandistica dei contenuti offerta dal sistema dei “like”.
Conclusioni
Con tale pronuncia, anche la Corte di Cassazione coglie l’indubbia deriva informativa riconducibile al lato oscuro della Rete, anche a causa degli insidiosi utilizzi delle piattaforme social come preoccupanti strumenti di disinformazione in grado di favorire, con incontrollabili effetti di manipolazione fuorviante a “senso unico” nell’ambito di vere e proprie “bolle”, la diffusione di contenuti falsi e/o discriminatori finalizzati ad incrementare la violenza verbale e l’odio online, a discapito della pace sociale e della stabilità democratica configurabile entro i civili confini del confronto – anche aspro e antitetico – di idee contrapposte da parte dell’opinione pubblica.