Il recente studio sulla viralità della disinformazione è l’ultimo approfondimento scientifico di un fenomeno, semplice, sotto gli occhi di tutti: Internet, in quando fluidificatore di diffusione di contenuti da fonti non limitate, incrementa a dismisura la quantità e la varietà delle informazioni circolanti, e quindi richiede una maggiore capacità di lettura e discernimento. Se è vero che uno dei trend maggiori del 2015, secondo il rapporto 2015 sui rischi globali, realizzato dal World Economic Forum, è l’evoluzione dell’iperconnessione, è molto alto il rischio che questo fenomeno aumenti.
Disinformazione e “bufale”
Quanto maggiore è la quantità di informazioni, tanto minore è il tempo che si può dedicare all’approfondimento e alla verifica della singola fonte, quanto maggiore è la probabilità di accreditare informazioni false, scorrette, quanto più alta la competenza digitale e in particolare “informativa” richiesta.
Nell’ambito della disinformazione, rispetto alle “bufale” vere e proprie, quelle create ad arte e che però di solito eccedono nell’estremizzazione, smascherandosi, le più insidiose sono le interpretazioni parziali o di sintesi di notizie e di titoli riportati da fonte “autorevole” (es. quotidiani online). Sempre più qui si tende, soprattutto nei social network come Facebook e ancor di più nei gruppi, a non approfondire la notizia ma ad enfatizzare ciò che emerge da brevi sintesi. Il caso più frequente è quello legato alle “anticipazioni” e alle dichiarazioni degli esponenti governativi, dove viene data per già promulgata e in esercizio una misura legislativa sulla base di qualche dichiarazione all’interno di una intervista. Oppure, spesso sempre in campo politico, quando si arricchisce tendenziosamente l’informazione sulla base di un nucleo vero, come è stato il caso della depenalizzazioni dei reati legato alla legge delega 67/2014. E sempre come esempio di disinformazione volontaria, è il caso della “demonizzazione del wifi” nell’ambito scolastico, che ha coinvolto gruppi Facebook e testate online autorevoli, con una circolazione di informazioni parziali, scorrette o del tutto false, accomunate da una modalità di trasmissione superficiale.
La propagazione della disinformazione diventa sempre più insidiosa. Non a caso questo era stato previsto nell’annuale Global Risk report del World Economic Forum come uno dei principali trend del 2014, con una descrizione in cui si sottolineava il carattere di semplice acceleratore di flussi del digitale: “La propagazione della disinformazione non è un tema legato al digitale – noi dobbiamo guardare oltre il mezzo e focalizzarci sul contesto”, che si connota culturalmente e socialmente. E l’evoluzione dell’iperconnessione non può che aumentarne l’impatto.
Non è un fenomeno nuovo. È sempre esistito il fenomeno della “diceria” che si trasmette oralmente fino a renderla vera perché si arricchisce di particolari fino a slegarsi dalla fonte iniziale. Ciò che cambia oggi sui social media, e in generale su Internet, è che il fenomeno diventa vigoroso, rapidissimo, e se l’affidabilità è misurata in “like” e condivisioni (secondo il criterio dell’omofilia, come sottolinea lo studio citato prima), il confine tra vero e falso viene definitivamente legato al consenso e non all’analisi critica, alla valutazione approfondita.
Cosa fare: il nodo delle competenze e lo sviluppo della comunità
Il senso critico è correlato strettamente con il livello culturale. E da questo punto di vista l’Italia non è messa bene, come si vede dai dati PIAAC dell’OCSE, da cui si rileva che circa i due terzi della popolazione non ha una sufficiente alfabetizzazione funzionale. Internet aumenta le opportunità di informazione e di approfondimento e quindi allo stesso tempo le possibilità di accedere a informazioni scorrette, infondate, manipolate, tendenziose. È uno strumento potente di acculturazione autodidatta, ma che per essere utilizzato richiede competenze specifiche. Ulteriori.
Una di queste è la competenza informativa. Che non si misura con la capacità di “utilizzare un motore di ricerca” (vedi la ricerca 2013 della Bicocca, da cui risultava, grazie a test mirati, che solo il 65% degli studenti riusciva a discriminare e riconoscere l’affidabilità delle fonti informative). Una competenza informativa che diventa sempre più importante quanto più Internet diventa una delle fonti principali di informazione e di formazione delle opinioni. Anche perché le scarse competenze portano i nuovi internauti a cercare ambienti limitati e accoglienti. Come Facebook, che diventa il complemento ideale alla passività televisiva.
Rispetto all’analfabetismo del dopoguerra il fenomeno di oggi dell’analfabetismo digitale e informativo è molto più profondo (perché affonda le radici nell’analfabetismo funzionale) e ampio (perché riguarda anche i giovani scolarizzati) e non si risolve con un recupero una tantum come ai tempi del maestro Manzi.
L’alfabetizzazione digitale e informativa ha bisogno di presìdi e risorse permanenti per tutte le fasce di età. Presìdi e risorse che oggi non esistono, o sono insufficienti. Così come professionalità di accompagnamento e supporto (facilitatori digitali) che oggi sono presenti solo sperimentalmente e solo in alcune città, e che potrebbero diffondersi sul territorio (come biblioteche, uffici postali, uffici comunali, centri anziani, scuole aperte, ..) e anche online (con la predisposizione di risorse/siti di orientamento). Certamente partendo anche da una scuola che esca fuori dal mito dei “nativi digitali” e preveda lo sviluppo delle competenze digitali e informative degli studenti come competenze di base e non accessorie. Sviluppo di competenze che può essere anche sostenuto da iniziative sempre più ampie di raccolta e gestione dei feedback, in cui le comunità sono chiamate a collaborare a sistemi di fact-checking coordinati da reti di specialisti (vedi emergent.info, attivissimo.net, bufale.net). Sistemi che si stanno sviluppando e che alimentano e sostengono la cultura critica, ma che a loro volta hanno bisogno di uno sviluppo effettivo delle competenze informative, perché il circolo virtuoso possa innescarsi.
Dall’altra parte, dall’analisi dei risultati dell’indagine internazionale Ipsos Mori sul livello di informazione di undici Paesi, in cui l’Italia figura all’ultimo posto con il maggior valore dell’”indice di ignoranza”, si evince come a concorrere a questo risultato ci sia il contemporaneo contributo di scarsa libertà e qualità di informazione dei media tradizionali, basso utilizzo di Internet nella popolazione e scarsa qualità del sistema educativo.
Emergenza cultura. La consapevolezza, oltre la navigazione su Internet
Proprio per queste ragioni è del tutto fuorviante, come invece fanno molti operatori di media, commentare uno degli indicatori della Digital Agenda europea, quello relativo alla popolazione che non ha mai utilizzato Internet, non come un epifenomeno, utile a indirizzare l’attenzione su un tema più ampio e profondo (quello delle scarse competenze digitali), ma come evidenza circoscritta di un problema, superabile in superficie, ad esempio portando più persone a navigare su Internet. Questa focalizzazione, che denota una carente attenzione (o carenti competenze) dei media rispetto ai temi del digitale, rischia di produrre comportamenti scorretti, come riconoscere l’utilizzo di Internet come fine dell’intervento, anche attraverso un’enfatizzazione del ruolo dei social network e spingendo all’utilizzo del mobile senza passare da tablet e pc. Non è un caso che in molti sondaggi si riscontrano risposte del tipo “non vado su Internet. Vado su fecebook”.
Per combattere la disinformazione digitale non c’è che un percorso principale: elevare le competenze digitali, realizzare una forte focalizzazione di questa che è una delle priorità maggiori che il Paese deve perseguire. Per questa ragione il carattere degli interventi deve essere profondo. Credo che questa sia una vera “emergenza nazionale”, tanto più grave quanto più viene sottovalutata. Non credo che possa essere affrontata senza interventi pubblici. E senza interventi organici e di sistema il deficit non può che aumentare, e così i pericoli della disinformazione che ne sono connessi.
È così che la consapevolezza digitale deve diventare l’ossessione di tutti gli attori istituzionali, di tutto il sistema educativo, sapendo che il percorso è lungo e complesso, e che non c’è vantaggio a minimizzare le difficoltà dell’impresa e a sopravvalutare le singole tappe. Perché siamo in un periodo in cui la mancanza di consapevolezza rende fragili i processi di valutazione, di critica, di condivisione, di partecipazione. Rende fragile la società, la democrazia stessa.