La crescita digitale e la salute della democrazia dei Paesi dipendono fortemente dalla presenza di adeguate competenze nelle popolazioni, in particolar modo competenze digitali. In Italia la situazione è particolarmente critica, con circa due terzi della popolazione che può essere considerato “analfabeta funzionale” e altrettanti con competenze digitali non sufficienti per l’esercizio di una piena cittadinanza digitale e per affrontare le sfide dei nuovi lavori. Nonostante i segnali di ripresa, è evidente il rischio che il ritardo nella crescita (digitale), la carenza nella definizione di una politica industriale, la difficoltà di cambiare modello di sviluppo, di accogliere il digitale come opportunità di cambiamento profondo, costituiscano pesanti zavorre per la nostra società e di non fermare un’involuzione culturale che si è sviluppata in modo sempre più marcata e che a sua volta le alimenta, in un circolo vizioso. Naturalmente il problema non è solo italiano, anche se nel nostro contesto, come Paese ad economia avanzata, assume dimensioni rilevanti.
Secondo i dati dell’ITU (International Telecommunication Union) l’agenzia delle Nazioni Unite che si occupa di ICT, nel mondo il divario tra uomini e donne in rete è di 200 milioni (rapporto di aprile 2015) e la tendenza nel 2016 è di arrivare a 350 milioni, in mancanza di interventi. Sempre secondo i dati dell’ITU, solo il 19% dei manager ICT sono donne, rispetto alla media del 45% degli altri settori e soltanto il 9% degli sviluppatori di app sono donne. E, guardando nello specifico all’Europa, i numeri non sono migliori: solo il 3% delle ragazze in Europa si laurea in discipline informatiche. In Italia il gap è maggiore che in Europa: nel nostro Paese la percentuale di chi non ha mai utilizzato Internet è del 36% per le donne e del 26,9% per gli uomini, mentre in Europa il divario è solo del 3% .
Le diverse manifestazioni di un problema culturale
La situazione disastrosa in cui è oggi il tema delle pari opportunità, soprattutto nell’ambito dei generi, è specchio fedele di questa involuzione. E le manifestazioni di questo disastro, focalizzando l’attenzione in particolare sull’ambito dell’ICT e del digitale, sono a più livelli, ad esempio:
- nel linguaggio, dove continua il predominio “maschile”. Non solo nelle metafore “belliche” di qualsiasi iniziativa di evoluzione e di cambiamento, ma anche negli appellativi e nei titoli spesso declinati solo al maschile anche quando la stessa grammatica nazionale di stampo maschile non lo richiede (es. l’uso del termine “direttore” anche per una donna direttrice). Nell’ambito politico dobbiamo rilevare positivamente che le iniziative sistematiche della Presidente Boldrini stanno producendo qualche risultato;
- nelle attività di comunicazione, dove la presenza femminile continua ad essere un’eccezione e sono ancora tanti gli eventi su temi di ICT e digitale in cui le relatrici sono semplici testimonianze o del tutto assenti (come ha tra l’altro evidenziato la rete Wister);
- nel sistema educativo, dove predomina l’idea che scienza e tecnica siano di genere maschile (e le materie letterarie siano di genere femminile), a tal punto che, nonostante le diverse iniziative di successo sviluppate da più organizzazioni per promuovere l’ICT tra le bambine e le ragazze, queste vedano la propria carriera scolastica più indirizzata verso le materie umanistiche. Non è un caso che anche le prove Invalsi evidenzino questa tendenza, con le studentesse che superano anche in modo consistente gli studenti nelle prove letterarie mentre avviene il viceversa per la matematica, con una tendenza che porta poi alla divaricazione spinta tra laureate e laureati nelle discipline scientifiche. Qui, secondo il Rapporto ITU, solo 29 laureate su 1.000 provengono da corsi legati alle ICT (gli uomini sono 95 su 1.000) e solo 4 su 1.000 lavorano effettivamente nel settore;
- nel lavoro, dove l’essere donna è un disvalore che porta a retribuzioni più basse, come è evidente in tutti i campi e che persiste, anche se in misura minore, nell’ICT. A parità di competenze ed esperienze, in Italia nel settore ICT il divario è intorno al 15%, secondo l’ultima rilevazione 2014 dell’Osservatorio per le Competenze Digitali, in linea con il divario registrato nella media delle retribuzioni Europee. In un ambito in cui, sempre secondo l’ITU, c’è una sproporzione netta man mano che si risale la piramide aziendale: solo il 19,2% dei lavoratori nel settore delle ICT ha un capo donna, contro il 45,2% in altri settori. E in questo campo è sicuramente importante l’iniziativa ONU “HeforShe” che ha portato alcune organizzazioni a impegnarsi pubblicamente per piani specifici per le pari opportunità.
In Italia, se consideriamo l’epifenomeno dell’utilizzo di Internet, dai dati Eurostat vediamo come il divario tra maschi e femmine che non hanno mai utilizzato Internet sia rimasto pressoché invariato dal 2005 a oggi (passando dal 10,4% al 9,1%), mentre la media europea registra una riduzione significativa (dal 7% al 3,7%), con i Paesi europei ad economia avanzata (e non solo) tutti con un divario al di sotto del 5%. Il problema è quindi sicuramente internazionale e anche europeo, ma in Italia appare certamente molto significativo.
Quale strada per invertire la rotta?
Alcuni spunti per cambiare
Bisogna passare dalle iniziative isolate di contrasto al divario di genere a un approccio organico, a una politica ampia e capillare che guardi a tutti gli aspetti che compongono il gap. Un divario che ha senz’altro una base culturale ma che si rafforza con la necessità di preservare e conservare posizioni di potere.
Per questo è essenziale che la misurazione e il monitoraggio del divario diventino elementi delle scoreboard europee sulla maturità di innovazione dei singoli Paesi, così come è necessario che per ciascun Paese questo diventi un punto qualificante per attestare l’assenza di discriminazioni (e quindi da dimostrare, con dati ed evidenze). Non è un caso, infatti, che i Paesi europei con più alto punteggio rispetto al DESI (Digital Economy and Society Index), abbiano tutti un basso divario di genere e che la Danimarca, prima in Europa per il DESI, sia quella dove il divario è praticamente assente.
La correlazione è politica, culturale, strategica. E deve essere considerata come essenziale per la misurazione non solo della maturità, ma anche della solidità di un Paese dal punto di vista della sua capacità di innovare. Per questo è fondamentale monitorare la riduzione costante del divario come aspetto di maturità e di salute del Paese nella sua dimensione di “readiness” all’innovazione. Naturalmente, il cambiamento si costruisce su tutti gli aspetti culturali.
Come si rileva dall’ultimo “Gender Equality Eurobarometer”, il Rapporto Europeo sull’eguaglianza tra uomini e donne, la percezione di quanto sia importante eliminare la disparità di trattamento economico tra uomini e donne è in Italia tra le più basse in Europa (29%) e l’unico fattore che viene riconosciuto davvero prioritario è quello relativo alla violenza contro le donne (63%). Segnale di un problema sentito e ben presente, ma anche della sostanziale disattenzione (o sottovalutazione) per il fenomeno sociale della discriminazione in ambito lavorativo. Disattenzione che è testimonianza di un problema poco avvertito come importante, a prescindere dalla sua reale dimensione: in Svezia, ad esempio, il tema del divario economico è generalmente considerato molto importante (79%), nonostante la sua dimensione molto ridotta (l’estremo opposto è La Bulgaria, con un divario molto alto e una sensibilità al fenomeno molto bassa).
Sulla stessa linea l’Italia, quart’ultima in Europa secondo il GEI (Gender Equality Index ), l’indice per l’eguaglianza di genere soprattutto per il forte divario in ambito lavorativo (dimensione “work”), di conoscenza (dimensione “knowledge”), e nelle posizioni decisionali nelle organizzazioni e in politica (dimensione “power”). Anche in Italia, all’elevata dimensione del divario corrisponde una scarsa percezione dell’importanza del fenomeno. E per invertire la tendenza, da qui bisogna anche partire. Certamente con forzature normative: la norma è sempre un messaggio culturale e politico di importanza fondamentale perché afferma la presenza di principi che devono indirizzare i comportamenti. In questo senso, ben vengano gli statuti cittadini e regionali che costringono all’eguaglianza di genere nelle giunte delle amministrazioni, così come le leggi che intervengono sulla composizione dei consigli di amministrazione.
Ma non basta: occorre anche intervenire con un lavoro costante e capillare che metta in evidenza (in qualche caso anche alla gogna) ciò che è coerente con la logica discriminatoria. Per questo, porre l’attenzione all’eguaglianza di genere nell’ICT anche nella formazione dei gruppi di lavoro, nella composizione dei panel dei convegni è segnale positivo che “ci si tiene”, che si considera questa una lotta fondamentale da promuovere nel quotidiano e in tutte le attività. Una delle ossessioni vitali che deve pervadere ogni iniziativa che si vuole innovatrice e di cambiamento. Perché il cambiamento culturale avviene anche con la coltivazione paziente di un nuovo paradigma, la cui forza dipende dalla diffusione non superficiale, mediatica e di trend, ma profonda, nelle convinzioni, radicata.
E in questo tutti noi abbiamo una responsabilità diretta, nelle nostre attività, nelle nostre iniziative di innovazione, nel cambiamento che vogliamo realizzare. Come tutti i problemi di eguaglianza sociale, è un problema nostro.
Diversi brani del testo sono tratti dal contributo dell’autore all’ebook “Anche i maschi nel loro piccolo…”