società digitale

Perché i social network hanno tradito i sogni dei pionieri della rete

Dall’esperimento di democrazia elettronica di Agorà Telematica – antidoto alla tv commerciale e al trionfo berlusconiano – all’arrivo dei social e dei filtri per produrre l’informazione tendenziosamente falsa, resta la delusione di chi credeva di cambiare il mondo con una democrazia partecipata grazie al web

Pubblicato il 13 Dic 2017

Alberto Berretti

Dipartimento di Ingegneria Civile ed Ingegneria Informatica, Università di Tor Vergata

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A cavallo fra la fine degli ’80 e l’inizio dei ’90 ho attivamente partecipato a una vicenda, a un esperimento se vogliamo, che ha fatto la storia della socialità telematica in Italia.

Un deputato radicale, Roberto Cicciomessere, organizzò insieme a un gruppo piccolissimo di collaboratori (tra cui Caterina Caravaggi e Gianni Sandrucci) un sistema online dedicato alla discussione politica (il documento che contiene le idee che hanno portato alla nascita del progetto di Agorà Telematica).

Incidentalmente, parlare del fenomeno dei sistemi online (le BBS, Fidonet, etc.) che precedono l’utilizzo di massa della rete Internet, sarebbe certamente una cosa molto interessante ma richiederebbe scrivere molto di più, cosa che un giorno cercherò di fare – ma non ora.

Quello che ci interessa è che in quella fase, u1 è nata, in contesti anche molto diversi tra loro, l’idea che lo strumento telematico potesse essere fondamentale per rinnovare la democrazia. Stavamo entrando negli anni in cui il trionfo berlusconiano sembrava indicare come l’avvento del mezzo televisivo stesse cambiando profondamente il tessuto della società: in peggio. Il fattoide della videocrazia occupava le menti di schiere di sociologi, politici ed attivisti, preoccupatissimi per il destino della democrazia, e l’uso dello strumento telematico ci sembrava essere il naturale antidoto ai fasti della televisione commerciale. Qualcuno pensò anche di poter occupare, nell’online, il posto che Berlusconi occupava nel mondo della televisione commerciale, e utilizzare una eventuale posizione di vantaggio nel campo come passerella politica. La vicenda ha preso in realtà tutta un’altra piega e in Italia in particolare ha assunto una forma terminale nel Movimento e nel Blog di un ex comico (V. Zambardino e M. Russo hanno scritto cose fondamentali sull’argomento nel libro Eretici Digitali, nel capitolo L’urlo del tribuno).

Il paradigma di comunicazione praticato da Agorà Telematica non era certo unico, né poteva vantare una primogenitura: sempre per restare in Italia, MC-Link era un sistema sostanzialmente simile, che precede, sia pur di poco, Agorà. Ma le tematiche tipiche di una discussione su MC-Link erano tecniche – al massimo si poteva parlare di cinema in un’area moderata da un personaggio del livello di Sergio Donati -, mentre la politica era al centro delle discussioni agoriane.

Agorà Telematica, però, è stata un caso a parte: intorno ad essa non si è tanto sviluppata una elaborazione teorica del concetto di democrazia elettronica (le note di Caravaggi e Cicciomessere citate sopra sono praticamente tutto), quanto una sua coniugazione pratica, sia pure in scala ridotta. Mentre studiosi e sociologi di vario genere iniziavano a disquisire sull’argomento, mentre attempati filosofi del diritto iniziavano a scivolare sullo scivoloso pendio che li avrebbe portati appena un chilometro più a nord del Movimento sopra citato, noi praticavamo (e chi scrive rivendica orgogliosamente la trascorsa partecipazione al fenomeno…), imbattendoci in problemi e difficoltà già con un’utenza dell’ordine di qualche centinaio di utenti attivi.

Il modello Agorà, come tutte le altre BBS dell’epoca, era costruito intorno ad una simmetria completa di tutti gli utenti (salvo i moderatori delle conferenze, le aree tematiche in cui il sistema era suddiviso, che avevano qualche potere in più, tipo cancellare post offensivi o off-topic): un modello del genere, oggi si direbbe un forum, senza una forte caratterizzazione tematica (tipo i forum di specifici argomenti, in genere tecnologici) iniziava a dar problemi con qualche centinaio di utenti attivi, e chiaramente non poteva scalare a centinaia di migliaia, milioni o un miliardo e passa di utenti come Facebook oggi senza qualche forma di suddivisione degli utenti. La forma che ha preso la socialità telematica online è stata diversa, molto diversa: è stata la strada del social network, della rete sociale in cui ognuno si sceglie i propri contatti piuttosto che essere in contatto con tutti. Oggi diamo questa struttura a rete per scontata, ma non è sempre stato così.

Un’occhiata alle figure, in cui abbiamo solo 20 soggetti in rete, ci fa immediatamente capire perché il modello di rete completa – tutti amici di tutti – , uniforme non può scalare se abbiamo un numero di persone sufficientemente grande che interagisce. Provate a scalare il grafo a sinistra nella figura a 2000 nodi invece che 20, ed avrete una palla di pixel scuri, un milione circa di relazioni ingestibili, mentre un grafo con 2000 nodi generato col medesimo algoritmo (Barabasi-Albert) di quello a destra, ideato per modellizzare ad es. reti sociali, è ancora piú che gestibile.

I social network come forme di socialità telematica sono tra noi da oramai molti anni. Preceduti dall’epopea delle BBS, dal fenomeno Usenet e dall’epoca delle piattaforme come Geocities e Tripod, vedono la loro prima incarnazione di successo in Myspace nel 2003, piattaforma oggi marginale. La principale caratteristica di un social network, che lo distingue da altre forme di socialità telematica, è appunto quella di crescere intorno al concetto di amico (variamente coniugato come contatto, seguace o follower (Twitter), e cosí via, a seconda della piattaforma). Non sono in contatto con tutti, ma solo con coloro che scelgo, appunto gli amici.

Sulla dinamica delle reti sociali (e simili) sono stati scritti – letteralmente – fiumi d’inchiostro, a partire dall’opera pionieristica di Albert Barabasi e collaboratori, per arrivare ad eccellenze italiane come A. Vespignani e W. Quattrociocchi. Qui ovviamente non si vuole ricapitolare un decennio di studio delle reti sociali mediante gli strumenti della meccanica statistica delle reti complesse. Cerchiamo di capire però come la struttura delle relazioni può influenzare la loro natura e la diffusione delle informazioni.

La struttura del social network ha un’influenza profonda nella quantità e qualità dell’informazione con cui vengo a contatto nella rete sociale. Prima avevamo un numero ridotto di strumenti di informazione, che centralizzavano, intermediavano fra le fonti – che sono sempre molteplici, che sono raw, grezze, che dunque vanno valutate, la cui attendibilità deve essere verificata, che sono la base, solo quella, di un lavoro complesso altrimenti noto come giornalismo. Poi la rivoluzione digitale ha disintermediato, ha portato i lettori a diretto contatto con le fonti, ma a questo punto è venuto a mancare tutto il lavoro che trasforma un fatto così come esso accade in una notizia. Una rivoluzione ontologica dalle conseguenze non del tutto ovvie e lineari.

Mentre teorici e studiosi delle comunicazioni elettroniche si interrogavano pensosi su come superare il problema del sovraccarico informativo creato dall’accesso diretto ad un flusso grezzo di eventi e come gestire la disintermediazione delle fonti, la realtà ha trovato per conto suo una soluzione al problema: una soluzione ovviamente non ottimale, ma più che sufficiente. A reintermediare tra me e le fonti, a fare un po’ d’ordine in questo flusso caotico, ci sono i miei amici ed i miei FOAF, gli amici dei miei amici (friend of a friend). Di fatto, una funzione di filtro esercitata socialmente dalla mia cerchia ha sostituito la funzione di filtro svolta da professionisti. I risultati sono sotto gli occhi di tutti. Il commentatore politico americano e professore allo U. S. Naval War College Tom Nichols ha pubblicato recentemente un intero libro sull’argomento (The Death of Expertise – The Campaign Against Established Knowledge and Why it Matters, Oxford University Press).

Dunque il filtro continua ad esserci, ma non è più un filtro operato da professionisti dell’informazione, i quali ovviamente possono avere i loro bias ed i loro punti di vista – qui nessuno pretende l’oggettività assoluta – ma non sono dei generatori seriali di bufale. Se il filtro è social, dopo un po’ di tempo la mia cerchia di amici sarà diventata ideologicamente omogenea: o perché avrò eliminato dal mio feed i contenuti a me sgraditi o perché ci siamo convinti e resi omogenei a vicenda. Dei dati empirici e della modellistica matematica di questa situazione ne abbiamo già parlato in questo articolo pubblicato su Agendadigitale.eu. Una volta che si creano quelle che sono state chiamate in vario modo – echo chambers, cioè camere ad eco: quello che dico rimbomba e viene amplificato dall’eco, o filter bubbles, bolle ideologiche create dai filtri social -, sfruttarle per creare un’autostrada per contenuti tendenziosamente falsi è banale – si tratta di quelle che vanno chiamate con il loro nome, e cioè active measures, non semplicemente fake news: v. ad es. Russian Active Measures in Germany and the United States: Analog Lessons From the Cold War di Laura Daniels oppure Russian Active Measures and Influence Campaigns di Eugene Rumer.

Per i pionieri come noi, per chi alla fine degli anni ’80, aggrappato ad un modem a 1200 baud senza correzione d’errore, pensava di poter cambiare il mondo non solo e non tanto con l’ecommerce, ma con una democrazia estesa e partecipata resa possibile dalla condivisione per via telematica di una quantità di contenuti, resta nel migliore dei casi una fortissima delusione, nel peggiore la sensazione di aver contribuito a creare una distopia informativa che ora è molto difficile da curare.

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