Nell’era della quarta rivoluzione industriale si riaffaccia prepotente la questione dei grandi monopoli e lo spettro di un capitalismo sempre meno interessato a innovare, come denunciato di recente dal Fondo Monetario Internazionale.
Le grandi aziende, in particolare quelle che lavorano con la principale risorsa del terzo millennio – la conoscenza – si arricchiscono accaparrandosi le risorse (i nostri dati), le startup più innovative (spesso sostenute dai Governi con piani di investimento a fondo perduto) e i talenti più promettenti (formati in scuole e università pubbliche); accumulano ricchezza a colpi di lobbying e grazie a sistemi di elusione fiscale sempre più sofisticati, come ribadito al recente World Economic Forum di Davos (anche tramite una ricerca di Oxfam).
Al dibattito sollevato dai principali media, da premi Nobel e studiosi a livello mondiale, si aggiunge anche l’allarme del Fondo monetario internazionale: per favorire crescita, competizione e innovazione bisogna ridurre le concentrazioni e attivare meccanismi di redistribuzione della ricchezza più equi e democratici.
E per farlo potrebbe essere determinante una forte ripresa della partecipazione pubblica (Sul modello della Cina?) e una legislazione in grado di cambiare le regole, come fu a suo tempo lo Sherman Act.
Sherman Act: applicazione e sviluppo dell’innovazione
Il 2 luglio del 1890 veniva approvato lo Sherman Act, la più antica legge contro i monopoli e i trust degli Stati Uniti e il punto di riferimento legislativo per tutto il mondo occidentale nella regolazione del mercato e della concorrenza. Il senatore repubblicano Sherman (nella storia dei partiti negli Stati Uniti non è sempre facile attribuire la patente di “progressisti” e “conservatori” solo ad una parte) aveva combattuto molti anni della sua vita affinché il mercato fosse regolato, nella convinzione che non esiste mercato senza regole semmai una buona o una cattiva regolazione.
Sono dovuti passare diversi anni (1911) prima che venisse applicata, contro la Standard Oil per impedire che la risorsa principale dell’industrializzazione di inizio secolo soggiacesse sotto un monopolio del petrolio. Questo contribuì in modo rilevante allo sviluppo e all’innovazione dell’industria dell’energia, alla competizione e alla concorrenza così come all’innovazione nel settore. La Standard Oil aveva integrato orizzontalmente e verticalmente il settore del petrolio, innovato il marketing e la produzione fino a controllare la ricerca e sviluppo.
Nel 1984 l’applicazione dello Sherman Act alle telecom ha posto fine al monopolio della AT&T permettendo così lo sviluppo delle comunicazioni e Internet per come la conosciamo. L’AT&T aveva integrato le attività del settore in modo talmente elevato da controllare qualsiasi innovazione legandola alla dinamica di crescita dei propri profitti. Molte innovazioni e investimenti hanno permesso lo sviluppo e la crescita dell’informatica come la conosciamo. Infine, negli anni ’90 lo Sherman Act è stato applicato contro lo strapotere di Microsoft Internet Explorer aprendo il mercato a Google e alle big tech attuali.
Un capitalismo sempre meno interessato a innovare
La concentrazione in poche mani delle risorse fondamentali dell’economia del tempo, il petrolio come le telecomunicazioni, avevano provocato una minore capacità di innovazione, di crescita e di sviluppo della società. Il FMI in alcuni recenti studi segnala che la nostra società, in particolare negli ultimi 10-15 anni, ha ridotto la capacità di innovazione e ha aumentato notevolmente la concentrazione dei profitti in poche mani.
In particolare, 1980 ad oggi i profitti nei paesi più avanzati sono aumentati del 40% con una relazione direttamente proporzionale con la concentrazione del mercato in poche aziende. Di contro lo studio evidenzia come inizialmente la relazione tra profitti e maggiori investimenti in innovazione è stata diretta ma in seguito la capacità e intensità di innovazione è drasticamente calata a fronte di una impennata dei profitti. E questa relazione è tanto più marcata quanto più le aziende sono vicine ai settori della tecnologia di frontiera. L’aumento del “markup” è inversamente proporzionale agli investimenti e all’innovazione.
È un mondo più iniquo nell’era digitale: il punto sugli studi
Poche grandissime aziende hanno integrato ricerca, sviluppo, produzione, marketing, vendita diretta, in particolare quelle che lavorano con la principale risorsa del terzo millennio: la conoscenza. Il Fondo lancia l’allarme di un capitalismo sempre meno interessato ad innovare.
D’altra parte, le big tech (vale anche per le big pharma) hanno integrato sotto un’unica azienda o gruppo di aziende la capacità di ideare, produrre e vendere risorse fondamentali non di rado facendole proprie a buon mercato.
Finanza internazionale, elusione fiscale, lobbying
Finanza quasi illimitata con la capacità di raccogliere investimenti in borsa, gestire enormi flussi di cassa, integrando la tesoreria aziendale e trasformandola in una vera e propria banca o sistema di pagamento internazionale. La Banca mondiale nel suo report “Cambiamenti nel mondo del lavoro” (2019) dedica un capitolo alla elusione fiscale e a come essa sia cresciuta, attraverso sistemi sempre più sofisticati utilizzando da una parte attività di lobbying sugli Stati o gli spazi economici (ad esempio quello europeo) e dall’altra l’incapacità degli Stati di contrastare la finanza internazionale senza rimettere in discussione i trattati internazionali del commercio. La capacità di controllare la finanza da parte dei grandi gruppi consente loro di inglobare sul nascere potenziali concorrenti attraverso l’acquisizione di startup e, dove non sia sufficiente, imponenti azioni legali (vedi Apple vs Samsung ad esempio) insostenibili senza enormi risorse.
I dati, “petrolio” del millennio
Con la capacità di raccogliere dati a tutti i livelli, quelli pubblici potendo utilizzare enormi “data lake” di open data a costo zero (sarebbe da fare una riflessione su quanti di noi hanno spinto per rendere pubblici i dati nella convinzione che ciò potesse aprire nuove opportunità di mercato), i dati personali ormai in balia dei giganti (creando una vera e propria “società della sorveglianza”), i dati delle transazioni finanziarie o della pubblicità che passa tramite loro, i nostri interessi e le nostre relazioni sociali attraverso i social network, perfino le opinioni politiche e i “sentiment”. Chi non si è accorto che dopo aver parlato con amici di un argomento o della intenzione di fare un acquisto, quasi “magicamente”, cominciano a comparire annunci di quel prodotto o inerenti a quel desiderio. D’altra parte, siamo costretti a dare il consenso al nostro telefono di controllare ogni azione e perfino di ascoltare la nostra voce interpretandola. I segreti privati di Capi di stato, ministri della difesa, istituzioni di vario livello potrebbero essere a disposizione delle big tech con una facilità che solo 40 anni fa sarebbe sembrata impossibile nell’era delle telecomunicazioni di Stato.
Il capitale umano
I talenti, con la capacità unica di attirare persone straordinarie formate spesso in scuole e università pubbliche e di costruire intorno ad esse ambienti accoglienti e motivanti. Estraendo da loro know-how, motivazione, e determinazione a costruire soluzioni e prodotti in grado di produrre valore ma anche evitando che possano creare prodotti che possano contrastare gli interessi degli azionisti. Spesso i talenti sono il frutto di investimenti pubblici, di programmi per incentivare il capitale umano e la formazione, per creare persone sempre migliori in grado di costruire società migliori. Il rapporto della Banca Mondiale già citato affronta molto il tema della formazione per lo sviluppo e la crescita positiva della nostra società, queste grandi aziende della conoscenza sono le uniche in grado di prendersi i talenti migliori a costi non troppo elevati considerando quelli che sostengono gli Stati e l’intera società per formarli e selezionarli.
L’open source
Perfino l’open source è diventata una risorsa di cui poche grandi aziende si sono appropriate a costo zero.
John Mark, economista e molto legato al mondo open source, in un recente articolo mette in guardia e denuncia come l’immensa fabbrica del software diffuso rappresentata dalla comunità open source non sia più un patrimonio di conoscenza condivisa e disponibile a tutti ma sia diventata una modalità a buon mercato di concentrare i profitti estraendo valore a poco prezzo nei giganti del cloud. Lancia un grido di allarme e proposte per contrastare questo modello. Per chi come me ha sostenuto e sostiene il software open source si apre la necessità di una riflessione critica e una correzione di rotta.
Le startup
Le startup spesso sono acquisite quando diventano “pericolose” o creano prodotti e/o modelli di business che possono erodere parte delle filiere dei big. Gli Stati investono sempre più denaro per far crescere startup e lo fanno a “fondo perduto” e quelle veramente interessanti vengono inglobate dai grandi player, con il risultato che lo Stato sostiene solo i costi e non entra mai nei profitti, nemmeno nei casi di exit. La Francia di Macron, per fare un esempio, con il suo imponente programma di sostegno alle startup, non sembra aver colto ancora alcun vantaggio competitivo come sistema paese. Mentre negli Stati Uniti si è aperto un dibattito interessante su vincitori e vinti.
Ridurre le concentrazioni per favorire l’innovazione
Stiamo assistendo in generale alla crescita di una concentrazione di aziende in grado di integrare il software, l’hardware e il digitale in modo verticale e orizzontale. Che sono in grado di raccogliere pubblicità, produrre serie cinematografiche, trasformarsi in banche e istituzioni finanziarie, produrre sistemi operativi, hardware, CPU, gestire servizi di datacenter su scala globale, dominare l’intelligenza artificiale, la ricerca e sviluppo, “hackerare” i sistemi fiscali degli stati e le loro legislazioni affinché amministrazioni cittadine o stati facciano di tutto per attirare la localizzazione delle loro sedi (basta vedere cosa è accaduto con la seconda sede di Amazon in molte città degli Stati Uniti).
A nulla possono le legislazioni statali possono scalfire alcuni meccanismi di elusione fiscale o applicare alcune multe nei casi più evidenti di comportamento anti-concorrenziale ma rimane il fatto che le big tech appaiono perfino complementari nei loro business, poche sono le sovrapposizioni e anzi spesso vediamo delle vere e proprie collaborazioni. L’una che fa pubblicità sull’altra o che chiude un accordo di utilizzo della stessa piattaforma tecnologica (come recentemente Microsoft con Amazon per Alexa).
Negli ultimi anni il dibattito è diventato rilevante, i principali media di settore come fortune, guardian, cnbc, the economist così come premi nobel o professori riconosciuti a livello internazionale come Mariana Mazzucato hanno posto forte l’accento sulla necessità di un mercato meno concentrato per favorire crescita, competizione e innovazione.
Come ci siamo arrivati
Sia ben chiaro, questa concentrazione è anzitutto il frutto dell’incapacità di molto del management e degli azionisti delle altre società di comprendere la rivoluzione digitale. Mentre sui media internazionali il management di molte aziende sta cercando di capire la differenza tra Blockchain e intelligenza artificiale le big tech applicano algoritmi e tecnologie sofisticatissimi da anni, con una capacità di fare strategie aziendali, ricerca, tecnologie, innovazione imparagonabili. I manager delle big tech, non sempre il frutto delle più blasonate università o delle più autorevoli società di consulenza, sono stati capaci di avere visione e coraggio di innovare.
Questo vantaggio accumulato non è il frutto di comportamenti scorretti ma di una maggiore capacità di movimento e di sfruttare la legislazione esistente a vantaggio del proprio profitto, un comportamento più che lecito in un sistema capitalistico. Bisogna prendere atto che i primi sconfitti sono gli azionisti e il management delle altre aziende che arrancano a fatica ad inseguire i leader, anche se oggi le distanze sono talmente alte che è impossibile perfino inseguire.
L’esempio della Cina
L’unica area economica che ha retto il passo con questa concentrazione è la Cina, dove aziende altrettanto grandi e altrettanto capaci si sono sviluppate velocemente sotto la guida della pianificazione di stato e oggi sono in grado di competere al pari livello, se non di più, delle big tech. La Cina non rappresenta un modello nei diritti umani e nella democrazia anche se dal punto di vista economico ha saputo trasformare una economia a bassa specializzazione produttiva in una economia in grado di competere sul piano dell’innovazione. Non possiamo trasformarci come la Cina ma possiamo cogliere esperienza. La capacità di investimento, la presenza di una banca di stato e di una politica industriale autonoma e forte, un forte investimento nei talenti e in ricerca e sviluppo gli hanno permesso di chiudere il gap con le big tech in poco tempo.
Se vogliamo scongiurare gli scenari disegnati dal FMI di un capitalismo incapace di innovare e crescere redistribuendo in modo più equo e democratico della ricchezza è necessario che si apra una riflessione sugli ultimi decenni e sulle regole che li hanno determinati.
Mariana Mazzucato nel suo libro “Lo Stato innovatore” mette in rilievo come molte delle innovazioni che oggi stiamo utilizzando sono il frutto di un intervento diretto o indiretto dello Stato, la strada intrapresa dalla Cina sembra confermare ciò che i suoi studi sostengono. Forse solo una ripresa forte della partecipazione pubblica, unita all’applicazione di una legislazione che possa modificare radicalmente le regole come fu lo Sherman Act, potrebbe consentirci di recuperare il terreno perduto, di mettere in gioco nuovi player in grado di investire e gestire adeguatamente le risorse della conoscenza per lo sviluppo. D’altra parte, la fortuna della storia del capitalismo e della sua crescita è spesso dovuta alla spesa pubblica, ad interventi diretti dello Stato, a politiche industriali che hanno saputo plasmare l’economia lasciando libere le forze dell’innovazione in un contesto di regole comuni. La Banca mondiale, e non solo lei, si spinge ad evidenziare come sistemi sociali in grado di essere più equi e di fornire più welfare sono più adatti a sostenere le necessità della società. Un cambio di paradigma rispetto agli anni nei quali abbiamo creduto che non esistessero società ma solo individui.
Ci troviamo in un momento della storia nel quale ci sono i segnali che il vecchio mondo non regge e non siamo in grado di vedere un nuovo mondo emergere.