La tensione tra Amministrazione Usa e piattaforme social continua a crescere.
Nei giorni scorsi il Presidente Joe Biden ha rivolto un pesante addebito di responsabilità a Facebook, colpevole di contribuire alla diffusione di informazioni false e fuorvianti sui vaccini, al punto da determinare la morte di molte persone come diretta conseguenza della dilagante circolazione di fake news. “La disinformazione Covid su Facebook sta uccidendo le persone”: è questa la lapidaria accusa manifestata dalla Casa Bianca nei confronti di Zuckerberg.
A sostegno di tale tesi è stato anche citato il report “The Disinformation Dozen – Why platforms must act on twelve leading online anti-vaxxers” secondo cui, dopo aver analizzato più di 800.000 tweet e post di Facebook, la stragrande maggioranza della disinformazione e delle teorie cospirative contro i vaccini contro il Covid-19 avrebbe avuto origine da sole 12 persone che sarebbero state in grado di viralizzare, con accentuati effetti polarizzati, il seguito di ben 59 milioni di persone sui social.
La difesa di Facebook
Naturalmente non si è fatta attendere la risposta di Facebook che, con un esaustivo post, ha ribattuto punto per punto alle contestazioni mosse da Biden, ritenute prive di fondamento.
Il social network ha descritto nel dettaglio tutte le iniziative messe in campo per ridurre il rischio di fake news sui vaccini, con l’invito rivolto al governo USA di non “incolpare le società di social media americane” a fronte delle numerose attività realizzate per raccogliere e veicolare informazioni credibili e autorevoli e al contempo rimuovere “oltre 18 milioni di casi di disinformazione sul Covid-19” nonché “etichettare e/o ridurre la visibilità di oltre 167 milioni di contenuti Covid-19 smascherati” dai propri algoritmi nel contesto di una serie di provvedimenti e raccomandazioni su ciò che le aziende tecnologiche possono fare per aiutare le persone in stretta cooperazione con gli esperti sanitari mediante il costante aggiornamento dell’elenco delle false affermazioni individuate e monitorate secondo un elenco di regole pubblicamente diffuse.
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I motivi dietro l’atto di accusa ai social
Sembrano lontani i tempi in cui Biden, elogiando i risultati ottenuti durante la prima fase di vaccinazione della popolazione americana, annunciava trionfalisticamente l’imminente fine della pandemia, addirittura con l’intento di celebrare il 4 luglio come il “Giorno dell’Indipendenza dal virus”, nell’ottica di lasciarsi definitivamente alle spalle la situazione emergenziale.
La storia però è andata diversamente: il notevole aumento delle infezioni da coronavirus, unitamente al rallentamento del tasso di vaccinazione rispetto ai nuovi focolai registrati in alcune aree del Paese sta facendo crescere la preoccupazione dell’amministrazione al punto da non escludere il ripristino di misure restrittive necessarie per contenere la variante Delta più contagiosa.
Da qui l’atto di accusa nei confronti delle piattaforme social nonostante gli sforzi intrapresi, che sembrano ritenuti insoddisfacenti dalla Casa Bianca, sempre più esplicita e intransigente a pretendere un maggiore impegno da parte dei social network nella ricerca delle notizie false e nella rimozione della disinformazione rilevata, dopo l’invio di una lettera aperta di Biden a Mark Zuckerberg per esortare la sua azienda a fare di più nel combattere la disinformazione politica.
La lotta alla pandemia si sposta così sui binari dialettici della contrapposizione tra apparati statali (sempre affetti dalla sindrome dell’autoassoluzione in quanto immuni da errori e responsabilità, come portatori di scelte inconfutabili orientate al bene comune e intangibile della collettività), e aziende tecnologiche (emblema del “male assoluto” del secolo, come promotori – anche indirettamente – del seme informativo della falsità che germoglia online senza controllo).
I social, un capro espiatorio?
La narrazione destinata al circuito mediatico ha così individuato già ora e con largo anticipo l’ultimo – in ordine cronologico – “capro espiatorio” da offrire alla gogna pubblica dell’agorà sociale nell’eventualità di sopravvenuti peggioramenti del tasso dei contagi e dei decessi imputabili anche a un possibile insuccesso della campagna vaccinale, senza però considerare l’enorme stato di confusione che nell’ultimo anno è più o meno direttamente riferibile al flusso ufficiale delle fonti di provenienza “istituzionale” (di matrice giornalistico-politico-scientifico-divulgativo), che ha presumibilmente contribuito ad alimentare un profondo clima di diffidenza e sfiducia all’insegna di affermazioni contradditorie, caotiche, contrastanti aggravate da una frequente esasperata contrapposizione di posizioni divergenti sistematicamente rilanciate mediante numerosi canali informativi che poi hanno trovato ulteriore terreno fertile di viralizzazione sui social.
Emblematiche, in tal senso, le poco edificanti modalità comunicative con cui sono stati resi noti i controlli degli organismi “istituzionali” sui possibili effetti collaterali dei vaccini a distanza dalle prime somministrazioni.
Piuttosto che valutare, in termini di “mea culpa”, la possibilità di aver compiuto errori nella gestione comunicativa di una strategia così importante per la sicurezza degli individui, peraltro anche alla luce degli avvertimenti che nei mesi scorsi erano stati ampiamenti indicati, mediante svariate ricerche scientifiche internazionali, sui rischi di disinformazione legati alla campagna di vaccinazione anti Covid, per evitare di ipotizzare qualsivoglia condanna nei confronti degli apparati statali, si preferisce scaricare la responsabilità, incentivando un approccio ancor più divisivo da “caccia alle streghe” che alimenta la sfiducia collettiva ed esaspera ancor più i toni in un momento storico in cui sarebbe indispensabile pianificare iniziative comuni di collaborazione cooperativa anche in stretta sinergia con i “Colossi del web”, impegnati (e abbandonati) comunque in trincea – praticamente da soli – per assicurare un controllo sempre più difficile di fronte a un campo minato pronto ad esplodere da un istante all’altro.
L’impegno delle Big Tech nel contrasto alla disinformazione online
Eppure le Big Tech stanno dimostrando da tempo un impegno senza precedenti nel contrasto alla disinformazione online persino al punto da stravolgere la propria tradizionale configurazione di strumento interattivo ideato, per finalità lucrative legate allo sfruttamento dell’advertising online, con l’intento di facilitare la condivisione dei contenuti generati dagli utenti.
Sin dalle recenti elezioni americane, i social network si stanno impegnando nella pianificazione massiva di misure di controllo finalizzate a “filtrare” le informazioni pubblicate dagli utenti, rendendo più difficile la diffusione “virale” dei contenuti, nella prospettiva di limitare la dilagante diffusione di fake news, investendo ingenti risorse economiche, umane e organizzative per perseguire tali finalità.
In tal senso Facebook ha, ad esempio, implementato il proprio sistema di rilevazione degli account falsi, perfezionando il livello dei propri algoritmi per combattere la disinformazione online mediante il cd. “Temporal Interaction EmbeddingS (TIES)” che ha consentito di monitorare circa 2,5 milioni di account (con un rapporto 80/20 reali/falsi) e 130.000 post, di cui circa il 10% sono etichettati come disinformazione.
A dimostrazione dell’impegno concreto manifestato nella lotta alla disinformazione, proprio Facebook ha deciso di sospendere la pagina social dell’ex Presidente USA Trump a causa dell’assalto del Campidoglio organizzato dai suoi sostenitori, manifestando una diretta assunzione di responsabilità mediante una scelta certamente complessa e dalle rilevanti implicazioni socio-politiche rispetto all’immobilismo inerte dell’establishment istituzionale trasversale al netto dei meri annunci di presa di distanza e di condanna senza però dare seguito mediante efficaci azioni.
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Eppure i social potrebbero fare di più contro la disinformazione
Il CCDH, un’organizzazione no-profit e non governativa del Regno Unito e degli Stati Uniti, ha scoperto a marzo che 12 personalità online sono responsabili del 65% della disinformazione sui social.
Solo su Facebook, la dozzina è responsabile del 73% di tutti i contenuti anti-vaccini. Tra la dozzina ci sono medici che hanno abbracciato la pseudoscienza, un bodybuilder, un blogger del benessere, un fanatico religioso e, soprattutto, Robert F Kennedy Jr, il nipote di John F Kennedy che ha anche collegato i vaccini all’autismo e le reti cellulari a banda larga 5G alla pandemia di coronavirus.
Kennedy è stato rimosso da Instagram, azienda di Facebook, ma non da Facebook stesso. Già quest’elemento fa capire come le policy anti-disinformazione sono applicate in modo spesso incoerente e randomico.
“Facebook, Google e Twitter hanno messo in atto politiche per prevenire la diffusione di disinformazione sui vaccini, ma fino ad oggi, tutti non sono riusciti a far rispettare in modo soddisfacente queste politiche”, ha scritto il CEO del CCDH, Imran Ahmed, nel rapporto. “Tutti sono stati particolarmente inefficaci nel rimuovere la disinformazione dannosa e pericolosa sui vaccini coronavirus”.
Anche se le piattaforme hanno da allora preso misure per rimuovere molti post e persino rimuovere tre dei 12, il CCDH sta chiedendo a Facebook e Instagram, Twitter e YouTube di bloccarli tutti.
“Le politiche e le dichiarazioni aggiornate hanno poco valore se non sono applicate con forza e coerenza”, dice il rapporto. “Con la stragrande maggioranza dei contenuti dannosi diffusi da un numero selezionato di account, la rimozione di quei pochi individui e gruppi più pericolosi può ridurre significativamente la quantità di disinformazione diffusa attraverso le piattaforme”.
Peraltro, oltre al ruolo spiccatamente “politico”, Facebook ha annunciato, anche su un piano di Welfare State legato alla crescita sostenibile della Rete, l’intenzione – recentemente rilanciata da Zuckerberg nella sua pagina, di pagare i creatori di contenuti, mettendo a disposizione un fondo pari ad 1 miliardo di dollari entro la fine del prossimo anno per finanziare l’attivazione di nuovi programmi di bonus progettati come strumenti premiali destinati ai creatori di ottimi contenuti”, contestualmente al progetto “Supporting Independent Voices” ideato per fornire supporto a scrittori, esperti e giornalisti che pubblicano informazioni in modo indipendente, e allo sviluppo della piattaforma “Facebook Journalism Project” che offre corsi di formazione, programmi di finanziamento e partnership in grado di realizzare un modello interattivo e sostenibile di giornalismo di qualità per diffondere notizie a livello globale, combattere la disinformazione e promuovere l’alfabetizzazione giornalistica.
Conclusioni
Si tratta di iniziative inedite che vedono da tempo gli imprenditori “visionari” della Silicon Valley tra i principali fautori di un inedito “CyberStato Sociale” con l’intento “tecnocapitalistico” di stimolare l’economia, rendendo le persone più creative e intraprendenti dal punto di vista imprenditoriale, distribuendo i profitti conseguiti a partire dall’erogazione di un reddito universale di base presentato come “vaccino sociale del 21˚ secolo” in grado di eliminare la povertà grazie all’uso efficiente di ingenti risorse economiche oggi sprecate secondo modalità improduttive di sperequazione sociale.
In uno scenario del genere, considerato il crescente ruolo politico, sociale ed economico che stanno progressivamente assumendo, nella veste “ibrida” di arbitri decisori dello spazio virtuale, i colossi del web, ai quali gli stessi apparati statali sembrano ormai progressivamente dipendere delegandone le relative funzioni, si farà presto del tutto a meno degli Stati come principali attori di una nuova inedita governance geopolitica?