digitale e filosofia

Padroni, non schiavi della tecnica: sei passaggi per riprendere il controllo sulle nostre vite

Come il virus, senza umani, non va da nessuna parte, lo stesso è per il web. Ecco perché bisogna ridisegnare i rapporti fra umanità e tecnica alla luce di questa conquista fondamentale, e di lì riprendere l’iniziativa politica. Sei passaggi per riuscirci

Pubblicato il 13 Mag 2021

Maurizio Ferraris

professore ordinario di filosofia teoretica presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell'Università degli Studi di Torino

internet governance

“Essa umanità ebbe incominciamento dall’humare, ‘seppellire’ […]; onde gli ateniesi, che furono gli umanissimi di tutte le nazioni, al riferire di Cicerone, furono i primi a seppellire i loro morti”[1]. Si è richiamata questa etimologia di fronte al divieto dei funerali in pandemia. Ma non è mai stata così vera, in generale, come nel momento della esplosione della intelligenza artificiale, che porta in primo piano proprio i fini dell’umano e la sua natura che è costitutivamente una seconda natura. Ognuno di noi muore come ogni altro animale, ma, diversamente dagli altri viventi, gli umani seppelliscono i loro morti o, meglio, cessano di essere animali e diventano umani nel momento in cui seppelliscono i loro morti, dando forma tecnica a un sentimento che, per innumerevoli testimonianze, è presente anche negli animali.

La differenza non è la morte, né la consapevolezza della morte, bensì il tentativo di differirla e trasformarla attraverso la tecnica. E se a torto si è potuto credere che Dio abbia dato ad Adamo e ai suoi discendenti la signoria sugli animali, non c’è dubbio che Satana gli ha dato la signoria sulle macchine, e dobbiamo tenercela stretta sebbene, come vedremo, da qualche decennio l’umanità si proclami, contro ogni evidenza, non solo padrona della natura (come se gli umani non morissero), ma, quel che è peggio, schiava della tecnica – quasi che la tecnica avesse un senso qualsiasi in assenza di umani.

Ovviamente, l’etimologia che deriva humanitas da humare è avventurosa, e la predilezione dell’inumazione rispetto ad altri rituali funebri appare puramente arbitraria. Ma il punto resta vero: non è la mortalità, o il lutto per quelli che se ne vanno, a costituire il proprio dell’umanità, bensì il nesso fra l’umanità, la mortalità, la tecnologia, quel nesso che si condensa nel filo tessuto dalle Parche che segna insieme la morte naturale, il sudario, il coronamento, e i tanti altri nastri che si dipanano di lì, fino a quell’intreccio di cavi e nastri che è il Web.

Per questi nastri – che gettano un ponte tra Vico[2] e Beckett[3], ossia tra allora e, tutto sommato, ora –, per questi fili o reti ci vorrebbe una Scienza Nuova Quarta, o, più modestamente, un nuovo De nostri temporis[4], una nuova organizzazione del sapere e del fare che rilanci il progetto di Vico alla luce delle rivelazioni che la tecnica ci ha consegnato nei tre secoli abbondanti che ci separano dell’anno in cui l’orazione fu pronunciata.

Dalla alienazione alla rivelazione

Ho scritto “rivelazioni”, e questo può aver sorpreso, perché collegare la tecnica alla rivelazione appare controintuitivo. In effetti, se chiediamo a qualcuno se la tecnica sia alienazione o rivelazione, la risposta sarà facilmente “la prima delle due”, non solo perché non è chiaro che cosa si intenda con “rivelazione” a proposito della tecnica, ma soprattutto perché una delle prime cose che ci insegnano è che la tecnica è alienante.

Ma per sostenere che la tecnica ci aliena dobbiamo, a ben vedere, accettare una narrazione piuttosto impegnativa, quella di una natura umana creata da Dio (o da quel succedaneo della divinità che è la Natura), e perciò dotata di ogni virtù, intelligenza e vigore. Ne segue che ogni allontanamento da questo stato non può essere che decadenza. L’essere perfetto incomincia a diventare imperfetto, viene cacciato dal giardino, incomincia ad avere la conoscenza del bene e del male, e si munisce di quel supplemento tecnico che è la foglia di fico, preludio di tutti gli altri supplementi che lo accompagneranno nella sua nuova attività, il lavoro.

O, volendo secolarizzare il racconto, il Nobile Selvaggio diviene bugiardo, avido, prepotente, calcolatore, e si incanaglisce nell’inferno della società e in quello della tecnica, tanto che, perduta l’ingenuità, dovrà vagheggiare il proprio passato in forma sentimentale, per esempio con vacanze tropicali o giardini all’inglese, trovandoci però ancora tecnica e società, e dunque sentendosi irrimediabilmente alienato.

Sperimentata l’inverosimiglianza di questa fiaba, vale la pena di prendere in considerazione la narrazione alternativa, e la nozione di “rivelazione” sembrerà meno oscura una volta che avremo capito che l’idea di una essenza umana alienata nella società è un colpo di pistola sparato nel buio. Come sospettiamo da sempre – ma come oggi risulta più evidente che mai, per via delle trasformazioni a cui siamo sottoposti – non c’è un umano in sé, e ciò che ci rende umani non sta dentro ma fuori di noi. L’umano al naturale è un animale ben più svantaggiato di altri o perché non ha unghie o denti letali, patisce il caldo il freddo molto più di altri viventi, è irrequieto, non ha un ambiente e dunque è disadattato ovunque. E proprio per rimediare a questo abbiamo inventato la tecnologia, che ci ha resi umani.

Da che la prima selce è stata scheggiata per farne un raschietto, da quel momento ha cominciato a esistere un essere umano, cioè qualcosa di diverso dall’animale non umano che era. Fra le varie tecnologie, fondamentale è quella sociale, ossia le istituzioni, nozze, tribunali e are e oggi l’immane pletora di atti che vengono registrati dal Web. Per lo più attraverso un’altra tecnologia, il linguaggio che permette, insieme all’arredo domestico, di starsene seduti a raccontare le proprie idee sull’origine dell’uomo invece che correre inseguiti da una tigre coi denti a sciabola.

Ecco perché la natura umana è sin dall’inizio una seconda natura, risultato dall’interazione tra l’organismo e il meccanismo, l’anima e l’automa; e lo sviluppo dell’automa è la rivelazione dell’anima, di quello che siamo, nella storia molto lunga che abbiamo alle spalle e in quella che sperabilmente abbiamo di fronte a noi. Per capirlo basterà considerare che ci sono stati umani di cui non conosciamo più il linguaggio né il nome perché non avevano quella tecnologia importantissima che è la scrittura, ma di cui qualcosa sappiamo perché nelle loro sepolture hanno lasciato vasi, punte di lancia, pettini, fibbie, monili.

Queste reliquie rivelano che cos’erano loro, quei nostri antenati senza nome, e noi riveliamo quello che siamo attraverso gli apparati tecnici di cui disponiamo, e che, contrariamente a quanto si crede per lo più, non sono strumenti di comunicazione, ma, prima di tutto, di registrazione.

Dalla comunicazione alla registrazione

Ecco la pietra, la selce o il silicio su cui poggiano tutte le trasformazioni portate dalla Silicon Valley. Come il Sacro Romano Impero non era, secondo Voltaire, né Sacro, né Romano, né impero, così le tecnologie digitali non sono ICT, come ingannevolmente recita il loro acronimo. Non sono, insomma, né Information, né Communication, né (lo vedremo) semplicemente Technologies. Sono, prima di tutto e in modo decisivo, Registrazione, ed è solo questa circostanza che comporta una frattura radicale con il passato.

Tradizionalmente, la registrazione chiedeva impegno, fatica, costi finanziari. Il che significa che buona parte degli atti compiuti dall’ umanità prima della svolta culminata con il Web non hanno lasciato traccia. Una situazione che diviene ancora più manifesta se guardiamo alle sterminate antichità in cui la registrazione degli atti sociali non era affidata alla scrittura ma si depositava in riti di cui si è persa memoria. Se il digitale ha cambiato così profondamente questa situazione, è per una caratteristica tecnica minima e apparentemente irrilevante.

Nell’analogico ha luogo prima la comunicazione, e poi, eventualmente (e si tratta di un’eventualità molto rara, perché non va da sé) la registrazione, che solitamente dipende da un apparato tecnico distinto da quello preposto alla comunicazione. Comunichiamo con la bocca, ma registriamo con la mano assistita da carta e penna. E tradizionalmente, se si voleva registrare una telefonata o una trasmissione[5] radio bisognava munirsi, per l’appunto, di un registratore.

Da quando il digitale ha invaso le nostre vite, ci siamo scordati di quegli oggetti muniti di cassette o nastri che hanno riempito l’infanzia e la giovinezza di quelli della mia generazione. E questo non perché per un qualche miracolo sociale la registrazione abbia perso interesse, ma perché la caratteristica fondamentale del digitale consiste nel fatto che ogni informazione, per poter essere comunicata, deve essere preventivamente codificata, e dunque registrata.

Ed è così che l’apparato che per eccellenza esprimeva la comunicazione, ossia il telefono, si è trasformato in un archivio che contiene tutta la realtà sociale. Del pari, la radio e la televisione, che nel Novecento erano l’ambito dell’effimero, del transitorio, delle parole dette e dimenticate, si sono trasformate in un enorme deposito di oggetti sociali moltiplicato da quei nuovi strumenti di produzione di realtà sociale che sono i social network.

Questa esplosione della documentalità ha soddisfatto, e insieme rivelato con piena evidenza, la caratteristica costitutiva del mondo sociale, il fatto cioè che gli oggetti sociali siano il risultato di atti sociali che devono essere registrati su un supporto di qualche tipo.

Così, la frase di Andy Wahrol secondo cui un giorno saremmo stati tutti famosi per 15 minuti si è realizzata a oltranza, ma in un modo paradossale e non troppo desiderato: nel mondo della documentalità diffusa, di ciò che chiamo “documedialità” perché è la somma di una documentazione senza precedenti e di una medialità diffusa nei social, il potere e il perdurare ubiquo della registrazione fanno sì che siamo tutti potenzialmente infami per l’eternità.

Non c’è frase infelice o immagine inappropriata che non possa perseguitarci su una rete che è effettivamente ampia come il mondo, fino all’ultima Thule e all’ultimo giorno. Tant’è vero che proprio in questa società iperdocumentata si pone il problema, in altri tempi inconcepibile, del diritto all’oblio.

Dalla infosfera alla docusfera

Se le cose stanno in questi termini, concepire il Web come una infosfera[6] è guardare alla parte emersa dell’iceberg, e confonderlo con Wikipedia, e oltretutto con una Wikipedia scritta in una lingua a noi nota.

Bisogna invece concepire il Web – ben più che come una sfera trasparente e al massimo minacciosa per la privacy e con la deplorevole inclinazione a produrre fake news – come una docusfera, come un immane archivio di documenti che parlano solo a pochi, che in genere sono macchine. Non considerare questo aspetto è commettere un triplice errore.

Dal punto di vista tecnologico, l’appello all’infosfera dissimula il carattere decisivo del Web, che consiste proprio nell’essersi lasciato alle spalle le vecchie tecnologie della informazione e della comunicazione per accedere a un ambito nuovo e, questo, davvero rivoluzionario, quello della registrazione e della produzione.

Il Web è interessante proprio perché registra invece che limitarsi a comunicare o a informare, e questa registrazione sta alla base della produzione di algoritmi e di archivi che permettono l’automazione della produzione attraverso la mimesi delle forme di vita umana registrate sul Web; il perfezionamento della distribuzione attraverso la conoscenza analitica dei nostri bisogni e comportamenti; e la profilazione della realtà sociale riconoscendo le correlazioni tra consumi, inclinazioni politiche, predilezioni e predisposizioni di varia natura che, si badi bene, non riguardano gli individui, cognitivamente poco interessanti, bensì degli idealtipi.

Dal punto di vista antropologico, ridurre il Web alla infosfera è cullarsi con una immagine dell’umano come desideroso prima di tutto di conoscenza, mentre sappiamo bene che le cose non stanno così, e che gli umani accedono al Web per gli scopi più disparati, ma solo in minima parte per informarsi. Certo ci può capitare di cercare, poniamo e per restare al momento peculiare in cui ci troviamo, notizie sui vaccini, sulle norme di confinamento, sulle farmacie aperte. Ma il più delle volte il nostro rapporto con il Web è ricerca di intrattenimento, disputa più o meno ritualizzata con altri interlocutori sui social, celebrazione della nostra vita e dei nostri supposti successi o meriti, oltre che per altre attività di cui non ci vanteremmo.

Il che significa che a prevalere di gran lungo sulla dimensione comunicativa e informativa è la dimensione performativa, l’aspirazione a produrre oggetti sociali, non a dare o a ricevere informazioni. Per non parlare poi del fatto che la massima produzione di documenti avviene a nostra insaputa, e consiste non in dati umanamente leggibili, ma in metadati significativi solo per delle macchine, e che dunque non costituiscono informazione in alcun senso accettabile del termine (sostenere che una macchina riceve informazioni non è diverso dal sostenere che i giornali leggono i giornali e che fra la regina delle api e la regina d’Inghilterra non c’è differenza).

Dal punto di vista economico, è non rendersi conto del cambiamento radicale che questa trasformazione ha apportato nella nostra vita attiva. Nel caso di una tecnologia della comunicazione, come il telefono classico, l’utente pagava per un servizio (e generalmente pagava troppo, visto che spesso si trattava di monopoli), e, una volta ricevutolo, la cosa finiva lì. La compagnia telefonica raccoglieva i profitti e cercava di reinvestirli per farli fruttare.

Nel caso di una tecnologia della registrazione, come il telefonino, quando ho fatto una telefonata, gratis, o una ricerca, gratis, questo è solo l’inizio di un gigantesco processo di capitalizzazione da parte della piattaforma, che registra appunto i metadati (molto più numerosi delle informazioni che ho ricevuto: l’ora, il giorno, la posizione della ricerca, chi sono io ecc.); ne diventa proprietaria realizzando un accumulo primario; li confronta con miliardi di altri dati di altri utenti, avendo gli strumenti tecnologici e concettuali per farlo; li trasforma in profilazioni che può adoperare per scopi di automazione o distribuzione, o che può vendere ricavandone profitti ben maggiori di qualunque investimento in borsa, se non altro perché, non dimentichiamolo mai, li ha acquisiti gratis.

È così che agitando lo spauracchio immaginario, in Occidente, dalla infrazione della privacy, o impegnandosi in futili lotte contro le fake news (se uno vuol credere in un oracolo nessuno al mondo potrà impedirglielo), l’insistenza sulla infosfera ci impedisce di riflettere sulla vera posta in gioco del Web

Dalla docusfera alla biosfera

Sul Web, ben più che una interlocuzione o uno scambio di informazioni ha luogo una serie di azioni che producono documenti, come abbiamo detto, e che generano valore. Ossia ha luogo un lavoro invisibile in cui è impegnata la biosfera, un ambito ancora più ampio della docusfera (e a maggior ragione della infosfera) che però non coincide con la natura, bensì con i caratteri specifici delle forme di vita umana che si riversano sul Web.

Queste forme di vita, come abbiamo detto, hanno la caratteristica di comportare una sistematica interazione tra meccanismi e organismi. Il primo movente del meccanismo, tuttavia, è la natura, ossia nella fattispecie i bisogni degli umani in quanto organismi. E già la semplice comprensione di questa circostanza ci insegna il profondo errore concettuale che sta alla base della convinzione secondo cui gli umani sarebbero i padroni della natura, nel male dell’antropocene o nel bene dell’ambientalismo.

Questo atteggiamento paternalistico e onnipotente per cui ci sentivamo responsabili della natura come se fosse il giardino dietro casa da salvare non senza condiscendenza ha dimostrato tutti i suoi limiti proprio con la pandemia, anche se la premessa maggiore del più antisocratico dei sillogismi, “Tutti gli uomini sono mortali” avrebbe dovuto avvisarci che, salvo imprevisti al momento non attestati, ben lungi dal dominare la natura siamo sottoposti come ogni altro vivente alle sue leggi.

Fingiamo la peggiore delle ipotesi: inopinatamente, il virus non si addomestica ma si rafforza, e a ogni ondata si ripresenta più aggressivo e violento. Dopo una lotta durata non si sa quanto, il virus ha la meglio e l’umanità scompare. È forse scomparsa la natura? Ovvio che no. Si può immaginare tranquillamente un pianeta privo di umani e in perfetta salute, posto che questo termine antropomorfico si applichi a un pianeta.

Pensiamo ora a uno scenario distopico alternativo: l’umanità sconfigge questo e altri virus, si riconferma nella sua convinzione di essere padrona della natura, procede a una distruzione sistematica dell’ambiente rendendo impossibile la vita umana sul pianeta, e scompare. È scomparso il pianeta? Ovvio che no, anche in questo caso. Dunque, sediamoci e riflettiamo sui nostri poteri e le nostre responsabilità.

Che cosa significa essere schiavi della natura? Tante cose, dal soffrire di gotta al non poter andare a sciare se non c’è neve, al trovarsi bloccati su un’isola a causa di una tempesta, al precipitare in aereo, all’essere travolti da una slavina, all’esplodere per un difetto delle tubature del gas (il gas è natura, e anche i tubi non hanno alcunché di soprannaturale), all’essere vittime di una intossicazione alimentare. E, quando pure ci riuscisse di scampare a tutte queste eventualità, essere schiavi della natura significa che prima o poi si muore.

Ma proprio il fatto di essere destinati a una fine insuperabile conferisce agli organismi una finalità, una urgenza, delle motivazioni. Questa pressione vitale (o più precisamente mortale) è ciò che fa sì che si diano dei significati, un senso della storia, un movimento di qualche sorta, e ovviamente anche delle azioni politiche (una politica di immortali non ha più senso di una promessa tra immortali da realizzarsi in un tempo infinito, o di una scommessa tra onniscienti).

Dalla postverità al plusvalore

Non stupisce che il Web produca un po’ di informazione e tantissima disinformazione, ma questo, come l’interferenza nella privacy, non è il suo aspetto più interessante, né più innovativo, proprio come l’aspetto più interessante della scoperta dell’America non è il fatto che Colombo credesse di essere approdato in India. Lo scopo del Web, infatti, non è primariamente generare informazione, bensì registrare atti; non è realizzare il sogno futile di una intelligenza collettiva, bensì registrare di tutti gli atti umani, non necessariamente intelligibili ad altri umani (i big data non sono che questo), né fruibili in termini di informazione.

A che pro? Ma è ovvio, per sostituire gli umani con le macchine, per farle lavorare al nostro posto senza pagarle. Tranne che per realizzare questo scopo le piattaforme fanno lavorare gli umani, che sono talmente a conoscenza di questa circostanza (non sono forse immersi in una infosfera?) che non hanno la più pallida idea di lavorare. Ecco il punto su cui si dovrebbe puntare l’attenzione, e su cui non si guarda se non raramente, o forse mai. Dopo essere stato considerato a lungo – e a torto, perché nessun pasto è gratis – il paradiso in terra e la prateria delle infinite possibilità, il web si stava trasformando nel male assoluto, nel panopticon occhiuto, nell’Armageddon del neoliberismo.

Ovviamente entrambi gli atteggiamenti erano sbagliati, ma se il primo conservava una onesta speranza nel progresso dell’umanità, il secondo si limitava all’invettiva e al complottismo. Del resto, non c’è nulla di più umano, di fronte a una disgrazia, del porsi la domanda più assurda dell’universo: perché proprio a me? Non mi stupirebbe che qualcuno, io per esempio, se la ponesse in punto di morte. Tra la nascita e la morte, la vita è fatta di alti e bassi. I più saggi, a questo punto, ricorrono a una spiegazione potente e non impegnativa: la sfortuna, magari il destino cinico e baro. I meno saggi, ossia la stragrande maggioranza dell’umanità, imputa a un complotto universale o magari (questo avviene tipicamente fra professori) a qualche collega che non c’entra niente, ma che il complottista ha eletto a persecutore esterno implacabile e onnipotente.

Per il complottista, identificato il colpevole, il neoliberismo, il lavoro è fatto e ci si può al massimo dedicare alla compassione delle vittime, i caduti in una fantasmatica guerra biopolitica nella quale una alleanza mai avvenuta, in Occidente, fra Capitale e Stato, avrebbe instaurato il capitalismo di sorveglianza. Riconoscere che l’infosfera non è che un’isola (o meglio un arcipelago di isolotti non comunicanti) circondata da un oceano di docusfera, che a sua volta poggia su un globo di biosfera, è la precondizione per vedere ciò che costituisce il grande arcano della nostra epoca, e per promuovere una rivoluzione del fare e del pensare.

Prima di tutto riconoscendo l’iniquità del rapporto che, attualmente, ha luogo tra la forma paradigmatica di tecnologia, le piattaforme Web, e gli utenti. Questi ultimi ricevono informazioni e servizi gratuitamente, ma le piattaforme ricevono molti dati, possono confrontarli con milioni di altri dati, hanno gli strumenti per calcolarli, e dunque per trasformarli in un capitale disponibile per scopi di profilazione, distribuzione, automazione, oltre che, ovviamente, di monetizzazione.

In altri termini, l’utente riceve 1, oltretutto dopo essersi comprato il mezzo di produzione, e la piattaforma riceve 10, cioè molti più dati e soprattutto metadati; che diventano 100, visto che è proprietaria di quei dati, diversamente dagli utenti, dunque li trasforma in capitale con un accumulo primario; poi 1000, giacché i dati possono essere confrontati con i dati di milioni di altri utenti; poi ancora 10.000, grazie alle profilazioni che si possono ricavare dal confronto, disponendo di mezzi di calcolo e di analisi che l’utente non possiede; e alla fine 100.000, perché i dati possono essere venduti dopo questo processo di valorizzazione, e pagati non in bitcoin ma in buone vecchie valute, cosa che l’utente non può fare.

Pensateci, vestali dell’etica della comunicazione: non potrò mai pagarmi un caffè con i miei dati biometrici, semplicemente perché i dati individuali, ci riflettano coloro che vedono nella privacy il solo problema, non interessano nessuno tranne il mio medico e il mio assicuratore, dunque non sono monetizzabili da parte mia, e l’unica alternativa che mi resta, se proprio voglio avviare una attività bioeconomica sul Web, è vendere un rene nel dark Web.

In tutto questo, lo ripeto, la pretesa infosfera è talmente informativa e trasparente che non siamo nemmeno consapevoli di lavorare, e, solo un poco, di essere stanchi e stressati da una mobilitazione che, se fossimo un po’ più informati o riflessivi, concepiremmo come l’annuncio del più umano dei lavori, il lavoro dello spirito[7].

Dal lavoro alla mobilitazione

It’s the economy, stupid! Novant’anni fa Keynes[8] vaticinava che oggi l’automazione avrebbe reso sufficienti quindici ore di lavoro settimanale, e che si doveva pensare a come occupare quella enorme quantità di tempo libero. Novant’anni dopo, la profezia si è realizzata in modo singolare, perché molti non lavorano affatto, visto che l’automazione gli ha tolto il lavoro, ma sono impegnati per quindici ore al giorno, sul computer, dove producono valore. Da dove deriva quel sentimento di iperoccupazione anche quando non siamo al lavoro o quando siamo disoccupati?

Dal fatto che siamo passati dal lavoro alla mobilitazione, a una attività costante che coinvolge anche i bambini, i disoccupati, gli occupati in altri lavori e i pensionati, e che non fa più differenza non solo fra tempo del lavoro e tempo della vita, ma soprattutto è capace di trasformare in produzione di valore anche le attività che non avevano alcun intento produttivo, e che si presentano piuttosto come ricreazione, intrattenimento, consumo.

Queste attività, tuttavia, stanno alla base del processo di capitalizzazione operato dalle piattaforme, dunque sono, nella loro apparente inutilità economica, la massima fonte di valore che si possa immaginare, appunto perché permettono delle profilazioni, delle automazioni, delle capitalizzazioni che nessuna fabbrica di Metropolis o di Tempi moderni avrebbero mai consentito. Perché fanno sì che l’essere umano possa essere sostituto da macchine che non muoiono, non si stancano, non si ribellano, non hanno diritti e non vanno in pensione. Ecco quello che Keynes non poteva prevedere, e che può essere la base per una azione politica che sappia riconoscere la centralità dell’umano nella produzione della ricchezza. Una centralità che, piuttosto paradossalmente, prende una piena evidenza proprio in un momento in cui l’automazione sta sempre più relegando l’homo faber nel capanno degli attrezzi.

La distopia per cui un mondo tecnologico è un mondo in cui gli umani sono ridotti a macchine è una fiaba particolarmente ingenua. Una tecnica primitiva non si indirizza soltanto all’umano, dunque non ne dipende interamente; una tecnica poco più sofisticata, dall’aratro alla catena di montaggio, fa dell’umano una protesi della macchina; ma una tecnica pienamente sviluppata è interamente dipendente dall’umano, dalle sue attitudini e dai suoi bisogni, basti considerare che l’intelligenza artificiale altro non è che la registrazione della mobilitazione umana sul web e non significa niente al di fuori del mondo umano. Una volta compresa questa circostanza potremo predisporre un Welfare per il mondo nuovo, capace di dare risposte alle ansie di tutti gli umani minacciati dalla concretissima possibilità di perdere il lavoro a causa della automazione.

Dal Welfare al Webfare

Come? L’idea che sta alla base del Welfare del XX secolo e che ha permesso alle sinistre di socializzare il plusvalore del capitale industriale è stata considerare il risparmio e l’investimento come le due facce della stessa medaglia. Se guardi al capitale come a una totalità, bisogna superare la credenza moralistica per cui chi mette i soldi in banca è premiato perché risparmia. Non è così: è premiato perché rende disponibili dei soldi che saranno investiti, sostenendo nel lungo termine dei consumi che costituiscono il fine ultimo di ogni produzione di beni. E l’investimento costituisce la via regia per ottenere ciò che – in epoca di automazione ancora imperfetta – costituiva l’obiettivo fondamentale del Welfare, il raggiungimento del pieno impiego.

Affinché ciò avvenga “gli individui spensierati di domani sono assolutamente necessari per creare la ragion d’essere di quelli seri e ponderati di oggi”[9]. Quanto dire che si risparmia oggi solo per spendere domani, e un risparmio senza spesa non ha senso. Se io metto i soldi dentro al materasso e questo materasso viene ritrovato secoli dopo, non si è mai trattato di un gesto di capitalizzazione, bensì di una maniera non convenzionale per imbottire un materasso.

Analogamente, nel Welfare del XXI secolo si tratterà di considerare consumo e produzione come i due volti della stessa realtà. Si produce in vista di un consumo futuro, e gli unici animali veramente capaci di consumo sono gli animali umani. Fatto questo, si tratterà di concepire ogni forma di produzione di valore, a partire dalla mobilitazione degli umani sul Web, come lavoro. Nel momento in cui la mobilitazione degli umani sul Web viene registrata, con ciò trasformandosi in dato, entra nel processo di capitalizzazione che ho descritto più sopra. Ma, se è così, se la mobilitazione produce valore, allora abbiamo le basi per giustificare una tassazione delle piattaforme e una ridistribuzione del plusvalore per promuovere la fioritura dell’umano in ciò che gli è proprio, che non è la produzione, dove appare del tutto evidente che può essere sostituito dalle macchine, bensì il consumo.

Concretamente, grandi entità sovranazionali, come l’Europa, che possono contare su centinaia di milioni di cittadini possono imporre alle piattaforme delle tassazioni che partono dall’ idea che il problema della piattaforma non è più quello del monopolio o dell’abuso di una posizione dominante, come nelle leggi antitrust del secolo scorso, bensì nel fatto che ci si serve del lavoro altrui senza nemmeno riconoscerlo come lavoro.

Se ci si scandalizza di Uber perché esternalizza tutte le spese dell’impresa, a maggior ragione ci si dovrebbe scandalizzare delle piattaforme che, diversamente da Uber non riconoscono nemmeno il lavoro svolto da coloro che sono mobilitati sul Web. Tranne che, a quanto mi consta, l’uberizzazione è una delle bestie nere del presente non considerando che il male è ben più grande e, quel che peggio, non è nemmeno riconosciuto come un problema.

La tassazione delle piattaforme da parte degli stati avrebbe un vantaggio supplementare ma cruciale perché, diversamente dal Welfare cinese, le piattaforme non sono governative e dunque non sono interessate alle idee dei cittadini. E il Welfare andrebbe investito nel sostegno delle enormi quantità di persone che stanno perdendo i vecchi lavori, in opere di educazione e di riqualificazione, e questo non per una generica filantropia, ma semplicemente per il fatto che mentre è inutile cercare di battere le macchine sul piano della produzione e della distribuzione, resta che c’è un campo in cui gli umani non possono essere sostituiti efficacemente da nessuna altra macchina.

Dalla umanità alla documanità

Il Webfare non è solo risposta ai bisogni organici, ma è, se correttamente inteso, la base per un nuovo umanesimo. Questo umanesimo è ben consapevole dei limiti essenziali dell’umano. Per come siamo fatti, ci è andata fin troppo bene, e guardando da dove veniamo è difficile, se non altro statisticamente, che abbia luogo un regresso. Invitandoci a non restare abbarbicati al vecchio mondo la filosofia della storia ci esorta a non rassegnarci alla nostra condizione naturale di imbecilli.

L’umano deve cessare di essere in-baculum, privo di bastone, deve afferrarlo e intraprendere un cammino che, se avrà luogo, non potrà che essere buono.[10] Se la storia ha un senso, è perché la ragione fa progressi; se viceversa regredisse, non solo la storia sarebbe deprimente ma sarebbe una favola incauta che si preclude la possibilità del futuro.

Il mondo nuovo che si fa avanti dopo tante morti ci impone, proprio come nel 1946 di chiederci come fece Beaufret indirizzandosi a Heidegger, “Comment redonner un sens au mot ‘Humanisme’?[11] E se Heidegger, come sappiamo, sostenne che un rilancio o una risignificazione dell’umanesimo non era auspicabile, io credo che proprio l’esplosione del Web costituisca la migliore via per una nuova concezione dell’umanità come documanità, come una umanità documentale e documediale ma non per questo meno autentica o umana.

Non dimentichiamolo mai: il virus, senza umani, non va da nessuna parte. Questo lo possiamo affermare con ragionevole certezza. Ma neanche il Web, o qualunque altro apparato tecnico, a incominciare dalla società, non va da nessuna parte, senza umani. Ecco quello che potrebbe averci insegnato il virus. Bisogna ridisegnare i rapporti fra umanità e tecnica alla luce di questa conquista fondamentale, e di lì riprendere l’iniziativa politica.

Dalla intelligenza artificiale alla intelligenza naturale

L’errore peggiore sarebbe credere che con il progresso tecnologico assistiamo a un processo di disumanizzazione. Facendolo, cederemmo a un vecchio fantasma, perché da che l’umano è l’umano uno spettro si aggira per il mondo: le macchine prenderanno il potere, qualcosa che noi stessi abbiamo costruito ci dominerà. È già il caso del Vitello d’Oro, l’idolo che fabbrichiamo e a cui ci sottomettiamo; o degli aiutanti magici (bacchette, spade nella roccia o altro) che ci salvano e creano dipendenza; o del Golem, il finto Adamo che si ribella all’apprendista stregone; o degli umani ridotti a macchina da altre macchine, nelle catene di montaggio, e poi circondati, anche fuori della fabbrica, dalle macchine che hanno costruito; sino allo spettro degli spettri, quello di una intelligenza artificiale stufa di farsi comandare da stupide intelligenze naturali.

E non dimentichiamo che lo spettro stesso è una specie di macchina o di automa, così come lo zombie: qualcosa che ha le parvenze dell’umano ma non lo è, e gli è superiore, perché non può morire, dunque non ha paura della morte.

In questa distopia, l’intelligenza artificiale è diventata un incubo per due ragioni, una fondatissima al punto che non occupa più il nostro sonno, bensì la nostra insonnia, e cioè la minaccia che le macchine ci portino via il lavoro; e una completamente infondata, e cioè che le macchine prendano il potere. Se comprendiamo perché le macchine non possono portarci via il potere possiamo essere in grado di escogitare il modo per non permettere che, per semplice ignoranza da parte nostra circa la natura del lavoro, ci riducano alla disoccupazione.

Che cosa può spingere un ente qualunque a desiderare il potere? La paura, il desiderio, la pulsione organica ad alimentarsi, la consapevolezza di essere soggetto a processi irreversibili al cui termine c’è la morte. Ecco perché i virus fanno tanta paura agli umani mentre i cosiddetti “virus” dei computer – di cui parlavamo con leggerezza e metaforicità fino a non molto tempo fa, convinti che i virus ormai riguardassero solo le macchine – non hanno mai spaventato un computer, proprio come nessun sentimento lo ha mai emozionato, nessun desiderio lo ha mai stimolato, ecc.

Dunque, i computer non sono interessati a prendere il potere più di quanto un leone possa essere interessato a giocare a rubamazzetto. Quanto più c’è automa, tanto più conta l’anima, non solo perché l’automa sostituisce l’anima là dove questa non è che un automa che si ignora, ma perché la sostituzione è resa possibile dalla registrazione dei movimenti dell’anima. Non siamo mai stati così vicini alla comprensione della vita come in quel trionfo della morte che è il Web, che capitalizza la vita raccogliendone i gesti più minuti e irrilevanti, e la restituisce come automa, ripetizione, scrittura.

Questo è il punto decisivo: l’intelligenza naturale sta dentro a un corpo, quella artificiale dentro a una macchina, o, più esattamente, è quella macchina. E questo fa tutta la differenza: gli organismi, umani o animali, hanno bisogni, desideri, timori, dunque possono aspirare al potere. Per questo, non ci sorprende che ci siano rapporti di dominanza e sottomissione in un branco di sciacalli o in un consiglio di dipartimento, mentre sembrerebbe difficile concepire un telefonino che dà ordini a un termostato senza che un umano glielo abbia prescritto, o semplicemente un computer che si annoia.

Cacciamo gli spettri. Un bastone è una macchina molto semplice, perciò è molto libera quanto all’uso che se ne può fare (leva, mazza, giavellotto…) e all’utente (uomo, scimmia, castoro…). Un aratro è già molto più dipendente da un utente umano, ma in compenso nell’aratura l’umano è parte di un complesso tecnologico allo stesso titolo dell’aratro e (se gli va bene) del bue. Lo stesso può dirsi di una catena di montaggio. Viceversa, la macchina per eccellenza del secolo scorso, l’automobile, ha bisogno degli umani solo per sapere dove andare, a meno che sia un’auto a guida automatica. E, cosa ancora più importante, lo smartphone, la macchina per eccellenza del nostro secolo, è totalmente dipendente dall’uso che ne possiamo fare e non ha alcun significato al di fuori di quell’uso.

A maggior ragione, la macchina universale, la macchina assoluta, ossia l’intelligenza artificiale, consiste esclusivamente nella registrazione e nella elaborazione delle forme di vita umana, ossia si alimenta esclusivamente di sangue umano ma, a differenza dei vampiri, non ha alcuna urgenza, bisogno e pulsione: il Web non verrà mai a cercarci, se non lo cerchiamo noi, se non accendiamo la macchina.

Dalla biopolitica alla politica

Se questo è vero, teorizzare la biopolitica è addormentare le coscienze, e prima di tutto mettersi l’anima in pace a costo d’inflazione. Ciò è diventato particolarmente evidente durante la pandemia, nella quale la pista biopolitica è stata di gran lunga prevalente. Il racconto, come sappiamo, suona pressappoco così. Il virus, sia esso immaginario o esagerato, o realissimo, è l’occasione perfetta per l’instaurazione di uno stato di eccezione, che annulli le libertà imponendo, con il pretesto della salute pubblica, una tirannia biopolitica. Reputo questa interpretazione fattualmente inaccurata, concettualmente inconsistente e politicamente reazionaria, e nelle righe che seguono vorrei spiegare perché, concludendo con la succinta esposizione delle buone ragioni dell’accelerazionismo.

Quanto alla inaccuratezza fattuale. Un potere che vieta gli assembramenti non è un potere che vieta tutte le libertà, come sempre si legge, ma ne limita una sola, che del resto da decenni è adoperata per scopi ricreativi (movida) e non per scopi politici, cui da tempo sono adibiti i social. Il semplice esame del cui prodest dimostra come, a un anno di distanza, non si sono ancora viste tracce di questo stato di eccezione. L’idea che il virus possa esser strumentalizzato per scopi di controllo, e che la mascherina sia un bavaglio, è smentita dal fatto che l’America di Trump e il Brasile di Bolsonaro, non esattamente dei modelli di democrazia, si sono contraddistinti per un laissez faire pressoché assoluto in materia di mascherina; dal fatto che i Paesi che hanno esercitato in modo efficace un controllo informatico e un isolamento totale erano già dei paesi autoritari, come appunto la Cina; dal fatto che in Europa è molto difficile trovare qualche segno di svolta autoritaria, e che a oggi la politica vaccinale più efficace è stata realizzata dal Regno Unito, geloso delle libertà individuali e molto distante da qualunque tentazione biopolitica del Continente.

Ci si domanda, insomma, quale strategia biopolitica possa essere alla base delle inefficienze che si constatano in tutti gli stati liberali. Piuttosto, si manifesta una netta contraddizione tra biopolitica e liberismo: la prima mira al controllo, il secondo al profitto, e non è affatto chiaro in che modo si possano conciliare questi interessi contrapposti; tanto è vero che non si sono conciliati.

Quanto alla inconsistenza teorica. Sebbene occupi la letteratura filosofica da mezzo secolo, la biopolitica è un concetto troppo vago. Sostenere che il potere moderno, diversamente da quello antico, è potere di vita anziché di morte è non considerare tre circostanze: primo, che dal punto di vista concettuale avere potere di vita è identico ad avere potere di morte, dunque la biopolitica è al tempo stesso tanatopolitica; secondo, che da questo punto di vista il monopolio legittimo della violenza come caratteristica dello stato moderno è, perciò, a tutti gli effetti, un potere biopolitico; terzo, che espressioni come “la borsa o la vita” o la risposta di Brenno ai romani su cosa restasse loro dopo la spogliazione subita, ossia “la vita!” era una risposta biopolitica senza che Brenno avesse letto una riga di Foucault.

Per il resto, è naturale che il governo oggi passi attraverso la scienza e la salute, così come in un tempo che non rimpiangiamo passava attraverso la tradizione, la religione, la razza. Ciò che è cambiato non è il potere, ma la medicina, molto più efficace, come dimostra l’aumento impressionante della vita media; ma una scorsa ai Re taumaturghi di Marc Bloc, uscito due anni prima che nascesse Foucault, dimostra che la carta biopolitica, sia pure in veste taumaturgica invece che chirurgica, il potere se l’è sempre giocata. Vale anche un argomento e contrario: l’ordine Nerone con cui, nel marzo 1945, Hitler ordinava la distruzione dell’apparato industriale della Germania considerando che i tedeschi non meritavano di vivere essendo inferiori alle “forti razze dell’est” non è considerato né tanatopolitico né biopolitico, ma semplicemente folle, e nessuno l’ha osservato.

Ma è il conservatorismo politico a costituire il limite maggiore della pista biopolitica. Sostenere che il potere oggi ricatta gli umani con la promessa della vita è, da una parte, lo abbiamo visto, enunciare una solida ovvietà, che vale per il re dei Giudei che sulla croce promise la vita eterna ai suoi compagni di supplizio così come per Berlusconi che promise di vivere centovent’anni ai suoi elettori. Ma è anche imporre una insopportabile rassegnazione e un inaccettabile vittimismo. Visto che il potere può controllare la nostra vita, e poiché un eroismo di massa urta con tutto quello che sappiamo della natura umana, l’ovvia conclusione è che l’ergastolo biopolitico è l’unica prospettiva riservata alla natura umana, con la dubbia consolazione, che si arrogano i pochi, di compatire o di disprezzare i propri compagni di pena in saggi e convegni.

Dalla servitù alla signoria

Cambiamo registro. L’umano è certo capace di servitù volontaria, e per saperlo non è certo necessario abbeverarsi alle sorgenti della biopolitica. Ma è anche capace di ribellione e di lotta, una volta che abbia smesso di piangersi addosso. E soprattutto quando abbia riconosciuto il proprio vero potere. E pochi tempi quanto i nostri sono stati favorevoli a un simile presa di coscienza.

Quanto più una macchina è sofisticata, tanto meno è interessata a prendere il potere, non solo perché è difficile immaginare una macchina interessata a qualcosa, ma perché quanto più una macchina è complessa, tanto più è dipendente dagli umani. Tanto più, dunque, diviene chiara l’identità, che ci eravamo persi per strada, tra l’arte e la tecnica. Un computer senza umani è tanto poco pensabile quanto un tempio o una galleria d’arte in un mondo in cui gli umani non avessero mai messo piede. Imparare a vivere è sempre stato importante, ma lo è ancor di più nel momento in cui la vita umana costituisce il riferimento ultimo degli automatismi, che sono diventati così sofisticati da non richiedere l’umano come attrezzo supplementare, ma dal porlo al centro dell’intero sistema di automazione, che viene a configurarsi per l’appunto come una mimesi dell’umano. Reciprocamente, ciò che chiamiamo “umanità” è una costante cooperazione tra anima e automa, dove però la prima e l’ultima parola spettano sempre all’anima, senza la quale l’automa non ha alcuna ragion d’essere.

Il motivo per cui la responsabilità di ciò che fanno le macchine va ricondotta agli umani, e non l’inverso, è molto semplice: solo gli umani hanno una tecnica a cui imporre dei fini, e ce li hanno perché solo gli organismi, cioè anche gli umani, hanno una fine. Non c’è dubbio che tutto ciò che è finisce, e che questa fine è particolarmente vistosa negli organismi, che subiscono un cambio di stato repentino e irreversibile, anche se preparato da tutta la loro vita. Anche in uno stato di protezione e di riposo un organismo subisce la pressione del metabolismo, dunque ha una temporalità interna: difficile immaginare un computer che intrattiene con l’elettricità lo stesso rapporto che un organismo ha con il nutrimento o con il bisogno di ossigeno. E le conseguenze della mancanza di cibo o di ossigeno sono ben diverse da quelle della mancanza di elettricità, perché se un organismo muore è per sempre, mentre un meccanismo può sempre essere riacceso, è fatto per quello. Quindi un organismo ha davvero una fine, e proprio per questo può avere dei fini.

Ora, se è avventuroso attribuire la responsabilità della morte di Cesare ai pugnali, ancor più avventuroso, per quello che abbiamo detto poco fa, è imputare i nostri errori (e a maggior ragione i nostri peccati) a un telefonino. Non è paradossale che coloro stessi che ritengono di avere un potere di vita e di morte sulla natura credano di essere asserviti alla tecnica, ossia al sistema di apparati che l’animale debole e disadattato ha creato per tutelarsi in un ambiente ostile? Ma c’è del metodo in questa follia: nulla è più folle, o astuto, del dichiararsi schiavi della tecnica, come dichiara la biopolitica, visto che la tecnica esiste solo in vista e in funzione degli umani, e che questa dipendenza diviene tanto più grande quanto più la tecnica si sofistica. Ho scritto che nulla è più folle o astuto perché la rivendicazione della subalternità degli umani rispetto alla tecnica che si è fatta avanti, non a caso, solo negli ultimi decenni e non prima è stata semplicemente un accorgimento per addossare alla tecnica delle responsabilità umane troppo gravi per essere perdonate.

Possiamo persino indicare la data esatta in cui l’argomento della signoria della tecnica sugli umani è stato enunciato per la prima volta: il 31 agosto 1946 a Norimberga, nell’autodifesa di Albert Speer[12]. Dopo essersi dichiarato colpevole (diversamente dagli altri imputati, ciò che gli salvò la vita) Speer disse che però il vero e unico colpevole era la tecnica, che nella sua perfezione trasmetteva gli ordini in maniera implacabile e ineludibile. Questo discorso apriva le ampie prospettive della non responsabilità dei tecnici che tuttora vige nel senso comune (si pensi all’assoluzione e all’impoliticità che presuppone il sintagma “governo tecnico”) e che, sul piano filosofico, si è tradotto nel luogo comune secondo cui l’Occidente sarebbe schiavo della tecnica, e dunque, in ultima istanza, ugualmente colpevole e innocente, indipendentemente dalle singole decisioni, dalle circostanze, dalle responsabilità morali individuali, dalle fattispecie storiche o giuridiche. Tutti colpevoli, tutti vittime, assolti tutti.

Dalla rassegnazione alla rivoluzione

La filosofia può e deve recuperare la propria dimensione rivoluzionaria, non con proclami incendiari e futili, ma con analisi pacate e, sperabilmente, originali ed eterodosse, come ci si aspetta dai filosofi. Riconoscerci schiavi della natura come ogni altro organismo, ma padroni della tecnica diversamente da qualunque altro organismo o meccanismo restituisce l’iniziativa (e ovviamente la responsabilità) politica agli umani. Unici tra gli organismi non a morire (muoiono tutti) ma a differire la morte con la tecnica, gli umani sono proprio per questo i signori della tecnica, che senza di loro non avrebbe senso e non andrebbe da nessuna parte. Una volta che, superato il vittimismo politico, si sia compreso che le macchine dipendono dagli umani, e che la dipendenza è tanto maggiore quanto più grande è il grado di complessità dell’automa, si diviene capaci di rilanciare una dialettica di signoria e servitù in cui l’umano riconosca la propria superiorità rispetto alla macchina.

Durante la pandemia le piattaforme hanno moltiplicato i loro guadagni proprio perché l’intera umanità è rimasta connessa attraverso il Web, moltiplicando gli archivi di dati su cui le piattaforme fondano la loro ricchezza. Invece che lamentarci dell’astuzia del capitale (che è al tempo stesso compatirci per la nostra stupidità) non varrebbe la pena di considerare che, se si può benissimo concepire un umano senza il Web (io, per esempio, per buona parte della mia vita; tutti quelli della mia generazione; tutte le infinite generazioni che ci hanno preceduti) non si può pensare un Web senza umani? Dunque siamo noi che, per usare una metafora tecnologica, abbiamo il coltello dalla parte del manico.

Ci sono tutti i motivi per trarre di qui non le ragioni di una rivolta sanguinosa come quella di Haiti a cui si è ispirato Hegel per la figura della signoria e della servitù, né di lotte che hanno fatto il loro tempo come le fabbriche da cui traevano origine, bensì di una rivoluzione concettuale e di una trasvalutazione dei valori tradizionali. La grande occasione che viene offerta oggi consiste proprio nel superamento del vittimismo che aveva caratterizzato la riflessione post-coloniale, e che aveva avuto come risultato paralizzante per il pensiero critico e progressista non di riconoscere i torti, anche culturali, del colonialismo, ma nel proporre l’equazione affrettata e profondamente ingiusta tra soggetto politico e vittima.

Il soggetto politico non è necessariamente una vittima, e, quando lo è, non si può nemmeno escludere che lo sia per responsabilità interamente sue. Ciò premesso, i soggetti politici più interessanti sono i vincitori, a meno che si tenga a scrivere una storia vittimaria che in musica antepone Salieri a Mozart, in politica antepone Carlo Pisacane a Lenin, e in letteratura Silvio Pellico a Kafka. L’idea è molto semplice: invece di mettere tutti quanti in condizioni di piangere il male comune, che sembra di gran lunga l’attività prevalente dei populismi e dei vittimismi contemporanei, cerchiamo di costruire un futuro dell’umanità in cui tutti siano vincenti, fatto salvo il diritto, che è inalienabile, di fallire ancora, di fallire meglio[13], se è questo che desideriamo. In questo quadro sono centrali sei passaggi con cui mi avvio a concludere questa orazione e perorazione, sei passaggi in cui si possono sunteggiare non le trasformazioni che sono state portate dalla tecnica, bensì quelle che, con una tecnologia del sé, potremo sviluppare in noi stessi, per noi e per le generazioni future.

Dalla produzione al consumo

Il primo passaggio conduce dalla produzione al consumo. Inutili come appendici di vanghe, di torni, di macchine per scrivere, gli umani sono insostituibili come appendici di coltelli e forchette, di cinema, di concerti, di romanzi, e ovviamente di tanti altri intrattenimenti meno commendevoli, ma esclusivamente umani. E, per una strana astuzia della ragione, mentre soddisfano i loro desideri lavorano per la loro disoccupazione, il che è indubbiamente una disgrazia, ma solo sino a che non si riconosca che questo lavorare per la propria disoccupazione è l’unica attività in cui nessuna macchina può sostituire l’umano.

Immaginiamo l’impatto del virus in una situazione senza Web. Il blocco delle attività produttive e, a maggior ragione, della produzione di valore, sarebbe stato infinitamente maggiore. I vaccini sarebbero stati trovati molto più tardi, prolungando la pandemia e i suoi effetti economici e politici. E, alla fine, una umanità impoverita si sarebbe confrontata con problemi per lei molto più gravi della tutela dell’ambiente, che è sempre benvenuta non solo di per sé, ma anche perché è indizio di uno stato di maggiore benessere. Per venire incontro ai bisogni di una umanità impoverita e preoccupata ogni cautela sarebbe venuta meno, e le necessità immediate avrebbero fatto scegliere qualunque tipo di produzione, fosse pure nociva o inquinante, magari rilanciando la produzione a basso costo nei paesi più poveri che, per eccellenti motivi, sono anche i meno rispettosi dell’ambiente.

Qual è l’implicito di questo scenario? Il fatto che la produzione più importante, quella che condiziona tutte le altre, è la produzione di valore, che non può essere automatizzata e che costituisce la condizione di possibilità e, insieme, il fine di ogni automazione e di ogni produzione. In concreto, questa circostanza si tradurrebbe nel riconoscimento della imprescindibilità della mobilitazione umana per la produzione di valore, e dunque nella attuazione del Welfare di cui dicevo più sopra. La dipendenza delle macchine da noi, da ognuno di noi, diviene in questo quadro un motivo di lotta e di rivendicazione molto più forte delle rivendicazioni sindacali del Novecento. Lì infatti la risposta era la delocalizzazione prima, l’automazione poi. Adesso siamo entrati in una nuova era della contrattazione tra capitale e lavoro, dove per l’appunto il lavoro è produzione di valore attraverso la mobilitazione umana.

Se riusciremo a superare il ridotto e caduco concetto dell’umano come produttore di beni invece che di valori, se riusciremo a riconoscerlo anche come consumatore e come portatore di corporeità oltre che, ovviamente, di creatività, allora vedremo che la grande attività fondamentale che l’umano può svolgere è la cura, di sé e dell’altro. In effetti, è una situazione non precisamente inedita, presentando delle significative analogie con la vita tardoantica, quando a Roma e a Costantinopoli enormi masse di consumatori vivevano senza necessità produttive dal momento che funzioni che oggi vengono assolte dalla automazione venivano allora risolte dalla economia schiavistica. Le masse urbane di consumatori avevano però una utilità economica soltanto marginale, in quanto producevano consenso politico. La rivoluzione documediale, invece, ha permesso di trasformare il consumo in valore non solo politico ma economico.

Dal consumo all’educazione

Il secondo passaggio è la riqualificazione del consumo attraverso l’educazione. Si tratta in questo quadro di creare le forme per una educazione permanente che abiliti concettualmente alla partecipazione politica le moltitudini che ora sono tecnicamente in condizione di farlo. Parlando di “moltitudini” non le contrappongo alle élite, perché ognuno di noi, in questa fase storica, è parte della moltitudine, il che è un bene, perché si stanno ponendo le condizioni perché le differenziazioni dipendano molto meno dal privilegio che non dal merito, intellettuale e morale (per non dare l’impressione che stia parlando in generale ed enunciando dei vaghi ideali, osservo che attualmente persino nell’Università il merito sta sempre più diventando un criterio decisivo). Coloro che – me li immagino, e non ci vuole troppa fantasia, basta l’esperienza – si saranno sdegnati perché ho riconosciuto nel consumo l’elemento distintivo dell’umanità dell’uomo spesso non hanno trovato nulla da ridire con quella stanca prosecuzione di un obsoletissimo homo faber nell’ideale di riscrivere l’educazione umanistica in termini professionalizzanti.

Ben più che un crimine, è stato un errore. Il filo conduttore delle recenti riforme dell’università – non solo in Italia, ma nel mondo – è consistito proporre una formazione professionalizzante, che muoveva dall’assunto per cui la cultura umanistica e scientifica costituisce un ornamento privo di qualunque presa nella vita reale. Non ci si rendeva conto che la vita reale ha una caratteristica, quella di cambiare molto più rapidamente delle riforme e degli insegnamenti. Come risultato, gli insegnamenti “professionalizzanti” si sono trasformati in un mare di arcaismi e di anacronismi. Abbiamo creato ingegneri e medici iperspecializzati nel momento in cui i problemi della sostenibilità e dell’ambiente richiedevano una crescente consapevolezza dell’impatto sociale della tecnologia e nel momento in cui – come ci ha insegnato nostre spese la pandemia – non basta avere i medici capaci di fare operazioni rarissime e costosissime, ma è anche necessaria una sanità diffusa sul territorio.

Per non parlare di quello che è successo nelle facoltà umanistiche dove si si è preteso di trasmettere non un bagaglio culturale permanente quanto mai utile in una realtà in continua trasformazione, bensì poche regole pratiche, oltretutto insegnate ex cathedra e su libri, per diventare giornalisti, il tutto nel momento in cui i giornali e le televisioni sparivano. Non vedo assolutamente niente da salvare in queste riforme se non la preoccupazione che ha mosso i meglio intenzionati tra i riformatori, e cioè la necessità di adeguare l’università ai tempi nuovi. Ma credo che questi benintenzionati fossero una minoranza, la maggioranza essendo composta da teste mediocri e da persone interessate a moltiplicare gli insegnamenti per poter accrescere la propria influenza.

Mai come oggi il Fachidiot, oltre a essere molesto (quello lo è sempre stato), è diventato inutile. Nel momento in cui la critica, ossia l’esattezza e la precisione, è alla portata delle macchine – e questa è la grande conquista tecnologica dei nostri tempi – il vero grande capitale è l’enorme archivio delle nostre forme di vita, quello che chiamiamo “intelligenza artificiale”, ma che in effetti non è che una enorme topica di tutte le cose, sensate o insensate, che possono fare o pensare o desiderare gli umani alla luce della loro intelligenza naturale, che ovviamente non va mai senza una naturalissima imbecillità. In tutto questo conviene liberarci da due spauracchi, la licealizzazione e l’aziendalismo, due frasi che, una volta pronunciate, esentano da qualunque altra attività di pensiero chi le ha profferite con l’aria di saperla lunga e di esercitare un indomito spirito critico.

Non dimentichiamoci che le università in cui hanno insegnato persone come Kant erano delle erano delle specie di licei, con pochi professori che insegnavano tutto e il Re di Prussia che promulgava decreti in cui ingiungeva a quei professori di non limitarsi, a lezione, a leggere ad alta voce manuali scritti da altri professori. E non dimentichiamoci che uno come Leibniz, che non ha del tutto demeritato in filosofia, e non ha mai insegnato in università, come tantissimi altri filosofi del suo tempo ma ha lavorato in una azienda, ossia nelle miniere dello Harz e poi dentro all’amministrazione del granducato di Hannover, che di nuovo era l’equivalente di un’azienda (dopotutto, la Royal Family inglese si riferisce a sé stessa come “la ditta”).

In altri termini non dobbiamo sottovalutare i vantaggi che vengono tanto dal liceo quanto dall’azienda. Il liceo ha dalla sua la caratteristica di impedire che chi insegna si riduca allo specialismo dissennato per cui si sa tutto di una cosa e niente di tutto il resto. L’azienda è un posto in cui la realtà è particolarmente urgente e spesso spietata, ma anche particolarmente ricca, avanzata, piena di promesse. Dunque, cerchiamo di evitare di vedere nella decadenza dell’università o nella sua aziendalizzazione una giustificazione per quello che non possiamo, non vogliamo o non riusciamo a fare. Ricordo molto bene quando ero studente un illustre professore che diceva che oramai l’università non contava più niente. Mi chiesi allora, e mi chiedo ancora adesso: ma se non conta più niente perché non cerchi di fare in modo che conti qualcosa? Ovviamente è il punto di partenza che ognuno di noi si deve dare, pur sapendo che il punto d’arrivo dipende dalle nostre capacità, dalla nostra volontà e soprattutto dalla nostra fortuna.

Dall’educazione alla invenzione

L’educazione, ecco il terzo passaggio, deve portare alla invenzione. La modernità e la critica sono la filosofia cartesiana, ai tempi di Vico, e quella analitica, ai nostri tempi, che insegnano a scartare tutto ciò che non è perfettamente chiaro, a “essiccare le sorgenti di ogni discorso verosimile”, creando idee vuote a furia di scartare tutto ciò che non è semplice, trasparente, evidente. E, quel che è peggio, incamminandosi in una foresta di oscurità, di gergalità e di specialismi confusi con l’idea di “filosofia professionale”, senza ricordare che un mestiere, fosse pure quello del teologo, ha sempre un oggetto di là da sé, e che se siamo disposti a sopportare le contraddizioni e le incomprensibilità della meccanica quantistica è perché, malgrado quelle contraddizioni, i computer funzionano e possiamo mandare una sonda su Marte, mentre i garbugli della filosofia servono solo a confezionare altri articoli di filosofia.

Vico osserva che l’archivio dei moderni è molto più ampio di quello degli antichi, e questo significa disporre di una quantità di modelli e di esempi molto superiore. Ciò è tanto più vero dell’oggi: nell’età della registrazione in cui siamo entrati grazie alla esplosione documediale, si è creato un archivio che non ha equivalenti nella storia. E anche questo è un vantaggio su cui non riflettiamo sufficientemente, mentre deve costituire il punto di partenza proprio per una Scienza Nuova Quarta, costruita collettivamente in tempi come i nostri che, contrariamente alla credenza prevalente, non sono mai stati così amici dell’umanesimo.

Invenzione è tanto l’atto dell’inventare tanto ciò che si inventa, ed è non solo la realizzazione concreta, ma anche l’ideazione astratta, la concezione dell’assolutamente nuovo. Ma, vale la pena di ricordare, nel linguaggio giuridico e in quello ecclesiastico, che sono più reminiscenti del senso etimologico dell’inventio, si indica anche il ritrovamento di un tesoro o di una reliquia, ossia di qualcosa che c’era, da qualche parte, ma era nascosta, e viene rinvenuta e nel caso inventariata. Ed è di qui che si risale al senso che l’inventio ha nella retorica, ossia la ricerca degli argomenti, così come il processo di scoperta (che è il più delle volte ritrovamento) delle idee nella scolastica. Questo argomentario e armamentario, per l’appunto, non è mai stato ampio come ai nostri giorni.

Per capire il nesso fra archivio e invenzione conviene partire da un passo di Leibniz, che presenta il punto di Vico meglio di Vico: “chi avrà osservato con attenzione più ritratti di piante e di animali, più figure di macchine, più descrizioni o rappresentazioni di case o di fortezze, chi avrà letto più romanzi ingegnosi, ascoltato il maggior numero di narrazioni curiose, avrà maggior conoscenza di un altro, quand’anche non vi fosse una parola di verità in tutto ciò che gli è stato rappresentato o raccontato. Poiché la consuetudine che egli ha di rappresentarsi nello spirito molte concezioni o idee espresse e attuali, lo rende più adatto a concepire ciò che gli si propone; ed è certo che egli sarà più istruito, più scaltro e capace di un altro che non ha né visto né ascoltato nulla; purché in queste storie e rappresentazioni non prenda per vero ciò che non lo è, e queste impressioni non gli impediscano d’altra parte dal discernere il reale dall’immaginario o l’esistente dal possibile”[14].

Il fatto che per Vico l’immaginazione sia parente prossima della memoria, come era già in Aristotele e nella tradizione che ne deriva, e che dunque i più ricchi di immaginazione, cioè i giovani, siano anche i più ricchi di memoria, la dice lunga sul fatto che chi ha più legna, cioè più topica, fa più fuoco, ossia inventa di più. L’arte, nel senso esteso della techne, cioè della tecnica, è competenza senza comprensione, ma non senza memoria o esperienza. Non ho bisogno di conoscere le leggi della fisica e della biologia per camminare o per riprodurmi, così come non ho bisogno di avere dimestichezza con i fondamenti dell’aritmetica per eseguire un calcolo, elementare o complesso che sia.

In una società complessa è un errore fatale pensare che per poter avere una competenza sia necessaria una preliminare e piena comprensione. Ciò di cui si può avere una simile comprensione chiara e distinta costituisce un ambito circoscritto e sempre problematico, sicché non potremmo avere mai, nella maggior parte dei casi e soprattutto in quelli più importanti, una qualche forma di competenza. Ma fortunatamente non si ha bisogno, nella maggior parte dei casi, di chiarezza, né soprattutto di distinzione; e se le cose stanno in questi termini sembra opportuno riorganizzare l’apparato delle competenze rendendosi conto che queste si possono ottenere attraverso la pratica e che richiedono prima di tutto un esercizio e un addestramento.

Una modernità che, nello stile di Verne, si impegnava a scoprire i misteri della natura e dispiegava la tecnologia in imprese spaziali, è stata presa in contropiede dal fatto che oggi la massima ricchezza conoscitiva viene proprio dal mondo sociale, ossia dalla enorme quantità di atti registrati che costituiscono il capitale del nuovo secolo. Nel momento in cui gli archivi del presente rivelano tutte le loro potenzialità, diviene necessario far sì che attraverso la luce gettata dalla rivoluzione in corso si attivino un nuovo pensiero e una nuova prassi dell’archivio. Che consisterebbero nell’approfondimento teorico dell’intera portata della rivoluzione in corso e delle sue implicazioni metafisiche, economiche e politiche, ponendole, come abbiamo visto, al servizio di un Webfare. Ma che, al tempo stesso, sapessero dare spessore temporale ad archivi, che al momento, nel loro uso commerciale, possiedono una estensione di pochi anni, trascurando quell’immenso patrimonio dei documenti contenuti negli archivi tradizionali, che costituiscono l’unica base per una effettiva realizzazione di un capitale documediale che non si limiti alla corta gittata del presente, a una corta memoria destinata a dimenticare la storia, e dunque, come sappiamo, a ripeterla.

Dalla invenzione alla decisione

Perché, ecco il mio quarto passaggio, l’invenzione è preliminare alla decisione. Una cultura che non aiutasse a decidere sarebbe tempo perso. Pare che Casaubon, quando gli mostrarono un anfiteatro della Sorbona dicendogli che su quegli stalli si era discusso per secoli, chiedesse: “E che cosa si è concluso?”. Soprattutto, una interpretazione infinita richiede non solo un tempo altrettanto infinito (ciò che, spiace ricordarlo ancora una volta, non è alla portata di nessuno) ma soprattutto favorisce quella malattia dello spirito che è il farisaismo, ossia la credenza che il proprio valore morale risieda non nelle azioni che si compiono, bensì nelle idee che si professano.

C’è un tempo della decisione, che chiede di essere rapido, e che comunque ha un termine, se si vuole che abbia un fine. Che cosa ci vuole per servirsi efficacemente di un argomento? Si ha torto a pensare che si tratti semplicemente di retorica, di un modo per convincere le persone magari ricorrendo a verità alternative. Sicuramente c’è anche questo, così come è vero che le “narrative” e gli “storytelling” che da un po’ di anni occupano la discussione pubblica sono gli eredi, o più esattamente l’ininterrotta continuazione, della topica e della retorica. Ma come la retorica appare monca senza dialettica (senza la conoscenza delle cose di cui parla), così sarebbe sbagliato pensare che qui si tratti semplicemente di discorsi e di parole. Immaginiamo un ingegnere di fronte a un problema da risolvere. Come ne viene a capo? È una questione di tecnica. E in cosa consiste? Ma ovviamente nel cercare quali sono, nella sua esperienza, i casi simili che ha conosciuto in precedenza.

Ecco perché l’invenzione è il prodromo della decisione, e come tale serve anche per un chirurgo, per un architetto, per un pittore, un manager, un generale o un ingegnere; bisogna decidere, e senza perdere troppo tempo, perché il kairòs non dura a lungo. La risposta: “ci devo pensare”, o magari “è una situazione da interpretare”, la possiamo accettare quando si fanno parole incrociate, ma se Napoleone l’avesse pronunciata ad Austerlitz lo ricorderemmo come un idiota. Cosa avrà fatto, Napoleone? Avrà sicuramente attinto al suo genio naturale, ma nella sua memoria saranno scorse le battaglie di cui aveva letto alla Regia Scuola Militare di Parigi: Canne, Rocroi, Blenheim, Rossbach. Ed è proprio da quell’incontro fra tradizione e talento individuale che sono venute fuori Marengo e Jena, Friedland ed Eylau… La topica è un capitale, e il capitale è una topica, e non c’è nulla di più ingannevole del credere che un eccesso di memoria nuoccia all’invenzione e normalizzi il genio.

Il fine della decisione

L’umanità non è nulla di dato, nulla da ripristinare e a cui tornare. L’umanità è un progetto aperto, e non da oggi, ma da sempre. Le direzioni che questo progetto potrà prendere dipendono, in misura diversa, dall’impegno di ognuno di noi, e anche in questo caso mi guardo bene dall’impedire a chicchessia di seguire opzioni diverse o antitetiche. Il mondo è bello perché è vario, e dopotutto la biodiversità delle idee perderebbe qualcosa se non ci fosse modo di leggere, di quando in quando, che la tecnica non è neutrale, che il capitale ci sorveglia, che gli algoritmi ci determinano, che la biopolitica ci assilla e che l’unica cosa buona che possiamo fare, in questo contesto, è pregare un dio che ci permetta di diventare più buoni e più saggi.

Ma se l’umanità deve prendere una decisione su sé stessa, e se deve prenderla in ogni momento, dentro a ogni decisione si manifesta una finalità. Bisogna invece disegnare una teoria della ragione in quanto teleologia: essere razionali non significa semplicemente comprendere, significa organizzare i propri atti secondo dei fini che, per essere davvero tali, cioè buoni, devono costituire un progresso. Come facciamo a stabilire se i fini sono buoni? Ecco una domanda a cui si può rispondere solo retrospettivamente. Non ogni fine, anche buono, va necessariamente a buon fine, e il tempo è galantuomo: la verità del patto Ribbentrop-Molotov va cercata nell’Operazione Barbarossa, e la verità dell’Operazione Barbarossa va cercata nella Battaglia di Berlino. Quanto dire che il senso ultimo di ogni atto si trova soltanto nel futuro.

Riprendiamo un punto affrontato più sopra. Come organismi siamo destinati a una fine molto più brusca e irreversibile di qualunque meccanismo, ma proprio questa fine è ciò che ci conferisce un fine radicalmente diverso da qualunque meccanismo. Deboli e minacciati da una fine vicina o lontana ma comunque certa, abbiamo creato sin dall’inizio della ominizzazione dei meccanismi, dei supplementi tecnici, dalla clava al computer passando per la scrittura e la cultura, fatti per proteggerci e per rimediare alle nostre insufficienze. Diversamente dagli organismi, compresi quegli organismi che noi siamo, i mezzi tecnici hanno dei fini molto espliciti: la clava è fatta per uccidere, la scrittura per ricordare, la cultura per mitigare, il computer per far tutto, tranne morire.

Ma, si noti bene, tutte quelle finalità esistono solo in quanto sono funzionali a una umanità che, come ogni altro organismo, non ha altro fine che la propria fine. Sembra un gioco di parole ma definisce il nostro posto nel mondo, in una maniera a cui dovremmo pensare più di quanto solitamente non facciamo. In quanto animali finiti ma capaci di conferire dei fini siamo infatti portatori non solo di responsabilità, ma anche di libertà, e in questa veste dobbiamo promuovere la solidarietà tra gli umani, uniti dalla condivisione dell’ambiente, della morte e della tecnica.

La fine delle decisioni

Eccoci alla fine. C’è un verso che ricorre due volte nell’Iliade. La prima è nel Sedicesimo libro, al verso 502. Sarpedonte, re dei Lici, è stato colpito dalla lancia di Patroclo; esorta Glauco a proseguire la lotta e muore. Ettore vendicherà Sarpedonte uccidendo Patroclo, e nel Ventiduesimo libro giunge la vendetta di Achille, che colpisce a morte Ettore, e la sua morte è descritta, al verso 361, con la medesima espressione usata per la morte di Sarpedonte:

Ὣςἄρα μινεἰπόντα τέλος θανάτοιοκάλυψε

Letteralmente, “il telos di morte gli coprì [gli occhi e le narici] mentre parlava”. La traduzione di Monti recita: “Così concio il coprì l’ombra di morte”; Paduano propone invece: “Mentre così diceva la morte lo avvolse negli occhi e nel naso”, restituendo il senso di asfissia, ma omette, incorporandolo nel verbo “avvolgere” il sostantivo. “I suoi occhi si velarono d’ombra” è invece la versione in prosa di Maria Grazia Ciani, di nuovo con l’omissione del telos. Quanto alla seconda occorrenza, Paduano ripropone “Mentre così diceva la morte lo avvolse”, Ciani “Aveva appena parlato e la morte lo avvolse” e Monti, asciuttamente, “Così detto, spirò”. In generale, nelle traduzioni prevale l’effetto sulla causa, l’ombra sul velo che la produce[15], e l’astratto (il fine, la fine[16]) sul concreto.

Il concreto si rappresenta con un velo[17], con un nastro, o con il lenzuolo che si mette sul defunto, e magari con il lembo di toga con cui Cesare si copre morendo[18]. Perché? Per rispondere a questo interrogativo dobbiamo affrontare un’area semantica in cui si intrecciano il confine, la siepe che occlude lo sguardo sull’infinito, il fine e la fine, termini che per noi sono diversi ma che sono tutti contenuti nel telos, così come del resto nel latino finis.

Telos è il confine, il limite, l’estremo, il tempo stabilito, il giorno di paga, il rien ne va plus, il colpo decisivo di una lotta tra pugili o di una battaglia, o della giustizia. E, ancora, è una schiera di guerrieri (un numero finito e predisposto a un certo fine); il culmine degli onori civili; la consacrazione religiosa nei misteri, ossia la fine e il fine del noviziato; il sommo bene, il conseguimento di uno scopo che coincide con la cessazione di qualunque scopo.

Telos è anche la fine di una guerra, che era indubbiamente il fine della guerra, cioè il proseguimento dei fini della politica con altri mezzi; o la realizzazione di un desiderio, il momento decisivo di una battaglia, gli imperscrutabili fini di Dio. Infine – è il caso di dirlo – telos è la fine di un racconto, e nei libri del Sei o Settecento non era inconsueto trovare “telos” là dove fino a non molto fa si scriveva “fine”.

Riavvolgiamo il nastro e torniamo al punto da cui siamo partiti. Telos è la fine, quella che ci aspetta tutti. Ed è insieme il fine, lo scopo, le but de notre carrière, dice Montaigne. E per un paradosso che è al centro della riflessione di Heidegger, proprio questa fine certa conferisce un fine e un senso ai nostri giorni. Non c’è niente di più umano di quel fine che è anche una fine. A questo punto capiamo perché l’atleta arrivato alla fine della sua corsa taglia un filo di lana, proprio come Atropo recide il filo tessuto da Cloto e il ministro taglia un nastro nelle inaugurazioni.

Capiamo il perché la corona, che era originariamente un nastro, sia simbolo di regalità, e soprattutto perché anche una testa non coronata possa coronare i suoi sogni. E perché una corona in miniatura, un anello nuziale, segni la realizzazione di un matrimonio (telos è infatti anche il compiersi delle nozze, che peraltro un detto malinconico definisce come la tomba dell’amore).

Capiamo anche perché essere un artista consumato o uno studioso “maturo”, come si scrive nei giudizi concorsuali, è un complimento, perché indica uno stato di perfezione che necessariamente volge alla fine, e capiamo la malinconia dell’intreccio tra il fine e la fine della giovinezza, della bellezza, della forza. Inutile nascondercelo. Il telos di morte è presente in ogni atto della vita, e nella felicità del fine conseguito si intreccia l’intrinseca malinconia della fine di tutte le cose.

Ma poteva andare altrimenti? Ovviamente, no, per un mortale; per quello stesso mortale, però, se è consapevole di esserlo, tutto il resto può andare altrimenti, purché lo voglia.

Bibliografia

  1. G. B. Vico, Scienza nuova seconda, capoverso 537.
  2. “dilettava l’ingegno di osservare tra lontanissime cose nodi che in qualche ragione comune le stringessero insieme, che sono i bei nastri dell’eloquenza che fanno dilettevoli l’acutezze”, Vita di Giambattista Vico scritta da se medesimo (1725), in G. B. Vico, La Scienza Nuova e altri scritti, a d. di N. Abbagnano, Torino, Utet 2013 (e. book).
  3. L’ultimo nastro di Krapp che, come Beckett avvisa nelle prime parole della pièce, si svolge “una tarda sera, nel futuro”: “Trentanove anni, oggi, sano come un… (Krapp, mentre cerca una posizione più comoda, fa cadere dal tavolo una delle scatole, impreca, stacca il registratore, sbatte a terra violentemente, con un solo colpo, tutte le scatole e il registro, riporta il nastro alla posizione di partenza, rimette in moto, riprende la posizione di prima).”
  4. G. B. Vico, De nostri temporis studiorum ratione; trad. it. L’ordine degli studi del nostro tempo. Dissertazione tenuta solennemente nella Regia Università del Regno di Napoli il 18 ottobre 1708 davanti alla gioventù studiosa delle lettere. Poi accresciuta, in Id., La Scienza Nuova e altri scritti, cit.
  5. Il nome è già un programma: qualcosa che si manda, e che si disperde. Oggi prima di trasmettere è già tutto registrato, e la prima cosa che dicono alla radio è il luogo in cui si potrà riascoltare la trasmissione in streaming. Quello che non dicono è che anche quello che quello che stiamo per ascoltare è già una registrazione.
  6. Termine il cui conio, come è noto, si deve a A. Toffler, La terza ondata (1980); trad. it. Sperling & Kupfer, Milano 1987 e che si ritrova, nove anni dopo, nel romanzo di fantascienza Hyperion di Dan Simmons.
  7. M. Cacciari, Il lavoro dello spirito, Adelphi, Milano 2020.
  8. J.M. Keynes, Prospettive economiche per i nostri nipoti (1930), trad. it. Nuova Editrice Berti, Parma 2016.
  9. J.M. Keynes, Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta (1936), trad. it. Torino, Utet 1971, Capitolo VIII.
  10. È il motivo per cui Kant ritiene necessario concludere il suo esame della ragione con una filosofia della storia cfr. Critica della ragion pura (1781-1787), B 880 / A 852.
  11. M. Heidegger, Lettera sull’“umanismo” (1947); trad. it. a cura di F. Volpi, Milano, Adelphi 1995.
  12. https://encyclopedia.ushmm.org/content/en/film/albert-speer-makes-final-statement-at-trial
  13. S. Beckett, Worstward Ho (1983). Che contrariamente a quanto si crede non descrive l’ottimismo delle startup, ma la malinconia della sconfitta: “First the body. No. First the place. No. First both. Now either. Now the other. Sick of the either try the other. Sick of it back sick of the either. So on. Somehow on. Till sick of both. Throw up and go. Where neither. Till sick of there. Throw up and back. The body again. Where none. The place again. Where none. Try again. Fail again. Better again. Or better worse. Fail worse again. Still worse again. Till sick for good. Throw up for good. Go for good. Where neither for good. Good and all.”
  14. Leibniz, Nuovi saggi sull’intelletto umano, traduzione Mugnai-Pasini, Libro IV, Capitolo I, § 2.
  15. “the Fates suppress’d his labouring breath, And his eyes darken’d with the shades of death” (Pope); “Il parlaainsi, et l’ombre de la mort couvritsesyeux et sesnarines” (Leconte de Lisle).
  16. “The end closed in aroundhim, swirling down hiseyes, choking off hisbreath.” (Fagles); “So havingspoken, the finality of deathshroudedhim” (Bellissima traduzione anonima che ho trovoato sul Web); Alser so gesprochenhatte, umhüllteihndasEndedesTodes (Schadewaldt); Alserdiesesgeredet, umschlossihmdasEndedesTodes (Voß); “À peine a-t-il parlé: le terme de la mortdéjà l’enveloppe” (Mazon).
  17. “losenvolvió con susvelos la muerte” (Gutiérrez).
  18. “toga caput obvolvit”, De vita Caesarum, Loeb Classical Library, 31: 140-141.

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