Garbage In, Garbage Out

Ma la PA non cambia senza competenze digitali e manageriali: come evitare l’effetto “GIGO”

Gli investimenti digitali devono accompagnarsi a investimenti sulle competenze, tecniche e manageriali, delle persone. Che si tratti di nuove competenze, di “up-skilling” o “re-skilling” di competenze già presenti in imprese e PA, la parola d’ordine è “formazione continua”

Pubblicato il 07 Mag 2021

Manuela Brusoni

SDA Bocconi, Osservatorio Masan

Niccolò Cusumano

Associate Professor of Practice Government Health and Not for Profit, SDA School of Management

competenze digitali

Da decenni l’informatica e la tecnologia dell’informazione e comunicazione usano l’acronimo GIGO, Garbage In, Garbage Out (se entra spazzatura, non può che uscire spazzatura) per sottolineare come la qualità dei dati sia sempre essenziale. Qualunque forma di algoritmo informatico elabora in modo acritico dati in ingresso – benché secondo procedure affidabili per sé, ma non dedicate a una verifica selettiva e di pertinenza – producendo livelli di affidabilità – o di insensatezza – dei risultati, coerenti alla qualità dei dati in ingresso.

La frase era molto popolare anche perché si rivolgeva a un mondo di utilizzatori ritenuti inesperti, a cui era bene far presente la necessità di un approccio critico complessivo, sia in fase di input sia di output del dato, per utilizzare nel modo più appropriato la potenziale creazione di valore delle nuove tecnologie.

La doppia pista è dura a morire

Un effetto estremo di questa necessità di controllo e supervisione, e forse di una diffidenza nell’utilizzo dell’informatica, è stata per anni una doppia pista procedurale: chi ha lavorato nel settore pubblico agli esordi della digitalizzazione forse ricorda come, a fianco di investimenti rilevanti in hardware e software, i responsabili del trattamento dei dati continuassero a effettuare una doppia entrata: un data entry informatizzato e automatizzato e una registrazione manuale. Questa seconda era quella ritenuta davvero affidabile. Una spiegazione ricorrente era la mancanza di formazione specifica all’uso delle “nuove” tecnologie, un elemento tralasciato in modo sistematico nel piano di investimenti, sempre centrato sulla componente più tangibile, il bene e il servizio a supporto richiesto al fornitore, e mai sulla componente intangibile delle competenze che avrebbero dovuto accompagnare l’uso efficace della tecnologia. Una seconda ragione era che la scatola nera “computer” veniva percepita come un luogo inaccessibile, mentre la documentazione cartacea, seppur voluminosa e di complicata archiviazione, consentiva un accesso diretto ai dati e una individuazione degli eventuali errori, di rilevazione, di registrazione, di analisi.

Sono passati diversi decenni ma è servita forse un’emergenza pandemica di proporzioni inusitate per mostrare che la doppia pista c’è ancora, anche se di natura diversa: da un lato conoscenze tecnologiche sempre più specialistiche e verticali, a volte poco adattive, dall’altro gestione e governo delle organizzazioni più orientate alla compliance che non a perseguire e verificare gli impatti reali delle azioni.

Si è parlato spesso anche di asimmetria informativa, ma in questo caso è forse più interessante osservare, in modo neutrale, non legato agli ambiti pubblico o privato, la recente comunicazione del World Economic Forum che elenca in ordine di priorità le 10 competenze rilevanti da oggi al 2025. La lista analitica delle 10 competenze è raggruppata in 4 ambiti:

  • problem-solving,
  • self-management,
  • working with people,
  • technology use and development.

Interessante notare come, nell’ambito della categoria self-management compaia, al secondo posto su 10, “active learning and learning strategies”, mentre l’aspetto tecnologico è suddiviso nelle due componenti: techology use, monitoring and control (7°posto) e technology design and programming (8° posto).

Competenze, la necessaria sinergia pubblico-privato

Una prima considerazione che è possibile trarre da quanto sopra esposto riguarda l’importanza delle competenze manageriali in qualunque ambito lavorativo e professionale, quelle legate al pensiero critico, alla capacità di risolvere problemi, alla creatività, innovazione, spirito di iniziativa e capacità di avere un impatto sulla società. Queste competenze non sono di specifica pertinenza né del settore pubblico né del settore privato, ma un loro disallineamento è spesso la fonte delle successive asimmetrie informative che si manifestano come effetto e non come causa.

Una seconda considerazione riguarda la non più differibile esigenza di lavorare in partnership tra i vari attori del sistema paese: non è pensabile considerare specifiche competenze appannaggio del pubblico o del privato: la complementarità richiede una base di confronto comune. Se l’eccellenza tecnologica si sviluppa nelle imprese, questa può essere orientata da una domanda pubblica e- perché no? – da finanziamenti pubblici, ma la domanda deve sapere esprimere un ruolo di committenza esperto e capace di formulare obiettivi da raggiungere in modo misurabile e significativo. Dall’altro lato un’offerta privata in grado di recepire la domanda pubblica, o di stimolarne le componenti innovative meno evidenti, deve basarsi su una comprensione proattiva dei bisogni da soddisfare, su strategie di innovazione sostenibili e sulla conoscenza del mercato pubblico e delle regole che lo governano.

Una terza considerazione, che aggrega le due precedenti, riguarda un terreno di confronto già oggi pronto a testare e verificare una possibilità di dialogo e di strategie di innovazione e sviluppo, sinergiche e complementari, tra pubblico e privato, in particolare sui temi emergenti della trasformazione digitale e della trasformazione ecologica. Si tratta del procurement pubblico, oggetto di dibattito e confronto legato al “contenitore amministrativo”, cioè al Codice dei Contratti Pubblici, più che all’esame delle potenzialità di co-costruzione di soluzioni innovative sostenibili e fonte di benessere collettivo. Tuttavia, a parere di chi scrive come avvalorato dalle ricerche condotte in seno all’Osservatorio MaSan SDA Bocconi-Cergas che mette intorno a un tavolo – nel corso dell’ultimo anno virtuale – centrali di committenza/soggetti aggregatori regionali e operatori economici attivi nel campo della Sanità, se si ha chiaro l’obiettivo e si trova il modo di formulare richieste appropriate, sia per chi fruirà dei risultati dell’acquisto, sia per i fornitori, l’ostacolo normativo o procedurale non è mai la barriera fondamentale. Sapere che cosa serve e come formulare una richiesta appropriata, lungi dall’essere semplice e veloce, è comunque l’essenza della futura collaborazione con chi formula l’offerta migliore.

Conclusioni

Nei campi più complessi tecnologicamente, la conoscenza reciproca e la capacità di co-progettare sono essenziali. Ma co-progettare significa anche ragionare su che cosa ottenere e come misurare i risultati. Qualunque sia il terreno, digitale, clinico, gestionale, la competenza tecnica non riesce a innestarsi e produrre frutti se il terreno della competenza manageriale non è presente. Forse, prima che di eccellenze tecnologiche, la trasformazione digitale ha esigenza di eccellenze manageriali. Nella stagione che si va aprendo, in cui una quota ingente delle risorse europee di Next Generation EU e della Politica di Coesione saranno dirette alla digitalizzazione, la capacità di visione, leadership, gestione degli stakeholder, project management, in altre parole le capacità necessarie a concepire progetti e metterli a terra, saranno dirimenti. Gli investimenti digitali in altre parole devono accompagnarsi a investimenti sulle competenze, tecniche e manageriali, delle persone. Che si tratti di nuove competenze, o di “up-skilling” o “re-skilling” di competenze già presenti all’interno di imprese e Pubbliche Amministrazioni la formazione continua in questo senso può e deve giocare un ruolo importante così come riconosciuto anche dall’Agenda Europea per le Competenze nel 2020.

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