Difficile non concordare con i vari punti del Piano Nazionale Innovazione, per la crescita digitale dell’Italia fino al 2025, pur nella loro astrattezza e genericità. Le buone intenzioni ci sono, la strategia è condivisibile nei suoi punti essenziali, alcuni principi cardine se portati sino in fondo in modo netto potrebbero senz’altro aiutare questo Paese che continua ad aggrovigliarsi nel tentativo di portare a termine una rivoluzione digitale annunciata dagli anni ’90.
Ci sono però dei tasselli che devono andare in fretta al posto giusto: parliamo delle competenze, della formazione e degli investimenti. Senza dimenticare che sul piano delle norme non bisogna modificare o aggiungere nulla. E ancora ci sono delle domande cruciali a cui il Piano non dà risposte: prima fra tutte quella relativa al controllo del nostro patrimonio informativo.
Ma andiamo con ordine: partiamo dalla governance.
La governance del digitale: il ruolo della ministra Pisano
Occorre capire se la governance in Italia finalmente abbia un senso compiuto e forse oggi le deleghe alla ministra Paola Pisano sembrano esserci tutte, pur se essa dovrà confrontarsi con altri ministeri indirettamente competenti (in primis con il Ministero per la PA e con quello degli Affari Regionali, anche se mi sembra che con Fabiana Dadone e Francesco Boccia per adesso si respiri armonia nelle vedute) e poi coordinare bene i suoi bracci operativi (Dipartimento Trasformazione Digitale e Agid).
Non tutto dipende da Paola Pisano, perché occorrerà comprendere la tenuta di questo governo, i reali fondi a sua disposizione e la concreta voglia di cambiamento da parte dell’intera compagine governativa.
Insomma, voglio sperare che la ministra Pisano non sia lasciata sola ad assolvere un compito così delicato. Se si vuole davvero voltare pagina, occorre investire in modo serio su competenze multidisciplinari in capo alla dirigenza (anche politica) di questo Paese e sulla corretta informazione e formazione per dipendenti pubblici e cittadini. E gli investimenti ci devono essere. Finiamola con la fiaba del digitale a costo zero. Il digitale costa sacrifici in termini di risorse umane e tecnologiche. E finiamola anche con la fiaba del mondo digitale mirabilmente innovativo da raggiungere. Il mondo digitale c’è, ne siamo letteralmente investiti. Sento ancora parlare i nuovi guru di un digitale rivoluzionario che verrà. Non c’è più nulla di realmente rivoluzionario, ormai abbiamo i piedi che affondano nelle piaghe di un mondo intriso di digitale sin dalle sue radici.
Il problema oggi è proprio quello di comprendere fino in fondo cosa ci sta accadendo intorno e quindi adottare principi e regole in grado di reinterpretarci attraverso strumenti che abbiamo regolamentato da anni. Perché gli strumenti ci sono, come le norme. Anzi, come prima regola da darci per il nuovo anno suggerirei proprio di non modificare più le regole che già ci sono. Abbiamo rattoppato codici e codicilli per troppo tempo e il nostro sistema normativo è anche troppo traballante dal punto di vista sistematico. Fermiamoci almeno per un po’ e proviamo ad accendere per davvero il motore, partendo dal comprendere se è un diesel, o un motore a benzina, ibrido, elettrico o magari a idrogeno.
Partiamo allora da questo senso di rivoluzione che ancora incredibilmente anima molti dibattiti sul digitale con esperti che si sentono investiti da una funzione messianica di insegnamento su come funziona questo rivoluzionario mondo.
Il fumo e l’arrosto
“Sostenere che non ti interessa il diritto alla privacy perché non hai nulla da nascondere non è diverso dal dire che non ti importa della libertà di parola perché non hai nulla da dire.” (E.Snowden)
Di cosa ci importa, davvero, oggi? Mi rivolgo proprio agli esperti e ai professionisti del settore digitale, che sembrano aver perso di vista i problemi reali e sopranazionali dell’ultima evoluzione del web a furia di inseguire le “chimere” dei suoi automatismi (dal blockchain, all’IA, per finire al machine learning).
L’aria è densa di “fumo” che serve a nascondere, da un lato e a ingigantire, dall’altro, un arrosto che dietro non manca e che in molti stanno già assaporando (ad esempio molte aziende e startup nate sull’onda dell’innovazione facile), ma le tecnologie, da una prospettiva squisitamente interpretativa, restano sempre quelle e poggiate su invenzioni che sono ben ancorate a un glorioso passato (internet e web).
È richiesto un impegno non indifferente per ignorare i numerosi sforzi protesi a minimizzare o al contrario ad affrontare con spirito spavaldo le delicate sfaccettature interpretative del digitale, profusi da parte di alcuni personaggi, storyteller di professione, che emergono ormai ogni giorno, ma che sembrano ripetere un compitino imparato a memoria, senza neppure possedere un minimo di basi teoriche per comprendere davvero cosa c’è intorno agli strumenti che propongono come rivoluzionari.
Un mondo non proprio “nuovo”
Le rivoluzioni, quelle vere, lo ripeto, sono ferme a quanto innescato 50 anni fa, all’Internet, e dopo al Web e alle sue applicazioni, sebbene, oggi, il mercato del digitale sia popolato da tutti questi avventurieri del diritto dell’informatica e dello storytelling, che si ergono a pionieri del “blockchain” o dell’intelligenza artificiale, ritenendosi solo per questo degli “innovatori”.
Se ci sono reali innovazioni oggi, non sono qui o quanto meno non sono quelle di cui tanto parliamo che posano i loro piedi su fondamenta già da tempo disegnate. La stessa Intelligenza Artificiale – termine assai abusato (e che per fortuna non viene ripetuta fino allo sfinimento nel Piano della ministra Pisano, nel quale per una volta non c’è traccia di un’altra parolina magica, il “blockchain”) – è facilmente assimilabile alle procedure automatizzate di cui si parlava più di vent’anni fa. Come ho provato a spiegare in diverse occasioni, sono solo mutate potenza di calcolo e capacità di memoria, oltre che una buona dose di creatività affidata al cervello umano di abili programmatori che sanno sfruttare al massimo ciò che oggi il mondo digitale è in grado appunto di esprimere.
Esaminiamo un caso concreto (e familiare al sottoscritto): l’applicazione delle tecnologie “rivoluzionarie” al contesto processuale. È innegabile che in molti procedimenti il ragionamento di un giudice si basi anche su emozioni, empatia e percezioni che per adesso una macchina non può memorizzare. Tuttavia, ammettere che un giudice possa essere sostituito dall’AI, equivarrebbe ad ammettere che il suo ragionamento possa essere sintetizzato in una serie di scelte basate su una logica matematica, in sequenze di 0 e 1 per tradurre in altri termini. Quindi si pretenderebbe con una bacchetta macchina digitale di annullare la discrezionalità per consentire a un automatismo “ragionato” di arrivare a una decisione vincolante. Questo potrebbe anche essere realizzabile, ma solo quando la decisione del giudice è appunto automatizzabile in procedimenti sommari o esecutivi o comunque facilmente riassumibili in una piatta logica matematica.
E questo è quanto è stato sostenuto, in realtà, dal Consiglio di Stato anni fa sull’applicabilità dell’art. 3 D.lgs. 39/1993 ai procedimenti amministrativi (articolo applicabile appunto solo a quelli meramente esecutivi, “spersonalizzabili” e non discrezionali che potevano – e possono – essere informatizzati con procedure automatiche) e recentemente ribadito nella sostanza sull’utilizzo degli algoritmi nel procedimento amministrativo, riabilitando la facoltà dell’organo titolare del potere di svolgere la necessaria verifica di logicità e legittimità della scelta e degli esiti affidati all’algoritmo stesso.
Entra quindi in gioco, dietro l’algoritmo, un terzo fattore: quello umano, del programmatore. Le “scelte” (anche quelle etiche giustamente annunciate nel Piano Nazionale) non sono, quindi, da imputare al software, ma a chi lo ha programmato e questo vale, ad esempio, anche per le auto a guida autonoma, come ci rivelano recenti articoli.
Un reale algoritmo pensante, cosciente, ad oggi non c’è. Apprende ciò che il programmatore ha insegnato ad apprendere in una serie di logiche già preventivate. In base alle conoscenze di oggi, negare almeno all’uomo la capacità di mantenere la sua superiorità sulla macchina è una follia, giusto per richiamare quanto lucidamente sostenuto dallo scienziato Federico Faggin, una delle menti italiane più illuminate del XX secolo, autore dell’invenzione che ha avviato la rivoluzione dell’elettronica e dell’informatica. Su questi concetti non ci possono e non ci devono essere fraintendimenti.
Dov’è allora la rivoluzione?
Si tratta ovviamente di una rivoluzione molto complessa, sottile e tortuosa, tuttavia necessaria dove il digitale ormai permea integralmente la nostra esistenza in modo consapevole e più spesso purtroppo inconsapevole. Su questo dovremmo concentrare i nostri racconti, non solo sui miracoli del mondo digitale, ma su dove poggiano oggi i nostri piedi social. Non possiamo continuare a ignorare (e a far ignorare in una sorta di incantesimo fondato su un illusorio senso di gratuità) che oggi i nostri spazi sociali sono manovrati e controllati da un novero di multinazionali private, strategicamente posizionate, che gestiscono a loro piacimento le nostre identità digitali, tramite l’offerta -appunto- gratuita di servizi che in realtà traggono nutrimento da una fonte preziosissima: i nostri dati.
E i nostri governi nazionali in qualche modo “ospitano” tali assetati player (o sono essi stessi ormai ospitati?) all’interno di una realtà che coincide grosso modo con i confini di un meta-stato di dimensioni sovranazionali. Non si può evitare di riflettere sulla natura e sulle conseguenze di azioni portate avanti da organizzazioni private in uno spazio che rimane poco controllabile e poco controllato dal diritto (e quindi potenzialmente soggetto a pressioni politiche). Prendiamo come esempio uno dei più recenti casi di cancellazione perpetrati da Facebook ai danni delle sardine, ma anche di Casapound. Oggi chi non è su Google, Facebook o Instagram in pratica non esiste e non è possibile essere totalmente tranquilli in spazi di dimensioni enormi nei quali si vive grazie alla (tacita) accettazione di contratti on line con condizioni capestro per la nostra esistenza digitale, con ripercussioni pesantissime sulla vita (digitale) dei destinatari totalmente alla mercé di scelte determinate da veri e propri sceriffi del far web.
Sono questi i veri leader della “rivoluzione” che attendevamo per riscattare il nostro Sistema Paese? Si tratta di fare una scelta. Da che parte vogliamo stare?
L’Italia e l’Europa, da che parte vogliono stare?
Alla luce di queste considerazioni, avrebbe senso consegnare il nostro patrimonio informativo pubblico ai grandi player internazionali perché di moda e soprattutto poco costoso? O sarebbe meglio che il nostro Stato – come peraltro previsto nelle recenti Linee guida su formazione, gestione e conservazione dei documenti e nelle attuali regole tecniche – ancora insista sulla territorialità del dato e soprattutto su un controllo effettivo del nostro patrimonio, in modo da garantire quella fede pubblica che gli archivi pubblici (anche se digitali) dovrebbero continuare ad assicurare?
Ancora più di App, AI, Blockchain, machine learning (…), uno dei concetti chiave della rivoluzione digitale dovrebbe essere proprio quello di “archivio” (per quanto poco attraente e poco anglofono) e i diversi “esperti di digitale” che si affacciano sul campo dovrebbero dimostrare quantomeno padronanza delle nozioni proprie dell’archivistica, dell’informatica giuridica e, perché no, della diplomatica digitale. È un problema di competenze, che genera una dilagante mancanza di consapevolezza, controbilanciata –ca va sans dire– da una strabordante presenza di bollini e riconoscimenti inutili.
Ecco perché oggi spesso si confonde -e si pensa di poter sostituire- il servizio offerto dai poli archivistici regionali e dai conservatori accreditati con i servizi offerti da piattaforme cloud, magari estere.
Rendiamoci conto che il vero investimento è quello utile a garantire un presidio reale e sicuro al patrimonio informativo nazionale attraverso la realizzazione di valide infrastrutture di gestione e conservazione, ossia di sistemi realizzati (o esternalizzati) tenendo conto di strumenti normativi e operativi, seguendo modalità di applicazione che rispettino adeguati standard di sicurezza. Nulla a che vedere con la messa a disposizione di app più o meno funzionanti all’interno di una piattaforma cloud.
Nel Piano non ci sono precise risposte a queste domande che sono strategiche per il futuro della nostra memoria digitale, anche se la timida affermazione di essere orientati nelle proprie politiche nazionali verso un cloud unico italiano federato con l’Europa, secondo un modello che adesso tende a chiamarsi di “sovranità digitale”, fa ben sperare.
La vera parolina magica è “competenza”
La vera complessità di questa rivoluzione passa proprio da qui: non abbiamo bisogno di teorici e filosofi sempre più astratti e distaccati, o al contrario da neofiti abbagliati dalle “novità”, ma c’è bisogno di professionisti preparati e seri, in grado di contribuire alla progettazione degli spazi digitali della società, che non sono i social, ma piuttosto le infrastrutture archivistiche, cruciali per la società dell’informazione.
Se i pionieri dell’innovazione digitale, quelli veri, purtroppo sono caduti oggi in profonda depressione, tutto quello che possiamo fare, più che cercare di puntare a tutti i costi alla “rivoluzione”, è di assumerci la responsabilità, oggi, di scelte che sicuramente risulteranno fondamentali per la corretta preservazione nel tempo della nostra memoria storica, evitando pericolose banalizzazioni dei processi di evoluzione digitale.
La speranza che la rivoluzione stia davvero per partire, come dovrebbe, ossia dal “basso”, sembra questa volta sul punto di concretizzarsi, come si è sempre auspicato: procedendo insieme e con competenze responsabili.
Questo è quanto chiedo al nuovo anno che verrà.