Le tecniche di People Analytics sono sempre più utilizzate dalle aziende nelle loro fasi di recruiting, misurazione delle prestazioni, conservazione del talento. Occorre tuttavia chiedersi se, nei contesti lavorativi, tali strumenti possano essere reputati un’opportunità o una minaccia per l’individuo.
Cerchiamo perciò di capire quali sono i vantaggi e quali i rischi delle soluzioni di management algoritmico delle risorse umane le quali, sostanzialmente, consentono alle imprese di fondare le decisioni relative alle persone e alle strategie delle risorse umane sull’analisi di grandi quantità di dati oggettivi (Big Data), eliminando l’analisi di dati soggettivi potenzialmente basati su preferenze e pregiudizi inconsci.
Attraverso avanzate tecniche di Analytics, i dati che riguardano il lavoratore vengono trasformati in informazioni, pronte per essere classificate, analizzate e successivamente riutilizzate dalle aziende al fine di individuare, ad esempio, i dipendenti potenzialmente più idonei a ricoprire determinati ruoli o identificare il lavoratore che opera al di sotto di determinati standard o, ancora, per ottimizzare la pianificazione della forza lavoro.
Sono logiche di gestione che mirano ad innalzare il livello di efficienza organizzativa e produttiva delle aziende, rendendo i soggetti coinvolti rapidi ed ubiqui.
Big Data & Analitics
Le tecniche di People Analytics sfruttano i processi di analisi dei Big Data per la formazione di una conoscenza “di valore” utilizzabile per assumere decisioni in ambito strategico.
Si parla di Big Data quando ricorre il paradigma delle 4V: Volume – Velocità – Varietà – Veridicità. L’ingente mole di dati non strutturati provenienti da fonti eterogenee, attraverso avanzate tecniche di analytics, genererebbero una quinta V, Valore: dai dati raccolti e correlati attraverso algoritmi e secondo criteri impostati (anche per la creazione di modelli di riferimento) potrà essere estratta conoscenza che le imprese utilizzeranno per assumere decisioni più efficienti ed efficaci.
In questo processo di formazione della conoscenza, sono coinvolti i dati, anche destrutturati, del dipendente, compresi quelli personali, che giacciono dentro e fuori le aziende, e dedotti non solo dalle attività svolte durante la fase di selezione o da quelle riguardanti le prestazioni lavorative, ma anche dai flussi di dati ricavabili dai dispositivi aziendali dati in dotazione per rendere la prestazione lavorativa o dalle attività che riguardano la sua vita privata e sociale (es. social network).
I rischi per i lavoratori
La possibilità di elaborare informazioni attraverso strumenti di Analytics, crea dei nuovi pericoli soprattutto in riferimento ad alcuni diritti fondamentali della personalità quali la dignità e la riservatezza e al più ampio diritto alla privacy inteso quale valore fondativo dell’individualità e del riconoscimento ad essere titolare esclusivo dei propri dati.
Potrebbero finire per essere investiti di un potere decisionale in grado di condizionare le occasioni di vita e di realizzazione del lavoratore, elementi attinenti alla sfera riservata e privata dello stesso, quali idee, convinzioni religiose, morali e sociali, preservati dall’ingerenza altrui dalla stessa Carta Costituzionale e che non dovrebbero entrare nella disponibilità del datore (es. divieto di indagini sulle opinioni – art. 8 Statuto dei Lavoratori).
Inoltre, poiché l’obiettivo delle tecnologie di People Analytics è quello di permettere alle persone che operano all’interno della funzione HR di assumere decisioni basandosi solo sui dati, la conoscenza che le aziende hanno dei propri dipendenti, essendo affidata esclusivamente all’associazione di informazioni o frammenti di dati, inizialmente anche privi di correlazione tra di loro, e agli eventuali profili che su questa base vengono costruiti, risulterebbe falsata rispetto alla reale rappresentazione (anche professionale) del lavoratore.
Per di più, vi è il rischio che, nelle fasi di Analytics, possano essere utilizzate informazioni incomplete o inesatte o non aggiornate (e quindi incapaci di essere trasformate in dati di valore da cui estrarre reale conoscenza) che porterebbero ad un processo decisionale viziato da errore inevitabilmente foriero di effetti discriminatori per i lavoratori. A ciò si aggiunga che gli stessi algoritmi ai quali è affidata l’elaborazione delle informazioni potrebbero essere soggetti ad inesattezze a causa di incongruenze nelle logiche utilizzate o per le precomprensioni di chi li progettati e ciò si rifletterebbe irrimediabilmente sulle decisioni adottate.
Verso una tutela indiretta del lavoratore
Nelle dinamiche di gestione dei Big Data, sottese alle tecniche di People Analytics, l’identità dei lavoratori viene affidata “al modo in cui queste informazioni vengono trattate, collegate, fatte circolare” e in quanto “entità disincarnate” – così come affermava Stefano Rodotà – risultano abbisognevoli “di una tutela del loro «corpo elettronico»”.
Pertanto, l’utilizzo che il datore di lavoro può fare di simili tecnologie negli aspetti legati alle risorse umane, incontra il suo limite nel duplice binario di tutele che integrano il trattamento dei dati nei luoghi di lavoro: le garanzie previste dalla disciplina della privacy e le protezioni offerte dalle fonti presenti nell’ordinamento nazionale, in particolare lo Statuto dei lavoratori.
Innovazioni che potenzialmente possono comportare degli effetti negativi sui lavoratori, se finalizzate, già in fase di design, al pieno rispetto della normativa sul trattamento dati e al sistema di garanzie fornite dall’ordinamento di settore, potrebbero rappresentare un valente strumento sia per la valorizzazione dei contribuiti apportati dai singoli dipendenti sia per l’ottimizzazione dei processi lavorativi, in un’ottica di perfetto equilibrio tra esigenze aziendali e pretese di tutela del lavoratore.