Tra le varie polarizzazioni che oggi caratterizzano le popolazioni di ogni latitudine, ce n’è una relativamente recente: i “tecno-entusiasti”, caratterizzati da sentimenti di accettazione piena e incondizionata verso i nuovi media, e i “tecno-diffidenti”, che vivono gli oggetti tecnologici con ostilità e, a volte, addirittura con apprensione, come avviene per le persone “tecno-fobiche”.
Da una parte, l’ideologia tecno-ottimistica viene inevitabilmente sospinta dalle Big Tech e in particolar modo dalle “GAFAM” (l’acronimo di Google, Apple, Facebook, Amazon e Microsoft) e dalle loro singolari “economie dell’attenzione e della dopamina”, che varie ricerche confermano rappresentare una potenziale fonte di problematiche per la salute degli individui e per il conseguente impatto sulla collettività.
Dall’altra, il movimento tecno-scettico rischia di risultare anacronistico e poco efficace come antidoto alle tossine digitali diffuse dalle app costruite scientemente per riprogrammare le nostre abitudini quotidiane, al semplice scopo di sopravvivere e, di conseguenza, di far vivere vite sontuose e sui generis ai propri creatori.
Salute mentale, i governi contro le Big Tech: approcci e strumenti per limitare i danni
Tecnologie e problemi di salute psicofisica e sicurezza personale
In effetti, non possiamo non notare che questo tsunami tecnologico permanente sta acuendo esponenzialmente i nostri problemi di salute psicofisica e sicurezza personale.
Un’ulteriore complicazione per i nostri corpi e le nostre menti è che la società non potrà che aumentare il consumo digitale. Partendo da questo assunto, sarà fondamentale riuscire a regolare soggettivamente – e parallelamente regolamentare pubblicamente – l’uso di piattaforme e dispositivi che possono nuocere alla salute di adulti e minori; questi ultimi ancor più facilmente danneggiabili da usi impropri o abusi.
Se pensiamo che, da una rilevazione di Skuola.Net del 2021, 6 giovani su 10 sono connessi dalle 5 alle 10 ore al giorno e quasi 1 su 5 è pressoché sempre connesso, è irrinunciabile invitare con fermezza genitori e insegnanti, professionisti della salute mentale e legislatori a formarsi prima e a intervenire poi, nelle rispettive aree di azione.
Adulti consapevoli per formare i giovani a rischi e vantaggi del digitale
Queste figure di riferimento sono chiamate, infatti, all’inedita responsabilità – spesso sottovalutata o addirittura ignota – di sviluppare una nuova consapevolezza sui preoccupanti rischi provenienti dai tecno-disturbi emergenti – dal tecnostress alle tecnodipendenze –, ma anche sulle straordinarie opportunità per il benessere generate dalle innovative psicotecnologie e neurotecnologie.
Il vaccino più adatto da somministrare in questa “pandemia digitale”, infatti, non può che essere un apprendimento specifico che ci traghetti verso una nuova era di adulti consapevoli. La proposta formativa potrebbe essere rappresentata da un’evoluzione psicologica del concetto di “educazione digitale”, estendendolo a una più ampia “educazione psicodigitale”, foriera di contenuti che facciano comprendere gli impatti psicologici – e in alcuni casi psichiatrici – della pletora di applicazioni che bramano la nostra attenzione, le nostre identità e i nostri corpi, insieme alle molte possibilità di orientare il digitale verso il benessere.
E dato che le aree del cervello responsabili del controllo cognitivo e della funzione esecutiva si sviluppano completamente solo intorno ai 25 anni, è essenziale che le generazioni più mature accompagnino quelle meno esperte in questo nuovo percorso educativo.
Troppo spesso, però, quando si tratta di digitale, avviene esattamente il contrario…
I baby docenti digitali della famiglia smartphone-centrica
Partiamo dai genitori, sempre più in ombra nella famiglia smartphone-centrica, guidata da precoci insegnanti digitali che istruiscono mamme e papà troppo spesso ignari dei molteplici pericoli legati a un uso precoce e massiccio di dispositivi hardware (soprattutto smartphone e console) e di piattaforme software (soprattutto social media e videogame).
Non solo. Spesso, gli oggetti digitali fungono da babysitter sostitutivi che portano con sé minacce importanti, soprattutto di ordine fisico, comportamentale, relazionale e di sicurezza, a causa di fenomeni quali il cyberbullismo, le challenge estreme, la pornografia esplicita, il grooming, solo per citarne alcuni dei più noti.
Per non parlare delle continue interruzioni alle interazioni tra genitori e figli, generate dalla frenetica attenzione al digitale, che, alla lunga, potrebbero creare una profonda distanza affettiva. È emblematico il fenomeno del “brexting” (dalla crasi delle parole “breastfeeding”, allattamento e “texting”, sms), in cui le madri, durante l’allattamento, rinunciano al basilare contatto visivo con gli occhi del neonato, a favore dello scorrimento infinito del social di turno.
In sintesi, l’ingenuità genitoriale, frequentemente legata a un comprensibile bisogno di evasione, può fare molto male al rapporto con i più piccoli, rischiando di affermarsi come il principale pretesto di incomunicabilità famigliare.
Insomma, la supervisione della vita online dei minori è ormai essenziale tanto quanto quella offline, così come la capacità di orientarli verso forme di passioni – anche digitali – sane e in linea con i loro reali desideri esistenziali, che rischiano di essere distratti dalle ricompense illusorie dei variegati mondi digitali a cui appartengono.
Insegnanti di cittadinanza digitale
A partire dall’anno scolastico 2020/2021, il Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca (MIUR) ha definito le linee guida per l’insegnamento dell’educazione civica, materia da integrare a tutti i gradi di istruzione, a partire dalle scuole dell’infanzia. Tra gli assi portanti, c’è la cittadinanza digitale, che descrive la capacità di un individuo di usare consapevolmente, criticamente e responsabilmente i nuovi mezzi di comunicazione, favorendo condotte informate in Rete che tutelino il benessere e promuovano l’inclusione sociale.
Questi contenuti stanno lentamente entrando nelle scuole italiane, ma rischiano di essere già parziali e di necessitare di un maggior taglio psicologico che le conduca verso la già citata “educazione psicodigitale”.
Possiamo notare che moltissimi studenti sono affascinati dall’intersezione tra materie digitali e discipline psicologiche, dunque, una “educazione psico+digitale” che approfondisca i vari aspetti tecnologici a danno e a favore della salute mentale, potrebbe riscontrare un buon gradimento.
Con un’adeguata formazione, quindi, i nativi digitali potrebbero evolversi rapidamente in “nativi psicodigitali” capaci di identificare prontamente i tecno-pericoli e le tecno-opportunità per il loro benessere psicofisico.
I manager della “great resignation”
Negli Stati Uniti – ma non solo – stanno proliferando i provider di servizi di salute mentale per i dipendenti di aziende convenzionate, le cui Risorse Umane sono sempre più consapevoli della necessità di prevedere forme di assistenza psicologica nei programmi di welfare aziendale.
Da una parte, i manager iniziano a comprendere la portata delle nuove problematiche di origine digitale, dal tecnostress (peraltro parte dell’obbligo di valutazione dei rischi) alla Zoom fatigue fino al burnout digitale.
Dall’altra, i referenti HR si stanno orientando verso valutazioni e opzioni innovative sugli interventi per il benessere psicologico dei lavoratori, prevalentemente a seguito delle conseguenze negative da pandemia.
Un’indagine di McKinsey del dicembre 2020 intitolata “Mental Health in the Workplace: the Coming Revolution”, ha evidenziato che 9 manager su 10 sanno che i disagi mentali portano a una riduzione della produttività e a maggiori costi per l’azienda.
In un’analisi post-survey del giugno 2021 “Millennials and Generation Z – Making Mental Health at Work a Priority”, Deloitte invoca i leader aziendali a dare priorità alla salute mentale, anche a fronte del fenomeno della “Great Resignation” (le grandi dimissioni) avvenuto negli Stati Uniti (ma anche in altri Paesi, tra cui l’Italia, seppur in misura minore), che ha alterato tutti i programmi di “talent retention”, ovvero la capacità di un’organizzazione di trattenere i propri talenti.
I legislatori della salute mentale
I legislatori faticano ad acquisire consapevolezza su queste tematiche pervasive che stanno trasformando strutturalmente le abitudini umane e, di conseguenza, ad avvertire la necessità di regolamentarle.
Sarebbe essenziale conoscere, per esempio, le tecniche comportamentali alla base degli algoritmi che pilotano numerosissimi software, che bramano engagement piuttosto che salvaguardare la salute mentale e la convivenza civile.
Gli effetti collaterali sono molteplici, dal portare a forme di dipendenza e assuefazione più o meno resistenti, sino a polarizzazioni di massa che contribuiscono a generare pericolose contrapposizioni, con un’alta probabilità di degenerazione.
Oggi il compito delle Istituzioni non può limitarsi alla disponibilità infrastrutturale per superare il cosiddetto “digital divide” (divario digitale), ma dovrebbe estendersi verso misure di protezione psicologica dei giovani dall’aggressione digitale e, possibilmente, verso indicazioni per l’utilizzo dei dispositivi per incrementare la propria salute.
A sigillo di questo percorso, sarà opportuno definire una cornice normativa a favore dei progetti di salute digitale ritenuti metodologicamente più solidi e più credibili dal punto di vista dei contenuti (come peraltro avviene già in Paesi quali Stati Uniti e Germania).
Il tecno-scetticismo di psicologi e psicoterapeuti
Numerosi professionisti della salute mentale sono convinti che la tecnologia sia un fattore marginale e facilmente escludibile dalla prassi terapeutica, spesso non rendendosi conto che anche le psicopatologie tradizionali si stanno evolvendo verso una versione contaminata dal digitale. D’altra parte, queste stesse tecnologie, se ben conosciute e adottate con perizia, potrebbero generare un maggior coinvolgimento attivo nei pazienti/utenti e un minor tasso di abbandono dei percorsi di cura, oltre a inedite opportunità di potenziamento analogico delle persone.
Mai come oggi, quindi, psicologi, psicoterapeuti, psichiatri, ma non solo, sono chiamati a un’accelerazione digitale della loro pratica professionale, rispondendo a una sfida centrale per il loro futuro. Questa intraprendenza contribuirà, inoltre, ad abbattere le barriere tra specialisti e pazienti/utenti, garantendo un maggior accesso all’assistenza e generando un terreno fertile per rendere queste figure sempre meno stereotipate e le persone sempre meno timorose ad affidarvisi.
Naturalmente l’esperienza digitale non deve sostituirsi né all’esperienza reale, né tantomeno al professionista, ma può essere usata come utile complemento per migliorare gli attuali interventi di empowerment, di supporto psicologico e di psicoterapia, anche grazie a nuove forme di alleanza terapeutica, soprattutto con i più giovani, come dimostrato, per esempio, dai percorsi che utilizzano i videogiochi.
Conclusioni
Le informazioni in parte allarmanti sulle dipendenze tecnologiche e sullo stress mentale tecno-derivato (dalla dipendenza dal gaming online all’Internet Addiction Disorder, dal tecnostress alla Zoom fatigue, solo per citarne alcune) e in parte rassicuranti sulle potenzialità psicologiche digitalmente mediate (rilassamento immersivo, videoterapie, psicoeducazione digitale, psicodiagnostica digitalizzata, ecc.), confermano che l’“alfabetizzazione digitale alla salute mentale” è un passaggio irrinunciabile per tutte le figure di riferimento della società.
In uno scenario in cui mondi fisici e virtuali si stanno progressivamente fondendo, tanto che si stanno affacciando prepotentemente le realtà parallele del metaverso, nei prossimi anni non solo cambierà il modo di fruire di Internet e dei suoi innumerevoli servizi, ma verrà rivoluzionata l’intera esperienza umana, portandola verso un’aumentazione senza precedenti, sino a oggi riconducibile alle dimensioni della fantasia.
In conclusione, la cultura ipertecnologica medievale contemporanea necessita di essere superata con risposte risolute, nella direzione di un rinascimento, un nuovo umanesimo digitale, che riconosca la centralità della persona nei processi di innovazione.
*Luca Bernardelli è autore del libro “Guida psicologica alla rivoluzione digitale”