Di cosa parliamo, quando parliamo di Open Data? Forse bisogna partire da questa domanda per capire come mai in Italia l’uso business degli Open Data è ancora un fenomeno raro.
L’attenzione sugli Open Data, soprattutto quella mediatica e politica, si è principalmente concentrata sul loro ruolo di volano per la trasparenza delle pubbliche amministrazioni e di strumento di cittadinanza partecipata. È in questa direzione che si sono sviluppati i progetti più interessanti nel nostro paese, basti pensare a Opencoesione e Openpolis.
Nonostante si siano utilizzate metafore particolarmente suggestive per descrivere il potenziale impatto economico dei dati – “diamanti grezzi” o “nuovo petrolio” da raffinare, infrastruttura in grado di incentivare l’iniziativa privata –, nel nostro paese non si contano che pochi esempi pionieristici, nell’impiego business degli Open Data.
Eppure dal 2009, quando il movimento Open Data ha iniziato a cescere anche in Italia, sono molti i dati che sono stati aperti nel nostro paese. E allora: cosa manca?
“Non basta parlare di Open Data e nemmeno della quantità di dati che sono stati aperti – sottolinea l’avvocato Ernesto Belisario, presidente dell’Italian Open Government Association –. Perché possano essere utilizzati da un’impresa, i dati devono essere di qualità, aggiornati e corretti. Inoltre è necessaria la ragionevole certezza di poter contare su quei dati in futuro. Troppo spesso le amministrazioni dopo aver pubblicato un dato non si preoccupano di aggiornarlo. La pubblicazione è solo un passaggio, che chiude la prima fase di vita: il dato deve essere raccolto, certificato, quindi pubblicato; allo stesso tempo la pubblicazione segna l’inizio di un nuovo percorso: bisogna verificarne la correttezza, monitorare l’uso che viene fatto dal dato e il suo riutilizzo”.
Affronta il problema ancor più a mote Maurizio Napolitano, Head of Unit of Digital Commons Lab Fondazione Bruno Kessler (FBK): “Prima di parlare del loro uso business, bisogna parlare di dati: in Italia manca una cultura del dato, non è ancora assodato il fatto che gli Open Data della Pubblica Amministrazione sono un Bene Comune. Ci manca un acceleratore tematico, ci manca un Open Data Institute sul modello inglese, ci manca un’Open Knowledge Foundation (OKF), anche se SpaghettiOpenData ha saputo svolgere un ruolo molto prezioso, senza i fondi dell’OKF. Non a caso l’OpenData Barometer nel suo report ci cataloga come pase emergente”.
Questa eccessiva incertezza non incentiva gli imprenditori a investire. E anche le startup vacillano, perché per la loro stessa natura devono essere veloci e se il dato è di scarsa qualità, richiede molto lavoro, quindi costi in termini di tempo e denaro. Risorse che una startup non può permettersi di sprecare.
Qualche esempio non manca, ma rappresentano delle eccezioni, piccole isole ad alta professionalità, acquisita nel tempo. È il caso di SpazioDati o DataNinja, dove sono confluite esperienze accumulate nella community Spaghetti Open Data. “Ma quanti altri esempi di questo tipo esistono in Italia? – si chiede Belisario –. I numeri non sono certo lusinghieri”.
“Un’alternativa può essere quella di puntare su nicchie specifiche, come nel caso di VoglioIlRuolo – aggiunge Napolitano –. Bisogna individuare una nicchia forte e sperare che la sorgente di dati sia pronta”.
A forza di annunciare rivoluzioni che poi non si realizzano, secondo Maurizio Napolitano il rischio che si corre è quello che si verifichi una progressiva perdita di interesse per gli Open Data: “E così ci toccherebbe ricominciare da capo. Bisogna smettere di parlare di Open Data e iniziare a fare. Basta dire che è una grande innovazione, si tratta di fare ordine, riorganizzare il materiale che le PA hanno in casa; ripeto: servono meno chiacchiere, bisogna mettere a disposizione il know how esistente, per incentivarne l’utilizzo. Altrimenti il pericolo è che ci si convinca che gli Open Data non funzionano”. Sulla stessa lunghezza d’onda è Belisario: “Non sarebbe giusto dire che gli Open Data non funzionano, ma questi Open Data che abbiamo in Italia non funzionano, almeno finché vengono rilasciati come è stato fatto fino ad oggi. Dopo generiche attestazioni di principio, manca una politica seria e strutturata di apertura dei dati. Non è tanto la quantità, piuttosto bisogna puntare sulla tipologia di dati, sulla qualità e sul loro aggiornamento”.
Nel dibattito, spesso si dimentica il settore della reportistica, un insime di professionisti che usa i dati e lo faceva anche prima che si parlasse di Open Data. Dal settore geografico alla grafica; dall’analisi alla pianificazione, da sempre si lavora coi dati, li si ricerca, li si raccoglie, li si ordina e si producono dei report per i committenti. Esistono molti esperti con un know how interessante sul mondo dei dati: “Puntiamo su di loro – suggerisce Napolitano –. Bisogna individuare i casi più interessanti per i nuovi strumenti ICT, capire le esigenze, cercare i dati che servono e sviluppare una strategia, solo così si può creare uno scenario di business”.
Dunque garantire qualità, dare certezze, magari attraverso piani di rilasci annuali dei dati, offrendo una visione di lungo termine ed elementi su cui costruire una programmazione. E nel dubbio aprire i dati: se una PA ha dei dati che non sa come usare dovrebbe liberarli, metterli a disposizione di chi può farne qualcosa di utile. Lo stesso dovrebbero fare le aziende, sostiene Maurizio Napolitano, che vede nelle 5 stelle di Tim Davies una possibile strada da seguire:
★ Farsi guidare dalla domanda, valutando l’effettiva richiesta di una certa tipologia di dati;
★★ Calare i dati nel contesto, fornendo tutte le informazioni necessarie al suo utilizzo (descrizione, aggiornamento, formato);
★★★ Supportare discussioni sui dati (attraverso forum dedicati o dando la possibilità di comunicare col produttore del dato)
★★★★ Fornire le competenze necessarie e di conseguenza i dati su cui potersi esercitare, per sviluppare competenze (“È un gatto che si morde la coda: senza competenze è difficile far crescere i dati disponibili, se non ci sono dati su cui allenarsi è difficile che crescano le competenze”, sottolinea Napolitano).
★★★★★ Interfaccairsi con le comunità che lavorano sui dati (un esempio interessante è offerto da dalla community che c’è dietro OpenStreetMap).
“In fondo basterebbe partire da quello che c’è già – aggiunge Belisario –. La Strategia per la Crescita Digitale recentemente approvata stanzia fondi importanti sulle iniziative Open Data, prevedendo incentivi per le amministrazioni che pubblicano bene i dati. È poi importante definire le priorità, in modo da avere un elenco di dati rilevanti per l’Amministrazione centrale, per quelle regionali, per i comuni e le Asl. Infine bisogna fornire degli indicatori di valutazione: non basta il numero di dati aperti, bisogna considerare anche la qualità e il numero di utilizzi che ne vengono fatti; lo sforzo di apertura di determinati datast ha senso se si ripaga con l’effettivo riuso di quelle informazioni”.
A proposito di partire da quello che c’è già, sarebbe importante fare una sorta di censimento dell’esistente. “Ci sono realtà storiche che fanno business coi dati in Italia e ci sono realtà emergenti, bisogna mapparle sul modello del progetto OpenData500 americano – spiga Napolitano –. Il portale si apre con una bussola di dati, una mappa che incrocia le pubbliche amministrazioni che liberano i dati con le aziende che li utilizzano. Vogliamo importare il modello in Italia, per questo Francesca De Chiara della Fondazione Bruno Kessler è in questo periodo negli Stati Uniti a studiare l’esperienza americana. Usando la metologia di OpenData500, anche sa da noi magari saranno solo 100 o 50, spero che si riescano a individuare aziende di servizio, che lavorano coi dati da tanto tempo, anche se non vengono spesso menzionate”.
Nonostante tutto, si dice ottimsta “per forza” Ernesto Belisario: “È un processo irreversibile, i dati stanno diventando tasselli sempre più rilevanti a livello internazionale; più saremo veloci meglio sarà per il sistema paese”.