Nell’ultimo anno c’è stato un vero e proprio boom delle società benefit in Italia, raddoppiate nel 2020, ora sono circa un migliaio secondo Assobenefit (anche Digital360, che pubblica Agendadigitale.eu, lo è appena diventato, ndr.).
Il totale ha scavalcato il migliaio, non è più una nicchia, ma un fenomeno significativo che può avere un ruolo importante nella ripresa italiana e nell’attuazione del PNRR, nella ridefinizione delle regole del mercato.
Nel mondo, le “B Corp” hanno appena raggiunto quota 4000, ma tanta è la richiesta che i tempi di attesa per ottenere la certificazione si sono enormemente dilatati: ci vogliono almeno sei mesi oggi dal momento in cui il BIA, sacro documento che misura l’eleggibilità a benefit dell’azienda, viene inviato a B Lab, l’ente certificatore.
Il variegato mondo delle “benefit”
Un mondo, quello delle benefit, che raccoglie attorno all’idea di “business as a force for good” imprese di ogni tipologia (società di persone, di capitali, cooperative, ecc.), di ogni settore industriale (digitale, abbigliamento, agroalimentare, cosmesi, consulenza, design, costruzioni, editori, farmaceutica, energia, ecc); e di ogni dimensione, dalla grande azienda come l’italiana Chiesi alle aziende software come Reti o Mondora; dalla spagnola Heura Foods che fa carne plant-based all’italiana Fileni che nelle Marche produce carni e prodotti avicoli; dal brand globale del caffè Illy alla startup Ricehouse che fa bioedlizia, dalla Pasticceria Filippi di Zanè, Vicenza, al colosso Patagonia.
Cosa sono le “società benefit”
Piccola parentesi per chi fosse a digiuno dell’argomento: con il termine ‘società benefit’ intendiamo uno status giuridico normato dal diritto italiano, che richiede l’indicazione delle finalità di beneficio comune nell’oggetto sociale dello statuto della società. Non c’è un ente esterno che giudica se l’oggetto sociale benefit, così come viene descritto, va bene o va male. Salvo poi il fatto che un obbligo specifico per la società benefit è la relazione d’impatto annuale, da allegare al bilancio societario, che dovrà riportare cosa la società ha effettivamente realizzato rispetto alle finalità benefit indicate in Statuto, e tale impegno non va solo raccontato, ma misurato utilizzando uno standard di valutazione esterno, ad esempio il BIA o B Impact Assessment.
B Corp è invece una certificazione, che si ottiene a seguito di un congruo punteggio assegnato tramite il BIA, verificato da B Lab, che ha un valore internazionale e va rinnovato ogni tre anni.
Una moda passeggera? Un effetto ‘moralizzante’ della pandemia?
In realtà, al momento, tra le realtà italiane diventate società benefit non ci sono dei “folgorati sulla via per Damasco” come molti credono.
Ci sono molte realtà che, come ho sentito dire spesso, erano già benefit senza saperlo. Per molte di queste aziende diventare società benefit e B Corp è stato un passaggio naturale, perché il DNA benefit c’era da tempo, magari si manifestava con attività di CSR e bilanci di sostenibilità, nelle aziende più grandi; con un certo impegno sul territorio e attenzione ai dipendenti in modo totalmente destrutturato (certamente non comunicato) nelle aziende più piccole.
Addirittura, secondo quanto dichiarato in questa intervista da Raul Caruso[1], direttore di Assobenefit e professore di economia internazionale presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, “come qualificazione giuridica la società benefit sono una cosa nuova, ma come sostanza no. In realtà quelli che sono i valori di una società benefit sono già presenti nel DNA di tanti imprenditori italiani, nel tessuto imprenditoriale delle piccole e medie imprese, quello che ha permesso all’Italia di entrare nel G7. Al nord come al sud, nei borghi e nelle cittadine di provincia, nei luoghi dove c’è un’identità, non agglomerati di case e capannoni, l’Italia sta in piedi grazie a queste realtà, in cui l’imprenditore è naturalmente interessato e interconnesso con la comunità”.
Molte startup oggi si costituiscono come società benefit: come fondatrice di una di queste, The Good in Town, posso assicurare che di vantaggi in questo momento, se per vantaggi intendiamo agevolazioni economiche, non ce ne sono, perché non vi sono incentivi diretti (nemmeno di natura fiscale) per le società benefit e nemmeno incentivi per agevolare le attività delle società benefit o di chi lavora con loro, come succede nel terzo settore. Va bene così, ma certo se in un’ottica di transizione ecologica e digitale lo Stato volesse dare un bel segnale per il diffondersi di questo modello, potrebbe cominciare convertendo tutte le società partecipate: Rai, Eni, Enel, Poste, Ferrovie dello Stato tutte potrebbero diventare benefit, complicato, ma una vera rivoluzione.
Un ruolo per le tech company benefit
Un ruolo molto importante per la diffusione del modello benefit e di filiere benefit potrebbero giocarlo le tech company e le società che si occupano di trasformazione digitale: in un mondo dove il digitale è trasversale (e strumento di sostenibilità), il modello benefit diventa un trait d’union pazzesco.
Dice Bruno Paneghini, prima tech company quotata italiana a diventare B-Corp. ”Essere B-Corp significa trasformare il modello di business da estrattivo, che consuma più di quanto produce, a rigenerativo, che compensa gli impatti sull’ambiente. Questo è un percorso che abbiamo attivato nella nostra azienda ma anche con i nostri clienti. Abbiamo sviluppato un progetto che ci permette di calcolare lo Sroi (Ritorno sociale sull’investimento) delle implementazioni tecnologiche che facciamo per loro. Così come da anni lanciamo con forza il messaggio che è possibile fare a meno della carta”[2].
Benefit è sexy, anche in ottica ESG
La società benefit è il modello d’impresa da abbracciare oggi, il vecchio approccio del fare impresa solo per generare profitto, senza considerare impatto e responsabilità, è superato, perché è illogico. La società benefit è l’unico modello d’impresa che ha senso, perché in esso non c’è il ‘core business’ e poi le attività benefiche (modello CSR). Le due cose viaggiano insieme e si intrecciano continuamente. Il beneficio comune entra nella struttura del core business, lo guida addirittura.
Quanto è di moda l’ESG: perché la sostenibilità è diventata un valore aggiunto per le aziende
È per questo che riesce a essere un modello inclusivo e a orientare le strategie di business in società grandi e piccole, aziende agricole e di servizi, digitali e manifatturiere, colossi farmaceutici e startup. È un modello che possono abbracciare anche aziende che hanno molto lavoro da fare sul piano della sostenibilità, perché le accompagna in un processo di miglioramento continuo.
Non mancano i disfattisti che vedono nelle società benefit un nuovo strumento di greenwashing, nel migliore dei casi di marketing.
Per qualche società sarà anche così, relativamente al marketing è anche giusto, d’altro canto nell’enterprise value, oggigiorno, gli intangible asset come il valore reputazionale pesano per il 70-80%.
Tuttavia, è molto difficile riuscire a essere B Corp per finta, infatti solo 1 su 3 delle richiedenti ottiene la certificazione.
Ma non è questo il punto.
Il greenwashing? Un suicidio aziendale
Sul tema del greenwashing dovremmo fare una riflessione controintuitiva.
C’è un ‘Climate Clock’ a Berlino, New York, Glasgow, che segna il conto alla rovescia verso il punto di non ritorno dell’emergenza climatica; basta guardare l’orologio – e vedere il tempo mancante, in questo momento poco più di sei anni, per avvertire un senso di urgenza, di emergenza.
Bisogna accelerare. Il processo di decarbonizzazione e lo sviluppo sostenibile non possono essere più portati avanti aspettando un progressivo cambiamento culturale. Il tempo non ci è amico.
C’è bisogno di disruption, di nuovi modelli sostenibili e perseguibili, di velocizzare, c’è bisogno che tutti facciano qualcosa, adesso.
La velocità comporta ovviamente dei rischi: anche l’azienda che fa charity per ripulirsi la coscienza e l’immagine è meglio di niente, se proprio non riesce a fare di più, sarà il tempo farà giustizia su di lei, è una questione di evoluzione darwiniana. Per un’azienda fare greenwashing oggi è un suicidio differito.
Il rating ESG, che è entrato a pieno titolo nelle strategie di tutte le grandi corporation, di tutte le aziende e dei fondi d’investimento, spinge esattamente nella stessa direzione e fa da sponda alle società benefit. Anche in ambito ESG c’è puzza di greenwashing, ma forse se puntiamo gli occhi sul quel climate clock possiamo tapparci il naso e accontentarci, solo per il momento, di quel che passa il convento. E fare in modo che questa breccia ESG aperta in vetusti modelli d’impresa generi evoluzione e spinga verso un modello benefit.
Conclusioni
Ma come far sì che questo avvenga a ritmo esponenziale?
Mettendo al servizio della causa e declinandoli anche a livello aziendale i nostri istinti primordiali: sopravvivenza, adattamento, competizione.
Per scatenare tutto questo la comunicazione è fondamentale: non è un pavoneggiarsi sterile quello che si chiede, ma di favorire con l’esempio un effetto moltiplicatore. La comunicazione è trasparenza, ed è ciò che permette anche al consumatore, diventato chiave nella transizione ecologica, di scegliere consapevolmente quale genere di impresa merita la sua preferenza.
Essere società benefit sta diventando una gara, ma non c’è nulla di male, anzi. “Sono benefit e me ne vanto” dovrebbe essere un mantra.
Note
- https://www.thegoodintown.it/raul-caruso-assobenefit-la-resilienza-e-la-forza-delle-societa-benefit-italiane/ ↑
- – https://www.thegoodintown.it/reti-ecco-come-puo-essere-benefit-una-societa-tecnologica/ ↑