sentenza della cassazione

Pedopornografia, ora è caos: per il reato basta essere in chat



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Secondo una recente sentenza della Cassazione, non c’è differenza tra un download dei file fatto sul cellulare o altro dispositivo e l’accesso incondizionato ad un archivio condiviso tra i partecipanti ad una chat. Anche partecipare ad una chat senza scaricare i file, sarebbe dunque reato. Ma è davvero cosi?

Pubblicato il 15 set 2023

Mario Sica

Studio Legale Difesa d’Autore



pedopornografia onlie

Con la sentenza n. 36572/23 la III Sezione Penale della Corte di Cassazione ha stabilito che per il reato detenzione di materiale pedopornografico (art. 600 quater c.p.) è sufficiente che un soggetto sia consapevolmente partecipe di un gruppo Telegram dove sono condivisi file dal contenuto vietato dalla norma in oggetto. Non necessario avere fatto il download del materiale.

L’elemento più interessante (e controverso) della vicenda è rappresentato dall’ampliamento del concetto di detenzione penalmente rilevante. Il Giudice Nomofilattico, infatti, ha ritenuto che la mera fruibilità della res “in termini non solo concreti, ma anche potenziali, prescindendo dall’utilizzo effettivo” integra la fattispecie della detenzione.

Tale decisione si basa sull’assunto che ogni qualvolta dei files vengano immessi su una chat di gruppo, e quindi salvati nel cloud della chat stessa, questi diventino autonomamente e illimitatamente accessibili a tutti gli altri partecipanti. Si sposta quindi il focus della questione dal rapporto strettamente fisico con la res (i files) alla libera, piena ed incondizionata fruibilità della res stessa, ritenendo che sia sufficiente la sussistenza di tali ultime circostanze per integrare il concetto di detenzione.

Ma è davvero così?

In realtà, in assenza di download, un file caricato su una chat da un utente non è pienamente e incondizionatamente fruibile da tutti gli altri partecipanti, bensì è sottoposto al dominio di colui che ha effettuato l’upload il quale può, in qualsiasi momento e senza restrizione alcuna, cancellare il file e renderlo, pertanto, inaccessibile agli altri utenti.

Appare, dunque, maggiormente condivisibile la tesi proposta dalla difesa dell’imputato per la quale, in assenza di download, non si configura la detenzione intesa quale rapporto effettivo e diretto dell’agente con il materiale pedopornografico bensì la fattispecie di accesso intenzionale e senza giustificato motivo, mediante l’utilizzo della rete internet o di altre reti o mezzi di comunicazione, a materiale pedopornografico, introdotta dalla L. 238/2022 all’interno dell’art. 600 quater, co. 3, c.p. . Peraltro, tale distinzione non è priva di conseguenze pratiche in quanto il primo comma dell’articolo 600 quater c.p. è punito con la reclusione fino a 3 anni mentre la fattispecie prevista dal terzo comma dello stesso articolo prevede la pena della reclusione fino a due anni.

Del resto, tale ultima norma è stata introdotta proprio per anticipare la soglia della rilevanza penale delle condotte in materia di pedopornografia. Infatti, probabilmente ben conscio che in molti casi l’accesso a materiale pedopornografico non si concretizza in una detenzione “fisica” del materiale stesso, il Legislatore ha deciso di introdurre questa nuova fattispecie di reato, a gravità attenuata, al fine di rendere penalmente rilevante anche l’accesso intenzionale e senza giustificato motivo a contenuti illeciti di siffatta natura. Ma se il concetto di “detenzione” viene ampliato al punto da ricomprenderne la mera fruibilità (per i motivi sopra indicati certamente non piena e incondizionata), appare evidente che il terzo comma dell’art. 600 quater c.p. rischia di diventare l’ennesimo inutile orpello dell’ordinamento italiano.

La sostanziale equiparazione dei files ai beni immateriali

In sostanza la Corte di Cassazione equipara il concetto di detenzione di beni materiali a quello di beni immateriali, pur tuttavia dimostrando, nel corso del ragionamento logico giuridico sviscerato in sentenza, di sapere bene che i files sono veri e propri beni materiali.

È bene ricordare, infatti, che un file occupa uno spazio fisico (sia esso su un server o su un dispositivo di archiviazione locale) e pertanto appare incondivisibile l’idea di disancorarne il concetto di detenzione penalmente rilevante dal rapporto “fisico” con la res da parte dell’agente.

Quali sono i rischi?

La Corte di Cassazione, probabilmente consapevole del fatto che una decisione di tale portata si porti dietro il rischio di punire anche utenti ignari, ha provato a mettere una toppa a quella che però appare essere una voragine. Infatti, il Giudice Nomofilattico ha stabilito che l’elemento che distingue la rilevanza penale della detenzione di materiale pedopornografico (così come delineata in sentenza) dalla situazione nella quale un utente, per caso fortuito o per mera curiosità, si trovi ad accedere ad una chat di condivisione di contenuti illeciti, è la consapevolezza con la quale si estrinseca la partecipazione alla chat stessa.

Tale consapevolezza (il cui vaglio processuale non è certamente agevole) sarebbe desumibile da indici esteriori della condotta (quali, ad esempio, il titolo della chat) che dovrebbero condurre il Giudice a valutare se ci sia o meno, da parte dell’imputato, la piena cognizione dell’operato altrui all’interno di una chat.

Francamente, il rischio è di creare una confusione enorme di cui non si sentiva il bisogno, con la conseguente applicazione difforme della norma sul territorio nazionale.

Perché è chiaro che, se si sposta il concetto di detenzione dal rapporto fisico con la res alla sua fruibilità, introducendo un vaglio sul grado di consapevolezza dell’imputato rispetto alle condotte poste in essere da altri utenti, si sta introducendo un livello di discrezione nell’applicazione della norma che esula dalla fisiologica interpretazione della norma stessa operata dal Giudicante.

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