Per completare la trasformazione digitale del nostro Paese non servono nuove norme o strumenti – che, pur con molti limiti che vedremo, già ci sono. Quella che bisogna vincere è l’opposizione al cambiamento che ingessa gran parte della pubblica amministrazione, ancorando l’Italia più o meno in coda a tutte le classifiche sull’avanzamento digitale.
Le tecnologie, insomma, ci sono, evolvono, sono sempre più performanti e accessibili, la loro fruibilità rappresenta ormai un problema relativo. È la resistenza al cambiamento ciò che stiamo pagando a caro prezzo: uno stato di cose generato da molti fattori e che, certo, non riguarda solo la PA. Ma come uscirne?
Il Piano triennale e il nodo delle competenze digitali
A causa della pandemia tuttora in pieno corso, il nostro sistema paese è stato costretto a evolvere in tempi rapidissimi, per di più esposto ad una sorta di tempesta perfetta.
La transizione al digitale non era ulteriormente differibile già prima che l’emergenza sanitaria ci travolgesse. Si trattava, invece, di una necessità imprescindibile per una pubblica amministrazione bisognosa di riforme radicali ormai da tempo incalcolabile.
In un contesto di ritardi atavici si è aggiunto Covid-19, che intervenendo come una mannaia ha imposto alla macchina Italia il modello del dirupo spartano: sopravvivere all’urto o soccombere.
All’urto, bene o male, siamo sopravvissuti, e se c’è un minimo retaggio positivo in ciò che abbiamo patito finora, va proprio rintracciato nell’accelerazione che abbiamo saputo imprimere, seppur obtorto collo, ai nostri processi evolutivi digitali.
Chiaramente non basta: l’emergenza dev’essere sistematizzata, la precarietà ricondotta ad equilibrio. Vanno lette in questa direzione l’enfasi e le speranze che hanno accompagnato Vittorio Colao al ministero per l’innovazione tecnologica e la transizione digitale.
Colao, stessi obiettivi come l’Italia di 20 anni fa: inevitabili ovvietà
Nei mesi scorsi si è ampiamente discusso, anche su Agendadigitale.eu, del Piano Triennale (2020-2022) per l’Informatica nella Pubblica Amministrazione.
Il progetto, oltre ad alcuni indiscutibili meriti, presenta forse un solo potenziale limite, probabilmente derivante dalla sua eccessiva adesione alle fonti del diritto internazionale: la programmazione europea 2021-2027, i principi dell’eGovernment Action Plan 2016/2020, le azioni previste dalla eGovernment Declaration di Tallin (2017/2021).
Regole condivise, tuttavia, sono efficaci se affrontano problemi comuni, mentre la nostra pubblica amministrazione ne patisce di peculiari, in parte diversi e in parte superiori rispetto alle altre istituzioni comunitarie.
Dobbiamo superare ostacoli che impongono, non senza coraggio, il compimento di sforzi supplementari e qualche contromisura ulteriore.
Il nostro progetto di transizione al digitale, difatti, si focalizza quasi esclusivamente sulle soluzioni tecnologiche da adottare, nonché sulla natura e le modalità di erogazione dei servizi.
Non si intravede invece una soluzione a quello che forse è il più grande dei problemi della nostra pubblica amministrazione, un’idea – e ne serve davvero una buona – per spostare l’elefante dal corridoio.
Manca, cioè, una strategia per superare la diffusa resistenza al cambiamento dei nostri lavoratori.
Per carità, non solo di quelli del settore pubblico, ma un’impresa privata che non sa evolvere, al massimo finisce per abbassare la saracinesca. Una pubblica amministrazione incapace di rinnovarsi è destinata a recare perdurante danno ai suoi cittadini.
Sarebbe ingeneroso, in realtà, attribuire al Piano Triennale per l’Informatica nella PA una completa disattenzione verso questi temi perché, in un modo o nell’altro, qualche sforzo è stato compiuto.
Il punto è che, delle 84 pagine di cui è composto il Piano, solo una è dedicata alle “Competenze digitali per la PA e per il Paese e l’inclusione digitale”.
In quella pagina, la numero 54, è illustrata una ambiziosa “Strategia nazionale per le competenze digitali”, articolata su quattro assi di intervento:
- lo sviluppo delle competenze digitali necessarie all’interno del ciclo dell’istruzione e della formazione superiore, con il coordinamento di Ministero dell’Istruzione e Ministero dell’Università e Ricerca;
- il potenziamento e lo sviluppo delle competenze digitali della forza lavoro, sia nel settore privato che nel settore pubblico, incluse le competenze per l’e-leadership con il coordinamento di Ministero dello Sviluppo Economico e del Dipartimento della Funzione Pubblica;
- lo sviluppo di competenze specialistiche ICT per fronteggiare le sfide legate alle tecnologie emergenti e al possesso delle competenze chiave per i lavori del futuro con il coordinamento di Ministero dell’Università e Ricerca e Ministero dello Sviluppo Economico;
- il potenziamento delle competenze digitali necessarie per esercitare i diritti di cittadinanza (inclusa la piena fruizione dei servizi online) e la partecipazione consapevole al dialogo democratico con il coordinamento del Ministro per l’Innovazione Tecnologica e la Digitalizzazione.
Il perseguimento di ognuno di questi obiettivi meriterebbe un piano a sé stante.
La resistenza al cambiamento che paghiamo a caro prezzo
Il divario digitale tra la nostra macchina amministrativa e quella di altri paesi è tale, qui giunti, soprattutto in termini di attitudini e competenze individuali.
L’atteggiamento di coloro che si pongono in chiave antagonista rispetto ai progetti e alle soluzioni individuate per conseguire i necessari risultati.
Basta frequentare un ufficio pubblico qualunque – al netto di alcune lodevoli eccezioni positive – per rendersi conto di quanto sia diffuso un senso di inferiorità nei confronti degli strumenti informatici ed un certo scetticismo sulla loro effettiva utilità.
Molti lavoratori – senza grande distinzione tra impiegati, dirigenti e posizioni apicali – muovono dalla convinzione di non avere le competenze per affrontare il cambiamento. Il vincolo al passato rende incapaci di immaginarsi in altri ruoli, padroni di nuove funzioni.
Se ciò non bastasse, un altro preconcetto generalizzato è quello che porta a ritenere che i metodi di lavoro tradizionali siano i migliori e che il cambiamento non porterebbe effettivi benefici.
Quando queste dinamiche si sviluppano nel contesto della trasformazione digitale, la resistenza tende ad acuirsi ulteriormente e risulta ancora più difficile modificare alcune abitudini profondamente radicate.
Non molto tempo fa, un dirigente apicale di una pubblica amministrazione mi disse: “siamo ancora in grado di studiare le pergamene dei babilonesi dopo migliaia di anni, mentre gli hard-disk di vent’anni fa sono ormai sicuramente tutti rotti”.
Provai a suggerire che non è facile immaginare il backup di una pergamena, ma non ebbi grande successo.
Sono piuttosto sicuro che siano in tanti, intimamente, a simpatizzare con quell’approccio tecno-scettico.
Nell’Italia del 2021, probabilmente, il modello babilonese conserva ancora un suo fascino, non del tutto intaccato da quello digitale.
Esagerazioni ovviamente, ma non caricature.
Dipendenti pubblici troppo lontani dal digitale (per età e cultura)
Un fondo di verità nel nostro ostinato attaccamento ai modelli tradizionali c’è. Non accade ovunque. Si tratta di un problema più che altro nostrano, difficilmente comprensibile all’estero.
Ecco perché non possiamo aspettarci che tutte le soluzioni arrivino dalle fonti UE.
Una spiegazione alle nostre difficoltà è sicuramente offerta dal dato anagrafico.
Secondo un’analisi del Ministero dell’Economia e delle Finanze, l’età media nel pubblico impiego è di 50,7 anni. I nostri uffici sono presidiati da persone che, ovviamente senza alcuna colpa, sono cresciute e si sono formate prima che la rivoluzione informatica si affacciasse all’orizzonte.
Gli ultimi dati OCSE disponibili posizionano l’Italia all’ultimo posto in Europa per quota di dipendenti pubblici under 34. La pubblica amministrazione italiana annovera tra i propri collaboratori solo il 2,2% di giovani contro il 30% di quella tedesca e il 21,2% della francese.
Al contrario, l’Italia è in testa alla classifica per quota di dipendenti over 55, che rappresentano il 45,3% del totale. Si tratta di numeri di molto superiori a quelli di Germania e Francia, in cui questa quota raggiunge rispettivamente il 20 e il 23,9%.
Una prima transizione sicuramente non ci è riuscita: nel quinquennio 2010/2015, mentre Germania e Francia sono riuscite a mantenere l’aumento della quota di over 55 sotto il 3%, in Italia questa classe di età è cresciuta del 14,6%.
Sempre secondo le ultime statistiche disponibili, nel 2019 solo il 30% degli over 55 italiani aveva una competenza informatica di base, e soltanto il 13% era in possesso di skills specifiche e avanzate.
Confrontando le informazioni ci si accorge di come circa un impiegato pubblico su cinque non possieda nemmeno una formazione informatica elementare.
Si tratta di dati che disegnano plasticamente uno degli ostacoli che dovremo superare per portare a compimento la nostra transizione al digitale.
Conclusioni
A prescindere dalle considerazioni che precedono, tuttavia, sarebbe miope non accorgersi che una forma di ostinata resistenza al cambiamento, in questo caso davvero inspiegabile, appartenga anche ad ampie sacche di popolazione giovanile.
Radicamento del retaggio di provenienza, inadeguatezza dei nostri percorsi formativi, le ragioni di questo ulteriore divario digitale, stavolta intra-generazionale, potrebbero essere molte.
È chiaro, però, che pur disponendo degli strumenti, non riusciremo a compiere nessuna transizione se non ne comprenderemo l’utilità e ne inseguiremo convintamente i benefici.
Una transizione, quindi, in primo luogo mentale, che finalmente ci proietti in avanti. Questa è la vera sfida che ci attende.