intelligenza artificiale

OpenAI: che c’è dietro la startup che vuol farsi Big Tech



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OpenAI, fondata nel 2015, è diventata famosa con ChatGPT nel 2022. La startup vive tensioni interne tra ideali nonprofit e aspirazioni profit, culminate nell’espulsione temporanea del CEO Sam Altman. Ricercando nuovi finanziamenti, OpenAI affronta concorrenza crescente e la sfida di bilanciare sicurezza AI e profitti, con un futuro incerto

Pubblicato il 18 set 2024

Umberto Bertelè

professore emerito di Strategia e chairman degli Osservatori Digital Innovation Politecnico di Milano



openAI Elon Musk (1)

OpenAI non ha ancora 9 anni di vita: la sua fondazione risale infatti al dicembre 2015. Eppure sembra già diventata una parte così necessaria del nostro presente digitale. E il futuro? Chissà.

OpenAI è divenuta estremamente famosa con il lancio a fine novembre 2022 di ChatGPT. Lancio che:

  • ha riportato alla ribalta l’intelligenza artificiale (AI) a oltre 70 anni dalla nascita,
  • ha messo in moto un gigantesco flusso di investimenti infrastrutturali (data center in primo luogo) da parte delle big tech (Fig. 1),
  • ha fatto la fortuna soprattutto di Nvidia, che – forte delle sue GPU (graphics processing unit) divenute una scelta quasi obbligata per l’istruzione dei modelli di AI generativa – ha visto esplodere ricavi e profitti e si è trovata anche se per un breve periodo a essere la prima impresa mondiale per capitalizzazione, davanti a Microsoft e Apple, con un valore superiore ai 3 trilioni di dollari (un valore divenuto poi molto volatile ma comunque risalito a quota 2,84 trilioni mentre scrivo).

OpenAI: profit o nonprofit? Questo è il dilemma

La sua breve vita è stata caratterizzata, fin da quasi subito dopo la fondazione, dal continuo conflitto fra l’ideale iniziale (quale appare nell’atto fondativo) di essere una nonprofit dedita al bene dell’umanità e l’aspirazione viceversa – soprattutto dopo il lancio di ChatGPT – a entrare a far parte del ristretto gruppo delle big tech, trasformandosi necessariamente per questo (è il processo attualmente in corso) in una profit. Un conflitto quello fra gli obiettivi che ha creato fortissime tensioni interne,

  • tensioni culminate nell’espulsione (come noto di brevissima durata) del CEO Sam Altman, principale fautore della crescita “a tutti i costi”, da parte di un board viceversa molto più attento al tema della sicurezza dell’AI,
  • tensioni che hanno causato la fuoruscita di diversi personaggi di primissima linea, che hanno creato proprie startup (Anthropic quella di maggior successo) o si sono trasferiti in altre startup o in big tech quali Microsoft, Alphabet-Google o Meta.

Sam Altman: genio o opportunista?

I conseguenti ininterrotti ricambi nelle posizioni di vertice da un lato e le consistenti immissioni dall’altro di nuovo personale, finanziate con le iniezioni di capitale provenienti dall’esterno (da Microsoft, in primo luogo, che ha versato complessivamente 13 miliardi di dollari), hanno reso OpenAI una sorta di impresa ad assetto continuamente variabile, con un punto fisso attorno a cui tutto sembra ruotare: Sam Altman. Un uomo quest’ultimo dalle molte contraddizioni, di cui The Economist [1] si chiedeva in un articolo del novembre scorso se fosse un genio o un opportunista (Is the boss of OpenAI a genius or an opportunist?).

Un uomo – traduco liberamente le parole dell’articolo – con una capacità messianica di ispirare le persone simile a quella di Steve Jobs e con una confidenza nella sua visione del futuro simile a quella di Elon Musk, ma senza condividerne la quasi divina capacità di progettare il nuovo del primo e le leggendarie doti di ingegnerizzazione del secondo.

Ricavi e perdite di OpenAI: la situazione

Il tutto ci riporta alla situazione di questi giorni, in cui:

  • l’entusiasmo del mercato e degli investitori per l’AI generativa, alle stelle dopo il lancio di ChatGPT quasi due anni fa, è soggetto con frequenza crescente a momenti di dubbio sulla reale redditività dell’AI generativa stessa o almeno sui tempi di payback dei rilevantissimi investimenti in corso: oltre 200 miliardi di dollari quest’anno (la Fig. 1 mostra i dati dell’ultimo trimestre) e destinati ad aumentare nel 2025 quelli delle sole 4 big tech più impegnate, ovvero delle tre leader mondiali del cloud (Amazon, Microsoft e Alphabet-Google nell’ordine) e di Meta (storicamente la più attiva nell’AI insieme con Google);

Fig. 1

  • prolifera la concorrenza da parte di soggetti della natura più diversa: quali una big tech come Alphabet-Google con Gemini, piuttosto che una startup di successo come Anthropic con Claude o una serie di startup più giovani e focalizzate che possono avvalersi dei modelli Llama resi disponibili in modalità “open source” da Meta;
  • OpenAI, per mantenere la sua posizione di leadership, ha assolutamente bisogno di nuovi round di finanziamenti, essendo i suoi flussi di cassa annui in entrata assolutamente inadeguati al momento a bilanciare quelli in uscita: in assenza di dati ufficiali, le stime correnti collocano attorno ai 2 miliardi di dollari i ricavi annui (ma Altman secondo indiscrezioni [2] avrebbe parlato di 4 miliardi nei suoi colloqui con i possibili investitori arabi) e attorno a 7 miliardi i flussi in uscita (costi correnti e spese in conto capitale);
  • OpenAI sta puntando – con il supporto della società di venture capital Thrive Capital (che ha promesso di partecipare con 1 miliardo di dollari al nuovo round) e anche sfruttando i rapporti di Altman con investitori diversi dai tradizionali (quali gli UAE-Emirati Arabi Uniti sopra accennati) – a usare questa occasione per accrescere il valore riconosciuto alla società (fino a poco tempo fa si parlava di 100 miliardi e ora sembra che nelle trattative in corso la cifra sia salita a 150) e a portare a casa la cifra più alta possibile (6,5 miliardi secondo le ultime indiscrezioni);
  • il valore che le verrà riconosciuto e l’entità del finanziamento che riuscirà a ottenere appaiono fortemente condizionati [3] a un cambio della governance (nella Fig. 2 l’attuale), che permetta agli investitori l’entrata con poteri reali nel board e che tolga il tetto che l’attuale statuto pone ai loro ritorni: si impone in altre parole la trasformazione di OpenAI da società nonprofit con una sussidiaria profit) a società profit con una residua componente nonprofit, operazione che desterà presumibilmente nuove tensioni.

Fig. 2

OpenAI, un’impresa dal passato caotico

Il riferimento al “passato caotico” è ripreso dal titolo di un articolo di The New Times [3] – “OpenAI, Still Haunted by Its Chaotic Past, Is Trying to Grow Up” – che presenta un quadro abbastanza impressionante degli incessanti cambiamenti avvenuti in OpenAI dalla nascita a oggi, che condizionano tuttora pesantemente la società e i passi che essa dovrà intraprendere per crescere. Sintetizzerò questi cambiamenti con riferimento a tre date fondamentali:

  • la fondazione nel dicembre 2015,
  • il lancio di ChatGPT a fine novembre 2022,
  • il fallito tentativo da parte del board di scacciare Sam Altman nel novembre 2023.

Erano 13 i partecipanti alla fondazione nel 2015, con l’”Open” che appare nel nome OpenAI come chiara indicazione della natura della società nascente e con uno statuto che ne definiva una governance coerente. A meno di 9 anni dalla fondazione ne sono rimasti solo 3: uno è ovviamente Sam Altman e un altro – il presidente di OpenAI Greg Brockman – si è messo a riposo sino a dicembre per riprendersi dallo stress dell’ultimo anno (seguito alla sua cacciata insieme a Altman e al rientro pochi giorni dopo).

Il più ricco dei 13 al momento della fondazione era Elon Musk, anche se Tesla all’epoca valeva “solo” 30 miliardi di dollari (a fronte dei circa 700 attuali dopo aver brevemente varcato la soglia del trilione) e fu Musk il primo ad abbandonare il board nel 2018, per dissensi (sulle cui motivazioni esistono versioni diverse) con Altman: utilizzando come motivazione formale dell’abbandono il possibile conflitto di interesse con lo sviluppo dell’AI in Tesla.

Mentre è del 2021 la fuoriuscita da OpenAI, a causa di disaccordi sul tema della sicurezza dell’AI, del gruppo di ricercatori – fra cui il vicepresidente per la ricerca Dario Amodei e la sorella – che fondarono Anthropic, divenuta come detto poi (anche con i finanziamenti di Amazon e Alphabet-Google) la più agguerrita concorrente di OpenAI fra le startup.

La crescita frenetica di OpenAI dal 2022

Il successo del lancio di ChatGPT a fine novembre 2022 e i 10 miliardi ricevuti subito dopo da Microsoft, che aveva già contribuito alla fase di messa a punto (sia finanziariamente sia rendendo disponibili i suoi data center), hanno messo poi in moto un processo di crescita frenetica, come prova il fatto che ben l’80 per cento delle 1700 persone attualmente operanti in OpenAI è entrato dopo questa data (anche se va notato che una parte minore dei nuovi entranti è andata a ricoprire le posizioni rimaste scoperte a seguito delle fuoruscite).

Una strategia teoricamente da manuale quella di Altman, volta a “occupare” il mercato prima che emergessero troppi nuovi concorrenti, ma che probabilmente – ponendo una maggiore enfasi sulla creazione di una superintelligenza che non sulla messa a punto di applicazioni specifiche realmente competitive per le imprese (in termini ad esempio di aumento della produttività a costi ragionevoli) – si è scontrata con uno sviluppo molto lento del mercato finale, creando spazi appunto per la proliferazione di nuovi concorrenti.

Lo scontro tra Altman e il board sui valori fondanti di OpenAI

La crescita frenetica e il bisogno di incrementare i ricavi e far emergere profitti e cash flow per sostenerla sono stati poi alla base del violento scontro interno fra Altman e un board – in cui emergeva la figura del cofondatore e presidente per la ricerca Ilya Sutskever – più orientato ai valori che erano stati alla base della fondazione della società: scontro che ha portato meno di un anno fa alla cacciata di Altman e al suo quasi immediato reintegro, per la reazione a favore di Altman stesso della grande maggioranza dei ricercatori (non indifferenti probabilmente alle opzioni azionarie di cui disponevano) e per il “salvagente” offerto da Microsoft, resasi disponibile a riassorbire al proprio interno Altman e tutti i ricercatori non in linea con il board. Di qui, dopo il rientro di Altman e la fuoruscita altamente simbolica di Sutskever (per creare la startup Safe Superintelligence (SSI) più allineata con i suoi valori [4]), un processo di ricambio e irrobustimento che ha riguardato in primo luogo i massimi livelli dirigenziali e il board.

OpenAI, l’infornata di nuovi dirigenti

Per quanto concerne i primi, OpenAI ha reclutato negli ultimi mesi – riprendo letteralmente il testo di The New York Times – il “who’s who of tech executives, disinformation experts and AI safety researchers”. Fra questi: la nuova CFO Sarah Friar, in precedenza CEO di Nextdoor; il nuovo chief product officer Kevin Weil, in precedenza senior VP di prodotto di Twitter; nonché, con le stesse responsabilità che avevano precedentemente in Facebook, Ben Nimmo, che capeggiava la lotta contro le campagne ingannevoli sui social media, e Joaquin Candela, che supervisionava gli sforzi per ridurre i rischi dell’AI.

Per quanto concerne il board sono state sette le aggiunte di nuovi membri, fra cui un generale a 4 stelle in precedenza a capo della National Security Agency: scelti con l’obiettivo prioritario di rassicurare il mondo esterno sulla non pericolosità delle tecnologie AI messe a punto da OpenAI, dopo il discredito indotto dai conflitti interni e dagli abbandoni.

L’arrivo degli o1 models: Chatgpt, l’AI che ragiona

Una rassicurazione, quella sulla sicurezza delle tecnologie AI, che appare in qualche misura in contrasto [5] con la recentissima messa sul mercato degli “o1 models”, che secondo OpenAI hanno una più elevata abilità di ragionamento e problem solving, ma che come riconosciuto da OpenAI stessa presentano maggiori rischi di essere utilizzati per la messa a punto di armi chimiche, biologiche, radiologiche e nucleari (“chemical, biological, radiological and nuclear (CBRN)”:

  • un problema che presumibilmente si ripresenterà spesso nel futuro, con l’arrivo sul mercato dei nuovi modelli – di Google, Meta e Anthropic innanzitutto – nella gara in corso per creare i migliori “AI agents” (software in grado di assistere efficacemente gli umani in molte loro attività);
  • un problema che spingerà verso regolamentazioni di salvaguardia più o meno vincolanti, quale quella – al momento oggetto di una forte contrapposizione anche all’interno del mondo delle imprese – in discussione in California o l’AI Act dell’UE.

Perseguire il bene dell’umanità o massimizzare valore e profitti: quale strategia per attrarre capitali?

Due i momenti importanti – il 2015 e il 2019 – nell’evoluzione della governance, in attesa di quello che potrebbe essere il terzo: lo racconta OpenAI stessa in un capitolo del suo sito dedicato alla struttura.

La nascita come nonprofit nel 2015 fu resa possibile dalla messa a disposizione di OpenAI stessa di oltre 1 miliardo di dollari, da parte di una serie di finanziatori di alto profilo, tra i quali – oltre a Elon Musk e Sam Altman (all’epoca presidente dell’acceleratore di startup Y Combinator) – Reid Hoffman (co-fondatore di LinkedIn), Peter Thiel (co-fondatore di PayPal), Greg Brockman (ex CTO di Stripe) e Jessica Livingston (fondatrice partner di Y Combinator), nonché AWS (la sussidiaria di Amazon leader mondiale nel cloud) e Infosys (la nota impresa di consulenza IT indiana). E la qualità dei partecipanti e dei finanziatori, insieme con l’elevato obiettivo di creare un qualcosa di rilevante per l’umanità, rappresentò sicuramente un fattore di attrazione per ricercatori di prima grandezza, talora anche a scapito del loro livello di remunerazione.   

La difficoltà di raccogliere nuove donazioni (130 milioni circa il valore totale di quelle ricevute nel tre anni successivi), a fronte della rilevanza delle cifre necessarie per portare avanti i progetti messi in cantiere, portarono all’innovazione strutturale del 2019: creare una società profit con un tetto alle remunerazioni che gli azionisti potevano percepire, una cosiddetta “capped profit structure”, alle strette dipendenze della nonprofit e del suo board (Fig. 1), immediatamente utilizzata con l’attivazione della partnership strategica con Microsoft (che come detto ha versato complessivamente in essa 13 miliardi di dollari).

La cancellazione della clausola del “capped profit”

Il tema dell’esigenza di una accentuazione della natura profit rispetto a quella nonprofit, con la nascita di un nuovo board ove gli azionisti godano di un peso reale e con la cancellazione della clausola del “capped profit”, si pone in misura forte – nel momento in cui si procede alla ricerca di nuovi finanziamenti e nuovi finanziatori – per una serie di ragioni:

  • a differenza di Microsoft che accettò di immettere ben 13 miliardi di dollari nella società nonostante gli scarsi diritti formali garantiti dallo statuto del 2019 – scommettendo sui vantaggi che pensava di poter ottenere (e che almeno in parte ha ottenuto) dalla partnership strategica con OpenAI e confidando probabilmente sulla sproporzione nella dimensione e nei poteri (che utilizzò per favorire il rientro di Altman) – nulla di simile appare potersi ripetere per le due big tech di cui si parla come possibili nuovi partner, Apple e Nvidia;
  • né si intravedono contropartite all’entrata come soci silenti, per giunta soggetti alla clausola del “capped profit”, per le società di venture capital, cui deve essere viceversa garantita la possibilità di un exit che le remuneri adeguatamente;
  • qualche contropartita, politica e di status piuttosto che economica, potrebbe eventualmente essere intravista dagli Emirati Arabi Uniti, che hanno deciso recentemente di espandersi nel comparto dell’AI creando una società ad hoc con azionisti pubblici (tra cui il fondo sovrano che in precedenza aveva acquisito una quota di Anthropic), ma una presenza forte di capitali arabi in una società leader in un settore strategicamente importante quale l’AI potrebbe scontrarsi con l’opposizione del governo statunitense.

La formalizzazione del passaggio a società profit – è opportuno ricordarlo – potrebbe essere ostacolata o almeno rallentata da Elon Musk, che ha già aperto una seconda causa contro OpenAI e Sam Altman, vantando i suoi diritti di socio fondatore e chiedendo l’annullamento degli accordi privilegiati con Microsoft. E Musk con il lancio di xAI – valutata 24 miliardi di dollari nel recente round di finanziamenti con cui ha raccolto 6 miliardi e in fase di messa a punto di un chatbot di nome Grok – è ora un competitore diretto di OpenAI e dei suoi chatbot.

La concorrenza continua a crescere: i sistemi AI proliferano

Crescono le minacce alla leadership di OpenAI”, sosteneva Christopher Mims, “technology columnist” di The Wall Street Journal, in un suo articolo [6] di fine agosto di commento al nuovo round di finanziamenti in corso. Osservando come la proliferazione di sistemi di AI più “accessibili” stesse dando molto “filo da torcere” alla società. Come larga parte della nuova competizione provenisse da startup che puntavano ad attaccare i servizi di OpenAI con servizi meno costosi e prestazioni più elevate per compiti molto più focalizzati. Come Meta, con l’adozione della filosofia ”open source” (contestata dai puristi perché ritenuta solo parzialmente “open”), stesse agevolando questo processo. Come l’orientamento del mondo delle imprese, secondo molti esperti, fosse sempre più quello di non legarsi a un singolo fornitore di servizi di AI, ma di avere rapporti con una molteplicità di essi (sia “open” sia “closed source”), per poter scegliere di volta in volta sulla base della specifica convenienza: rendendo molto difficile ai differenti operatori, e a OpenAI in particolare, lo sfruttamento della carta della fidelizzazione.

Come anche le big tech fossero all’attacco, prevalentemente (a differenza di Meta) con modelli “closed source”: Microsoft muovendosi anche in proprio dopo il decollo con ChatGPT; Alphabet-Google, impresa come detto veterana dell’AI, cercando di recuperare i ritardi; Nvidia, puntando a estendersi in tutte le direzioni – a monte, a valle e lateralmente – per mettere a punto sistemi integrati in grado di rendere più facile la vita agli acquirenti; potenzialmente – ancorché con caratteristiche diverse – Apple, che ha iniziato a immettere l’AI nei suoi iPhone (anche per rispondere ai concorrenti che lo avevano già fatto), sviluppando una sua “Apple intelligence” e allo stesso tempo stringendo accordi (per ora solamente con OpenAI ma con la promessa di allargare la platea degli interlocutori) per permettere l’accesso dei suoi clienti ai servizi di altri quando non è in grado di soddisfarli direttamente.

La “frontiera dei dati” è sempre più vicina

I concorrenti si moltiplicano, ma scarseggia sempre di più la “materia prima” fondamentale per l’AI generativa: i dati. Scarseggia perché la costruzione di modelli di AI sempre più grandi e potenti richiederebbe di essere alimentata da quantità di dati anch’esse sempre maggiori. Scarseggia perché chi possiede dati – editori e media in primo luogo – ne percepisce crescentemente il valore e tende alternativamente:

  • a proibirne l’uso, per evitare una concorrenza impropria con i propri prodotti e/o servizi, o
  • a venderli, come nel caso dell’accordo quinquennale del valore di 250 milioni di dollari fra News Corp (proprietaria di The Wall Street Journal) e OpenAI per la messa a disposizione di contenuti e archivi, o
  • se il “furto” o presunto tale è già avvenuto, a portare i “ladri” in tribunale, come nel caso della causa intentata a OpenAI e Microsoft da The New York Times subito dopo il lancio di ChatGPT.

Il fabbisogno estremo di dati spinge spesso le imprese a tentare di aggirare quella che dagli esperti viene definita la “frontiera dei dati” [7]:

  • acquisendo il diritto di accesso – ancorché costoso – ai dati stessi, come nei caso dell’accordo fra News Corp e OpenAI visto in precedenza;
  • esplorando i recessi più profondi del web, con problemi però sulla qualità e sicurezza dei dati;
  • ricorrendo ai cosiddetti “dati sintetici” (dati costruiti artificialmente anche mediante l’utilizzo dell’AI), con il rischio concreto di incorrere in effetti distorcenti.

In prospettiva il problema dell’affidabilità dei dati appare destinato ad aggravarsi, per la crescente presenza su Internet di dati generati con l’AI: in larga misura fake news.

La necessità di un maggior focus sui reali bisogni del mercato e l’individuazione di nuovi business model

Il messaggio è chiaro e per certi versi banale:

  • non basta mettere a punto prodotti sorprendenti, ma occorre offrire al mercato – imprese, istituzioni di varia natura e privati – prodotti e/o servizi (nuovi o in sostituzione degli esistenti) con caratteristiche appetibili e costi compatibili,
  • non si può vivere troppo a lungo sui finanziamenti esterni, ma gli aumenti di capitale sono sempre più condizionati dalle prospettive di redditività
  • è indispensabile individuare business model che siano in grado di garantire tali prospettive, pena la stessa sopravvivenza.

La storia di Internet ci insegna come le attuali big tech abbiano trovato tutte una loro strada diversa (per poi scontrarsi fra loro negli anni più recenti): Amazon nell’ecommerce, e successivamente nel cloud; Google nel search, chiave di volta per l’advertising; Meta nei social network, anch’essi chiave di volta per l’advertising; Apple, nata come Microsoft molti anni prima della crescita di Internet, con la messa a punto dell’iPhone e della molteplicità di servizi collegati.

Non è ancora chiara al momento la collocazione nella filiera che essa vorrà adottare, ovvero se vorrà rivolgersi prevalentemente al mercato finale (come alcune sue mosse sembravano suggerire) o se preferirà viceversa (come al momento appare più probabile) privilegiare la collocazione in una posizione intermedia, offrendo licenze per l’uso dei propri prodotti a chi ha già una presenza estremamente consistente sul mercato finale: come accaduto con la partnership strategica con Microsoft, che ha permesso il suo decollo; come sta accadendo con la partnership con Apple per l’introduzione dell’AI nell’iPhone.

In linea con quanto il già citato Christopher Mims ha sostenuto in un suo articolo [8] di qualche giorno fa: “It is proving most useful as a technology to soup up the gadgets and software we already use, rather than reset the world order.”

Note

[1] “The many contradictions of Sam Altman – Is the boss of OpenAI a genius or an opportunist?”, The Economist, 22 novembre 2023

[2] “United Arab Emirates Fund in Talks to Invest in OpenAI – ChatGPT creator has told potential backers its annualized revenue recently reached $4 billion”, The Wall Street Journal, 12 settembre 2024

[3] “OpenAI, Still Haunted by Its Chaotic Past, Is Trying to Grow Up – The maker of ChatGPT is struggling to transform itself into a profit-driven company while satisfying worries about the safety of artificial intelligence”, The New York Times, 3 settembre 2024.

[4] “OpenAI co-founder Sutskever’s new safety-focused AI startup SSI raises $1 billion”, Reuters, 4 settembre 2024

[5] “OpenAI acknowledges new models increase risk of misuse to create bioweapons – Company unveils o1 models that it claims have new reasoning and problem-solving abilities”, Financial Times, 13 settembre 2024

[6] “The Threat to OpenAI Is Growing – More accessible artificial-intelligence systems are proliferating, giving the maker of ChatGPT a run for its money”, The Wall Street Journal, 30 agosto 2024

[7] “AI hit by copyright claims as companies approach ‘data frontier’- Anthropic faces legal action by publishers as tech groups reach limit on material to train artificial intelligence models”, Financial Times, 31 agosto 2024

[8] “What Is AI Best at Now? Improving Products You Already Own – Apple and Google are showing how AI is really a feature in other products at this stage”, The Wall Street Journal, 13 settembre 2024

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