“Quando nel 1999 è stata pubblicata la prima edizione de la Psicologia di Internet (Raffaello Cortina, 2017, edizione italiana, a cura mia e di Stefano Moriggi) dominavano ancora le librerie di calce e mattoni”, così prende avvio la prefazione alla seconda edizione del volume di Patricia Wallace. Che non si tratti di una seconda edizione, ma di un libro integralmente nuovo lo dimostra, proprio, questo incipit. Dalla fine dello scorso millennio le tecnologie digitali della comunicazione sono, infatti, radicalmente mutate e con loro è cambiato radicalmente il nostro modo di interagire con esse e conseguentemente la nostra vita. In questi diciotto anni, il mondo è divenuto “digitale” e Internet è diffusa ormai quanto la luce elettrica. E’ in questo scenario che Patricia Wallace, ora in pensione, dopo un brillantissima carriera accademica conclusa alla Johns Hopkins University, pubblica il suo nuovo affresco sulla psicologia e la società del Web nell’epoca del conclamato trionfo globale di Internet. Oggi nel 2017 non solo le librerie sono digitali, ma anche la televisione e il cinema, la prenotazione delle vacanze, gli acquisti e le relazioni sociali e affettive tra le persone sono indissolubilmente intrecciate con la rete. Il notebook non è più l’unico o il principale tra strumenti gli di connessione, ma lo sono gli schermi touch degli smartphone che stanno in tutte le nostre tasche, e i tablet nelle nostre borse; tanto che i nostri figli – che usano molto anche le consolle per videogiochi – sono stati spesso definiti come generazione touch o Generazione App (K. Davis, H. Gardner, The App Generation: How Today’s Youth Navigate Identity, Intimacy, and Imagination in a Digital World 2016).
La psicologia della persona online: libertà di accesso e di critica e narcisismo
I diciassette anni trascorsi, dalla prima edizione del libro di Wallace, sono stati anche e soprattutto gli anni della rivoluzione informazionale, come l’ha definita Manuel Castells. Una “rivoluzione” dalla velocità impressionante. Il Web oggi conta più di 3,6 miliardi di utenti, quasi la metà degli esseri umani è, cioè, connesso. Ma come sono cambiate le vite di questa miriade di donne e uomini, ragazzi e ragazze, bambine e bambini? E’ su questo tema che si sofferma in particolare la Wallace.
La soggettività di ciascuno di noi o quella che Wallace preferisce chiamare “persona online”, vive oggi immersa in un continuum di esperienze digitali e reali dalle molteplici sfaccettature, dalla percezione del sé, alla relazione tra sé digitale e sé reale, dall’affettività e alla sessualità, alla socialità, fino alla dipendenza e agli abusi. Da questo punto di vista l’autrice è ottimista: i vantaggi della “protesi” Internet sono decisamente superiori alle sue criticità. Basti solo pensare come oggi ogni “persona” su Internet abbia l’opportunità ma anche la responsabilità di poter proiettare la propria vita “online” e di rendere pubblico il proprio pensiero e il proprio privato (con attenzione … ); di relazionarsi a circa la metà dell’Umanità sul web e nello stesso tempo abbia la possibilità di accedere a tutti i servizi e a tutta la conoscenza del mondo. Si tratta di una “singolarità” per la storia dell’umanità (R. Kurzweil,The Singularity is Near. Viking Books, New York, 2005, tr. it., La singolarità è vicina, Apogeo Education 2008). Tutti e ciascuno possono, oggi, esprimere il loro pensiero con un semplice click su un social network, “di-sintermendiando”, in maniera molto efficace, tutto il sistema dell’informazione mass-mediale, con un oggettiva e innegabile crescita della libertà di espressione e di critica. E’ ovvio, che molti dei post, delle fotografie e dei video, messi online sui social network, più che dannosi o “disturbanti” siano inutili e soddisfino solo il narcisismo di chi li pubblica (a suo rischio). Questo, tuttavia, è inevitabile in questa prima, tumultuosa, fase della “rivoluzione informazionale”: nessuno di noi è mai stato abituato, o pensava, di potersi esprimere liberamente di fronte al mondo intero. Allo stesso modo è del tutto evidente che la libertà di esprimersi sconfini spesso nell’arbitrio e nella dittatura di una piccola minoranza becera e volgare, ma anche questo è il frutto di una rivoluzione rapidissima, che ci ha colto ovviamente impreparati: singoli e istituzioni.
Per contro e in positivo, chi di noi potrebbe oggi fare a meno di Internet o dei social network anche solo per il proprio lavoro. Quale società o istituzione potrebbe privarsi dei social per comprendere il sentiment e le tendenze dell’opinione pubblica o dell’utenza. Allo stesso modo chi di noi potrebbe immaginare di non poter più attingere a Internet o alle reti sociali per informarsi, studiare, lavorare comunicare e giocare, o anche solo commentare o condividere le notizie e i “fatti del giorno” con amici e sconosciuti.
Un altro problema molto dibattuto e analizzato a fondo nel volume che stiamo presentando è quella della “fine della privacy” (S. Rodotà, A. Masera, G. Scorza, Internet, i nostri diritti, Laterza, Roma, 2016) così come noi la intendiamo. La nostra “impronta digitale”, è, infatti, sempre tracciata e reperibile. Molti di noi, soprattutto i più giovani ma non solo, sono ancora inconsapevoli del fatto che ogni contenuto “rilasciato” sul web, anche nel contesto che crediamo più sicuro e privato, è un nostra “traccia digitale” che sarà per sempre pubblica e reperibile. Del resto i giganti dell’hi-tech come Google, Amazon o Facebook hanno un modello di business che “vende” accesso, servizi e strumenti di comunicazione e produttività individuale e collettiva in cambio di dati personali da rivendere a terze parti commerciali o istituzionali. Tuttavia Wallace è ottimista sul futuro della comunicazione online, certamente molto di più della sua amica “rivale” Sherry Turkle che vede nella comunicazione online il rischio concreto della fine della “conversazione e del dialogo intersoggettivo” (S. Turkle, Reclaiming Conversation: The Power of Talk in a Digital Age, Penguin Books, New York 2015, tr. it., La conversazione necessaria. La forza del dialogo nell’era digitale, Einaudi, Torino, 2016). Turkle afferma, infatti : “ … le visioni più ottimistiche, come la mia, pongono l’accento sul nostro ruolo nello sviluppo della rete”, agire cioè consapevolmente online e usare le potenzialità della rete anche collettivamente, per minimizzarne i rischi è la risposta alla “raccolta” dei nostri dati personali che avviene ogni volte che accediamo a Internet. Di questo tema dovrebbero occuparsi molto più di quanto non facciano ora la scuola, la famiglia e le istituzioni.
Social network: miseria e nobiltà
Allo stesso modo non sono “pericolosi” o “dannosi”, come molti mass media ossessivamente ripetono, i social network, anche perché sono, oggi, a pieno titolo entrati a far parte della nostra identità reale. Questo vale in particolare per i “nativi digitali” categoria che la Wallace adotta pienamente come strumento euristico per la comprensione dei comportamenti di comunicazione reale e virtuale dei nostri figli e nipoti. “Internet però non è nicotina, né alcol, né cocaina”, sostiene la Wallace commentando quello che possiamo considerare il più grande cambiamento di Internet tra il 1999 al 2016: le reti sociali, appunto. Si tratta di un fenomeno che ha assunto dimensioni globali e forse difficilmente immaginabili: Facebook (1,7 miliardi di utenti), WhatsApp (1,3 miliardi), Instagram (500 milioni), Twitter (317 milioni), Snapchat (200 milioni), e molti loro fratellini minori non esistevano nel 1999. Wallace utilizza lo sterminato “campo di ricerca” delle reti sociali, nel 1999 le avremmo definite comunità virtuali (Rheingold, H. 1991, The virtual community, Summit Books, New York; tr.it. Comunità virtuali. Parlare, incontrarsi, vivere nel cyberspazio, Sperling & Kupfer, Milano 1994.), in tutti i capitoli del volume, dal momento che amicizia, amore, erotismo lavoro, gioia e rabbia oggi si manifestano anche nello sterminato mondo della comunicazione sociale su Internet, integrandosi con la vita reale.
Wallace ricorda, infatti, come la prima regola per comunicare correttamente online è “ … ricordare di essere umani”. L’assenza del guardarsi negli occhi, la disinibizione di essere protetti da un schermo, insieme ad un generale inconsapevolezza delle regole delle privacy e delle policy di pubblicazione on-line, rendono tutti noi a volte inconsapevolmente o consapevolmente “maschere” disincarnate sulla rete. Ma nota la Wallace il ricordarsi di “essere umani” e che al di là dello schermo vi sono esseri umani come noi, può prevenire i comportamenti aberrati sui social network.
Infine, la “singolarità” antropologica e tecnologica di cui parla Ray Kurzweil, e di cui la Wallace ci offre un quadro obbiettivo e molto efficace, la transizione dall’Homo sapiens all’Homo sapiens digitalis è compiuta. In ogni caso, quale che sia il futuro dello sviluppo di internet e dei social media, noi “immigranti digitali”, noi che abbiamo vissuto la “transizione”, abbiamo sicuramente un dovere rispetto alle generazioni future, quello di pensare oggi al futuro. E cioè di predisporre strumenti adeguati, formativi e informativi, perché la transizione al digitale crei cittadini digitali consapevoli, creativi e critici. Abbiamo cioè il compito di predisporre strumenti per comprendere la straordinarie opportunità, individuali e sociali, che per tutti noi rappresentano i mezzi di comunicazione digitali. L’errore più grande è quello che moltissimi compiono. Quello cioè di non comprendere questa necessità, e atteggiandosi a “Laudatores temporis act”, mettere in rilievo solo i tratti deteriori, ovviamente presenti, di una “rivoluzione” che invece rappresenta un grande balzo evolutivo della nostra civiltà.