Il dottor Annthok Mabiis ha annullato tutte, o quasi, le memorie connesse della galassia per mezzo del Grande Ictus Mnemonico. “Per salvare uomini e umanidi dalla noia assoluta” perché le memorie connesse fanno conoscere, fin dalla nascita, la vita futura di ciascuno, in ogni particolare. La Memory Squad 11, protagonista di questa serie, con la base di copertura su un ricostruito antico bus rosso a due piani, è incaricata di rintracciare le pochissime memorie connesse che riescono ancora a funzionare. Non è ancora chiaro se poi devono distruggerle o, al contrario, utilizzarle per ricostruire tutte quelle che sono state annientate, se devono cioè completare il lavoro del dottor Mabiis o, al contrario, riportare la galassia a “come era prima”.
Parlottolare. Passeggialare. Sedileggiare. Sfoglialeggere. Amoreggiare. L’erba per secoli rasata. Panchine in tufo. Infrescano i polpacci. Nubi acquietate. Voci saporite. Foglie frissanti. Il parco assuefatto. I campi avvolpanti. Gattanti. I grilli parlanti.
Il bus rosso assopiva all’ombra. L’agente Sama Hargo, della Memory Squad 11, analista del linguaggio e delle memorie: “Vedete quel nonnetto laggiù, sulla panchina? Quello sta creando qualcosa con la sua robo-piastrella… vuol dire che là ci sono ancora memorie connesse… nella piastrella e nel collo del vecchietto… Creare è l’atto più consolatorio che ci sia… dopo siamo pronti anche a morire.” Verbava Sama Hargo. Anelava consenso. Lisciava le paure.
Stefano Magli, l’agente di Memoria Antica della squadra. Verboso. Lezioncinico. Forbiva:
“Ora non si usa più. Ci fu un tempo, nella seconda metà dei ventunesimo secolo, che tutti, prima di leggere e di scrivere, imparavano a programmare, a creare software… Era una mania collettiva. Che cosa ridicola! Tutti dovevano saperlo fare… solo perché qualcuno, programmatore precoce, era diventato miliardario… di soldi… al tempo c’erano ancora i soldi… digitali, così li chiamavano…” gli agenti assonnavano.
Magli contrappuntava. Blablabicchiava. Sciorinava: “Ma poi nei secoli successivi, fino ai nostri giorni, bastava parlare alle macchine, con il linguaggio naturale, senza codici, senza linguaggi di programmazione e le macchine capivano perfettamente quello che volevi e lo creavano… oggi senza memorie connesse, o con le poche rimaste ancora funzionanti, non si può fare più così… per costruire qualcosa si è tornati a dover programmare le macchine… ma quel vegliardo laggiù, quello deve avere ancora tante belle memorie connesse…”
Il parco acclamava scivoli. Accocolava infanti. Due squadre pallonavano a mezz’aria. I tronchi accasavano le schiene. Da mille anni prima.
“Come ti chiami?” s’avvicinava l’agente Stefano Magli.
“Jenpet, mi chiamo Jenpet”
“Che stai facendo?” L’agente Magli gli sforò la nuca con una mano.
“Non lo so ancora… ho una mezza idea… ancora grezza, però…” Jenpet dileggiava.
“Ma la robo-piastrella funziona ancora?… perché dopo il grande ictus mnemonico… le memorie connesse dovrebbero essere state tutte staccate… morte… e forse le robo-piastrelle di ciascuno di noi non lavorano più… non ci sentono più… sono sorde… è inutile che le comandiamo…” Magli brancolava le memorie. Magli ammagliava le vene di Jenpet.
“Forse…” Jempet vedeva il lume in fondo alla balena.
“Ti è venuto in mente qualcosa, vero?… vedo una luce nei tuoi occhi! Dillo ad alta voce… vediamo cosa salta fuori dalla robo-piastrella!” Magli arruffianava. Il parco assiepava. Gli occhi affollati. I respiri raggrumati. I piccoli eventi sanno di eternità.
Jenpet recitava: “Allora… vediamo, cara piastella! Vorrei fosse alto ma non troppo, che abbia tempo di crescere ancora un po’… una faccia tonda, la voglio tonda e sana! Gambe magre e scattanti… mettiamogli anche dei bei piedi, resistenti… e… ah già il naso!” giaculatoriava.
La robo-piastrella era immobile. Inane. Nell’erba verde.
Jenpet intagliava assorto uno smagliante Pinocchio.
(112 – continua la serie. Episodio “chiuso”)