Il termine “Open Data” viene spesso tradotto come “dato aperto”, dato condiviso. Dietro questa terminologia, c’è un mondo che investe il principio di trasparenza e che mira a riprogrammare la pubblica amministrazione per come noi la conosciamo. La pandemia ha evidenziato l’assoluta necessità di condivisione dei dati pubblici.
Open data e pandemia: manca il dato sulla mortalità nelle RSA
Sin dall’inizio della pandemia tutti gli attori delle scelte decisionali sono stati concordi nel ritenere più elevato il rischio che il virus Sars-Cov-2 potesse essere devastante nella fascia di popolazione più debole, nei soggetti anziani e più debilitati.
L’Istat ha avuto modo di certificare come il 90% dei decessi sino al mese di luglio 2020 abbia riguardato soggetti nella fascia di età tra i 70 e gli ultra ottantenni. L’Istituto Superiore di Sanità ha certificato come la media dei decessi sia oscillata tra i 75 anni nella prima fase e i 79 anni nell’ultima settimana di novembre.
Ebbene quanti di questi decessi provenivano dalle RSA?
Il movimento civico Liberi Oltre, che mira a favorire lo sviluppo e l’utilizzo del metodo scientifico nello studio e nella valutazione delle tematiche sociali, si sta spendendo molto per la pubblicazione di tali dati e altre istanze sono arrivate da personaggi pubblici come Riccardo Puglisi e Michele Boldrin, nonché dall’influencer di Twitter @signorernesto.
In altre nazioni il dato è stato pubblicato: in Francia è stato conteggiato all’interno delle RSA il 44% dei decessi, in Canada l’Institute for Health Information ha certificato che l’81% della mortalità deriva dalle case di cura per anziani, negli Stati Uniti sono ricollegati alle RSA più di 100.000 decessi.
La conoscenza dell’incidenza sulla mortalità dei decessi avvenuti nelle RSA certamente non rende meno pericoloso il Covid-19 per le altre categorie di cittadini, ma potrebbe ben permettere di focalizzare gli sforzi e non sperperare le risorse, sia economiche, sia umane, verso direzioni che avrebbero meno efficacia nella lotta contro la pandemia.
Open data e pandemia: la campagna #datibenecomune
Il rapporto 2020 dell’Osservatorio Agcom sul Giornalismo ha evidenziato l’assenza di dati condivisi da parte delle istituzioni pubbliche. I giornalisti per offrire e fornire chiarezza ai cittadini, all’interno dei loro reportage, hanno utilizzato fonti scientifiche per il 58%, ma solo 2 giornalisti su 10 hanno utilizzato – o potuto utilizzare – dati forniti da enti non governativi, istituti di ricerca e fonti open.
Lo stesso osservatorio ha denunciato come le fonti usate dai giornalisti per il proprio lavoro siano state le stesse in libero accesso ai cittadini, a significare la progressiva perdita di valore della funzione giornalistica. L’osservatorio ne fa una questione di ruoli: in realtà, principalmente, le fonti per comprendere meglio il fenomeno italiano non sono state semplicemente mai condivise dalle stesse istituzioni.
Da maggio 2020, dopo la prima ondata di Covid-19, sono cresciute le voci polemiche sulla mancata condivisione dei dati. Il movimento #datibenecomune è nato dalla spinta di numerose associazioni, fondazioni, aziende, ong (tra le altre, il Gimbe, l’associazione Luca Coscioni, Emergency, Report, Wired, Operazione Vetro, lo studio legale Panetta & Associati) proprio per sensibilizzare le coscienze al riguardo.
Ad oggi sono circa 47.000 i firmatari della petizione online e 159 le organizzazioni promotrici: la lettera aperta del 6 novembre 2020, rilanciata il 17 febbraio 2021, ha richiamato il Governo, nella persona del Presidente del Consiglio, agli obiettivi dell’open government.
In particolare, è stato chiesto di rendere disponibili, aperti, interoperabili (machine readable) e disaggregati tutti i dati comunicati dalle Regioni al Governo dall’inizio dell’epidemia, per monitorare e classificare il rischio epidemico (compresi tutti gli indicatori di processo sulla capacità di monitoraggio, di accertamento e quelli di risultato). Così per tutti i dati che alimentano i bollettini con dettaglio regionale, provinciale e comunale, della cosiddetta Sorveglianza integrata COVID-19 dell’Istituto Superiore di Sanità e i dati relativi ai contagi all’interno dei sistemi, in particolar modo scolastici. Dati che, è stato sottolineato, dovrebbero riportare la data di trasmissione e aggiornamento.
Ad oggi, nulla di tutto di ciò è stato fatto. Nulla si conosce sulle categorie professionali colpite, nulla sull’incidenza del contagio nelle fasce di popolazione, nulla sui focolai, nulla sugli effetti diversi dall’evento morte, nulla sull’influenza dell’inquinamento. Anche i dati raccolti dalle istituzioni territoriali vengono aggregati e semplificati, per essere ridotti ad una tabella di sintesi, che poco fornisce alla comunità civica e scientifica.
Da dove vengono gli open data: esempi, applicazioni e valore di mercato
Per molti, il primo approccio agli open data ed alla trasparenza di un’organizzazione pubblica è datato 2009 e legato alla pubblicazione del memorandum sulla trasparenza dell’allora Presidente degli Stati Uniti appena eletto, Barack Obama: un memorandum, rivolto ai dirigenti, che ha introdotto i concetti di open government e del coinvolgimento attivo di gruppi di cittadini attraverso la condivisione di dati riguardanti l’organizzazione pubblica.
Ma, ben prima del 2009, alcune applicazioni sulla trasparenza di enti governativi erano già diffuse, con pubblicazione in dataset aperti. Un esempio di grande successo ha riguardato i database rilasciati dagli enti di aviazione civile sui ritardi dei voli di linea: dati talmente utilizzati dal pubblico e dalle imprese da far esplodere il mercato di web application veloci nella verifica dei requisiti necessari alla compensazione pecuniaria in casi di ritardo. I servizi che hanno attinto a questi dati per fornire una risposta immediata al viaggiatore sono stati numerosi: un esperimento che è stato interrotto. Un’applicazione veloce che possa certificare il ritardo del volo sui dati forniti dagli enti di aviazione attingendo agli open data non esiste più.
Ebbene la condivisione di dati, statistiche e esperienze viene stimata dall’Unione Europea con un valore, in termini di ritorno economico, pari ad € 75,7 miliardi e potrebbe coinvolgere e incrementare i posti di lavoro di circa 25.000 unità l’anno. Le ragioni di questo incremento è dato dall’implementazione di nuovi modelli di business da parte delle imprese, che di riflesso coinvolgerebbe e migliorerebbe tutti i settori coinvolti dalla condivisione del dato.
A partire dai dati, è possibile analizzare approfonditamente ogni settore, dai punti di debolezza alle opportunità di sviluppo.
I cittadini usano quotidianamente numerosi servizi digitali fondati su dati condivisi delle istituzioni pubbliche dell’Unione ed è proprio in considerazione di questi dati che categorie come i giornalisti, gli studiosi o i semplici curiosi possono attingere a nuovi sistemi di informazione per una maggiore comprensione della realtà che ci circonda.
Oltre all’incremento degli indicatori economici, chiaramente una maggiore condivisione dei dati riuscirebbe a raggiungere un duplice risultato, migliorando altresì la trasparenza della pubblica amministrazione che permetta un migliore dibattito in termini di contenuti, auspicando una migliore efficienza della macchina della pubblica amministrazione.
Dalla partecipazione alla condivisione: dagli open data all’open government
“Libertà è partecipazione” cantava Giorgio Gaber, specificando come la libertà non fosse uno spazio libero. Ma la rivoluzione tecnologica e la politica 3.0 hanno invece scomposto questo concetto: senza la presenza di uno spazio libero, nel quale attingere a dati certi e verificati, la partecipazione dei cittadini è incompleta, zoppa.
I pilastri della pubblica amministrazione come la trasparenza, la partecipazione e la collaborazione non possono essere innalzati senza l’utilizzo di dati condivisi, fruibili in modo semplice, in modo da poter richiedere la partecipazione del cittadino: una collaborazione leale, attraverso un rinnovato spirito di fiducia, che ponga alla base un sistema cristallino di governo.
Palmiro Togliatti, guida storica del Partito Comunista Italiano, già all’inizio del ‘900 intendeva la pubblica amministrazione come una casa dalle pareti di vetro, in cui l’osservatore avrebbe potuto e dovuto guardare all’interno.
Solo laddove le istituzioni riusciranno a fornire un sistema verificabile, sarà possibile immaginare uno Stato all’altezza della contemporaneità, che possa innovare sia la propria organizzazione sia il modello culturale dei cittadini.
Il co-inventore del World Wide Web, Tim-Berners Lee, ha distinto gli open data in una scala a 5 stelle, distinguendo i vari formati:
Una Stella (★): categoria in cui rientrano i dati statici e non strutturati, in formati testuali word, pdf o in semplici immagini .png o .jpg.
I primi mattoni della costruzione, dati resi disponibili, informazioni fruibili agli utenti ma non elaborabili.
Due Stelle (★★): categoria che codifica i dati con un software proprietario e li rende strutturati. Una tabella Excel non rappresenta un dato aperto, ma può essere utilizzata per elaborare dati aperti.
Tre Stelle (★★★): questa categoria è composta dai dati strutturati e codificati in formato open come il CSV (Comma Separated Values).
Quattro Stelle (★★★★): i dati strutturati di questa categoria possono essere dotati di un URI-Uniform Resource Locator, che permette la rielaborazione del dato attraverso un programma o un’applicazione. Con la possibilità di collegamento ad un dataset per individuare, ad esempio, tutti i dati pubblicati delle stazioni meteo italiane e la loro ubicazione. Si veda il caso dei formati XML o RDF.
Cinque Stelle (★★★★★): i dati aperti che hanno anche dei collegamenti ad altri dataset, come i LOD – Linked Open Data. I dataset possono quindi interagire per poter aggiungere informazioni e creare collegamenti tra diversi tipi di istituzioni.
In conclusione, non esiste azione politica efficace, o modello evoluto di società civile senza una completa accessibilità alle rilevazioni scientifiche: solo attraverso l’uso di dati pubblicati strutturati, accessibili e codificati, lo Stato potrà alimentare la spinta partecipativa dei cittadini e ricostruire la fiducia all’interno del proprio tessuto sociale.