la riflessione

Platone, il Metaverso e la realtà virtuale: ecco perché siamo già immersi nell’imitazione

Il problema della realtà virtuale è stato già da posto da Platone nel suo capolavoro La Repubblica, in cui si parla del concetto cruciale di mímesis, «imitazione»: ecco come e perché il Metaverso ci allontana dalla realtà

Pubblicato il 25 Feb 2022

Giovanni Salmeri

Università degli Studi di Roma Tor Vergata

realtà virtuale

Che Platone sarebbe stato molto interessato al Metaverso già lo abbiamo visto, e abbiamo anche ipotizzato che la sua reazione sarebbe stata molto meno scandalizzata di quanto a prima vista si potrebbe immaginare. C’è però un secondo aspetto sul quale egli probabilmente avrebbe avuto molto da dire: il ruolo che nel Metaverso è giocato dalla realtà virtuale: un ruolo tanto importante che nella presentazione della nuova frontiera di Meta viene collocato al primo posto.

Il Metaverso come la caverna di Platone? Il vero mondo è altrove

La repubblica di Platone e la Realtà virtuale

Il motivo del suo interesse è molto facile da spiegare anche in questo secondo caso. Se volessimo cercare una definizione ampia e comunemente accettate di realtà virtuale, probabilmente potremmo dire che essa è la rappresentazione e percezione di una realtà simulata e delle sue caratteristiche sensoriali, in modo tale che l’utente abbia l’illusione di essere presente ad essa, ed eventualmente con essa interagire. Platone di fronte a questa definizione potrebbe con un sorriso di soddisfazione replicare che il problema della realtà virtuale è stato allora già da lui posto, e in particolare affrontato e discusso nel suo capolavoro La Repubblica. Il termine «realtà virtuale» ovviamente non compare, ma compare quello cruciale di mímesis, «imitazione». Imitazione è tutto ciò che non è la realtà stessa, ma appunto la simula, con lo scopo, a seconda dei casi, di trarre in inganno (un’imitazione di oro venduta per oro è ovviamente una truffa), oppure di divertire (un bravo imitatore comico cerca questo), oppure di decorare e arricchire (pareti affrescate con scene di una foresta e magari un bel cielo nel soffitto cercano questo).

Il problema, ritiene Platone, è che qualunque sia la finalità prevista dell’imitazione, essa allontana dalla realtà vera. Ciò può avvenire perché ne crea un surrogato che un po’ alla volta fa dimenticare l’originale: questa è per esempio più o meno la critica che egli rivolge alla scrittura nei confronti del dialogo orale, che essa vorrebbe imitare. Abituarsi a leggere e a scrivere può far dimenticare che la vera parola è quella viva, scambiata a voce, adattata al momento e alla persona, che permette quindi di «scrivere nell’anima» anziché sulla carta. Quest’ultima cosa al massimo può essere un gioco. Oppure l’imitazione può allontanare dalla realtà perché dipinge una realtà inesistente, e fa credere che essa sia quella vera: per questo Platone disdegna per esempio un’educazione (qual era quella del suo tempo) fondata sullo studio di poemi in cui gli dèi sono raffigurati come capricciosi e immorali. Ma se questo è vero, ogni imitazione va tenuta lontana il più possibile: neppure un’apparentemente innocua pittura sfugge a questo radicale difetto: quello, ripetiamo, di allontanare dalla realtà vera.

Anche il mondo in cui viviamo un’imitazione

Certo, come abbiamo già visto, secondo Platone anche il mondo in cui viviamo è in realtà un’imitazione, una copia sbiadita di un mondo vero che può vedere solo la nostra mente, o il nostro cuore, come direbbero i lettori del Piccolo Principe: l’essenziale è invisibile agli occhi. Ma ancor peggio sono le consapevoli e artefatte imitazioni di cui riempiamo le nostre vite, perché esse sono, dunque imitazioni di imitazioni. Sarebbe questo per Platone un motivo per condannare il Metaverso? Ancora una volta, ci pare di no, sarebbe anzi un motivo per lodarlo: finalmente, direbbe, l’aspetto temibile dell’imitazione compare in tutta la sua ampiezza, ora chiamata sotto il nome di «realtà virtuale», un nome che tuttavia allude al fatto che ormai che cosa sia davvero realtà diventa sempre più incerto.

La questione, tuttavia, è anche qui più complessa di come appare. Anzitutto lo è dal punto di vista della storia dell’informatica. Che la realtà virtuale sia solo una recente applicazione della tecnologia informatica è fortemente da porre in dubbio. Il celebre e mai troppo poco citato libro di Ted Nelson che nel 1974 consacra la nascita dell’informatica creativa personale portava il titolo (doppio, come doppio era il volume) di Computer Lib / Dream machines: «Liberazione del computer» e «Macchine da sogno». Ma perché i computer potevano avere questa suggestiva qualifica? Perché essi (all’epoca in maniera incipiente ma già chiara) spalancavano frontiere prima insospettate nel campo, per esempio, dell’elaborazione digitale delle immagini, o della riproduzione ed elaborazione del suono.

È in questa sezione che Ted Nelson divulga anche la sua idea di ipertesto, che in maniera semplificata molti anni più tardi darà vita alla rete come la conosciamo ora, ma aggiungendovi anche l’idea di ipermedium, il concetto cioè di un intreccio di immagini, video, suoni, testi. Il tono di Ted Nelson è entusiasta, quasi profetico: le nuove frontiere che si spalancano sono meravigliose, purché si abbia la determinazione di prenderle in mano, di metterle al proprio servizio anziché lasciare che siano delle armi nelle mani di qualcun altro: «Noi viviamo nei media come i pesci vivono nell’acqua.

Molti sono prigionieri dei media, molti sono manipolatori, e molti vogliono usarli per comunicare visioni artistiche. Ma oggi, in questo momento, possiamo e dobbiamo progettare i media, progettare le molecole della nostra nuova acqua». Ma proprio in questo progetto di elaborazione creativa del nostro ambiente i computer giocano un ruolo centrale: i computer, prevede Ted Nelson, molto presto toccheranno ogni medium sensoriale e razionale. Previsione completamente centrata! Per questo, intelligenza ed emozioni dovranno essere completamente messe in gioco in questa nuova impresa umana: «è per la totalità dello spirito umano che noi dobbiamo progettare».

Tutti i metaversi a cui abbiamo fatto l’abitudine

Come spesso accade quando si leggono testi degli anni 60 e 70, il tono ottimista senza dubbio sorprende. Davvero è lecito essere così ottimisti? Una decina di anni più tardi Sherry Turkle comincerà a scrivere con preoccupazione dell’alterazione del senso della realtà indotto dai computer. Uno degli aneddoti più divertenti che racconta è quello di una bambina che vede per la prima volta alcuni pesci in mare ed esclama: «Come sono realistici!» Lo stupore proveniva dal fatto che essi assomigliavano moltissimo alle immagini che aveva visto al computer. Spontaneamente è facile sorridere dell’ingenuità della bambina, ma ad una riflessione più attenta alcune di queste inversioni sono così radicate che a stento ci facciamo caso. Mentre scrivo queste righe, sto ascoltando Franz Schubert con un paio di economiche cuffiette: quasi sicuramente (e con la complicità livellante di timpani non più ahimè giovanissimi) il modo con cui sto ascoltando questa musica è molto più dettagliato e preciso di come potrebbe avvenire per me in una comune sala da concerto. Se in questa dovessi ascoltare altrettanto bene, probabilmente penserei: «Che acustica straordinaria, sento bene come nelle cuffiette!». Il Metaverso annunciato è una straordinaria novità? In parte sì, forse. Ma fare un viaggio in un autobus romano con le sospensioni rotte ed essere però avvolti da un madrigale rinascimentale, trasmesso da una delle tante stazioni Internet ad alta definizione, cantato da invisibili soprani e contralti che immagini seduti accanto a te e rendono sopportabili perfino gli ingorghi nella periferia: non è questo già un incredibile Metaverso, a cui però abbiamo fatto l’abitudine?

Conclusioni

Mentre però si innalza un pensiero grato alla tecnologia e alle macchine da sogno che permettono di rendere piacevoli pure gli autobus romani, la questione di Platone (e di Sherry Turkle) continua a rimanere senza risposta: non è questo un modo di dimenticare la realtà, di affidarsi sempre più a simulazioni e sempre meno all’originale? E che cosa avviene quando questa imitazione va a toccare non solo un’atmosfera sonora, ma i rapporti umani, gli altri, la società? È solo un sogno dello spirito umano che si fa realtà (come voleva entusiasticamente Ted Nelson), o anche una narcosi che semplicemente rende tollerabile una realtà che, con tutta la sua bruttezza, ruvidità, rarità di bellezza, potrebbe essere cambiata, affrontata, perfino amata? Il problema è evidentemente sociale (non per niente Platone parla della mímesis nella Repubblica!), ma va a toccare anche aspetti squisitamente umani e personali.

Uno degli esempi fatti per il venturo Metaverso riguarda la possibilità di «creare» delle riunioni in cui la persona assente appare tridimensionale davanti a te, in una sorta di moltiplicazione di quella presenza a distanza a cui il buon vecchio telefono ci ha abituati da più di un secolo. Questo è certamente bellissimo. Ma viene da domandarsi se non si avvicina il giorno in cui sentiremo nostalgia anche della nostalgia che provavamo per l’assenza di una persona a cui vogliamo bene.

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