La filosofia postumanista considera la téchne o l’alterità animale come un evento relazionale capace di fare emergere nuove dimensioni esistenziali, non in contraddizione ma in linea con la natura umana, attraverso riti di contaminazione che allargano l’uomo al mondo.
Postumanismo e plasticità della condizione umana
Secondo il pensiero postumanista la specie umana presenta delle caratteristiche innate – intese come tendenze motivazionali, caratteristiche cognitive, dimensione di umwelt, range di possibili esiti ontogenetici – esattamente come tutte le altre specie. Queste sono il frutto del percorso filogenetico, ossia delle pressioni selettive e del particolare lignaggio di derivazione, della specie Homo sapiens.
Dobbiamo, perciò, parlare di una natura umana, che rappresenta sia le condizioni di partenza dell’individuo sia il perimetro del campo di sviluppo possibile per l’essere umano.
A differenza del transumanismo, per la prospettiva postumanista non esiste una totale liquidità della condizione umana, ma solo una rilevante plasticità, riconducibile all’esubero somatico – per esempio: il gran numero di neuroni e la flessibilità della conformazione prattognosica – e non a una presunta incompletezza. Tale ridondanza consente una molteplicità d’indirizzi ontogenetici, ossia di declinazioni individuali e culturali, in virtù delle particolari condizioni che l’uomo può incontrare, rimanendo tuttavia all’interno di una dimensione non oltrepassabile. Non possiamo, cioè, trasformarci in qualunque entità, ma assumere forme che, per quanto plurali, siano compatibili con una certa dimensione.
L’essere umano ha, pertanto, una propria condizione somatica e cognitiva che non può essere ignorata o trascesa, perché rappresenta la base che consente di realizzare tutte le multiformi espressioni dell’umano.
Si tratta, peraltro, di una natura tutt’altro che imperfetta o incompleta, rispetto alla dimensione esistenziale che ci consente, essendo l’essere umano frutto di un lungo percorso di evoluzione adattativa. Indubbiamente vi sono innumerevoli condivisioni tra umano e le altre specie – quando parliamo di mammiferi e soprattutto di primati – giacché siamo il frutto di un percorso che, per la maggior parte del tratto, è stato condotto all’interno di un alveo predicativo non-umano. Nel pensiero darwiniano ogni specie non è l’espressione di un’essenza, ma l’esito di eredità da progenitori comuni. Ricaviamo così che la maggior parte dei predicati umani sono sorti prima della comparsa dei sapiens e sono condivisi con altre specie (omologie). Gli animali quindi non ci sono estranei.
Le specificità della natura umana
Tuttavia, non possiamo ignorare le specificità della natura umana, tutt’altro che caratterizzata dalla carenza, se solo ci impegniamo in una descrizione oggettiva dei tratti. Nell’essere umano abbiamo per esempio:
- la differenza tra estremità anteriori e posteriori, con la costituzione del piede;
- il posizionamento del foro occipitale al centro che permette la posizione eretta;
- la trasformazione del femore che si allunga rispetto all’omero, con sviluppo del tubercolo femorale che facilita il bipedismo anche in velocità;
- il parto prematuro che rende possibile il quadruplicare la grandezza del cranio dopo la nascita;
- la trasformazione della curvatura della colonna vertebrale con cifosi toracica e lordosi lombare;
- l’intero bacino viene rimodellato e in particolare le ali dell’ileo si espandono in alto e all’indietro permettendo lo sviluppo di potenti muscoli glutei;
- la trasformazione della dentatura con riduzione dello splacnocranio e dei muscoli masseteri e ridefinizione del cranio;
- il grande sviluppo di tutto il neurocranio, portandolo a una capienza che è tre volte superiore rispetto a scimpanzé e gorilla;
- la mancanza dell’estro manifesto;
- il rimodellamento del seno e l’ingrossamento del pene;
- l’abbassamento della laringe che amplifica il numero di vocalizzazioni;
- una particolare coordinazione oculo-manuale che facilita le prassie.
Queste particolarità non vanno dimenticate e ci parlano di un preciso posto dell’uomo all’interno della biosfera e parallelamente di un rapporto di dipendenza dagli equilibri ecologici in essere, che ci porta a sollecitare una maggiore attenzione nei confronti delle grandi emergenze ambientali in essere. In quest’ottica l’essere umano non è un’entità disgiunta dal fiume della vita, perché si riconosce nell’appartenenza e nella condivisione, si ritrova in una dimensione sintonica con l’intera biosfera. Si tratta di una trasformazione che ci chiede di rivedere la tradizionale concezione etica basata esclusivamente sui limiti alla condotta, per abbracciare un’etica delle virtù e dell’empatia, dove la componente del sentimento e della moralità allargata deve trovare uno spazio assai più rilevante. Anche il rapporto con la téchne si modifica di concerto, caduta la visione esonerativa che si basava sul presupposto dell’incompletezza e della prevalenza prometeica dell’umano.
Una natura ridondante
L’essere umano non è un’entità incompleta o priva di specializzazioni adattative: è sufficiente un’analisi descrittiva del corpo umano, a dimostrare esattamente il contrario. Considerare l’uomo come l’esito di una storia di specializzazione significa togliergli quella dimensionalità liquida che ha avuto tanto successo nell’immaginario transumanista. Il nostro modo d’interfacciare la realtà ha, pertanto, una sua peculiarità che non può essere cancellata con un colpo di spugna con la mera apposizione di uno strumento. Riprendendo, al contrario, il concetto di umwelt, potremmo dire che il mondo, quale ci appare, sia piuttosto il frutto emergenziale dell’organizzazione di un preciso piano di realtà. Questo può essere trasformato, per via di processi di accomodamento, per esempio attraverso strumenti che modificano la risoluzione visiva come il microscopio elettronico, ma mai completamente rivoluzionato, perché ogni innesto tecnologico deve comunque appoggiarsi sulla condizione epistemica in essere. Occorre perciò avere una maggiore moderazione quando si fanno pronostici sulla riconfigurazione della condizione umana.
D’altro canto, proprio alcune disposizioni specie specifiche di Homo sapiens – come la plasticità del connettoma neuronale, l’immaturità neonatale, la particolare dimensione sociale – hanno consentito all’essere umano di andare oltre il proprio retaggio naturale, vale a dire di oltrepassarsi, assumendo nuove dimensioni esistenziali tecnomediate. Anche la presenza di alcune motivazioni dall’alto valore copulativo e introiettivo – come la tendenza a imitare ciò che vede in natura, ad adottare cuccioli di altre specie, a raccogliere e catalogare ciò che incontra – gli hanno consentito rapporti molto stretti con il mondo animale, assumendo alcuni stili da questi e importandoli all’interno del proprio patrimonio culturale. Questi prestiti hanno trovato nella mente umana un terreno fertile, divenendo entità metastabili, cioè capaci di assumere una propria autonomia evolutiva rispetto al dimostratore animale. Parliamo di un’epifania animale, dove osservare il volo degli uccelli non solo insegna come volare ma, ancor prima, “che si può volare”, aprendo all’essere umano la condizione di copula mundi.
La natura desiderante dell’uomo
Una delle caratteristiche più rilevanti della condizione umana è la sua natura desiderante, una tensione che alimenta l’ingegno e l’immaginario e che tuttavia va ridefinita rispetto alla lettura tradizionale che se ne fa. La condizione desiderante non va intesa come mancanza che cerca un processo di appropriazione, ma come propensione proattiva e copulativa verso il mondo. In altre parole, il desiderante è la voglia di esprimersi attraverso delle opere, di dedicarsi a un’attività, di votarsi a un’impresa, di coinvolgersi in un’azione, di donarsi alla vita attiva.
Purtroppo, una lettura consumistica del desiderio ci ha fuorviati, inducendoci a credere che il desiderio trovasse appagamento nell’appropriazione quando, al contrario, esso si nutre della dedicazione e della vocazione. La natura umana, pertanto, ha in sé le condizioni per germinare le opere più edificanti e parimenti soddisfacenti, come purtroppo può rischiare di essere condotta fuori strada attraverso deviazioni delle sue stesse tendenze.
L’errore principale, a mio avviso, è sempre quello di sottostimare, nell’uno come nell’altro senso, le potenzialità della natura umana, tutt’altro che caratterizzate dall’ancestralità o dalla larvalità come da tradizione umanista, da Pico della Mirandola ad Arnold Gehlen. La percezione di carenza che ci porta a credere che la tecnologia sia compensativa e risarcitoria a una natura incompleta ab origine è un bias interpretativo, è scambiare la conseguenza per la causa. È la tecnopoiesi che produce un senso di carenza, per cui la tecnomediazione va sempre considerata un’esposizione non un esonero. Molteplici sono i fattori che producono tale esposizione – inquadrabile come dipendenza da un supporto esterno o senso di carenza – alcuni di tipo performativo, altri di affiliazione sociale, altri ancora di integrazione ontogenetica. Fatto sta che non ha alcun senso dichiarare l’incompletezza umana, vuoi da un punto di vista teorico-evoluzionistico, vuoi sotto il profilo descrittivo.
Al contrario, dobbiamo ammettere è che è proprio grazie alle specificità del retaggio filogenetico della nostra specie se si sono resi possibili i grandi traguardi culturali e tecnoscientifici dell’uomo.
Facciamo un ulteriore esempio. La tendenza tecnopoietica, ossia la propensione a costruire apparati mediali e performativi, come peraltro quella più genericamente culturale, rappresenta una delle forme caratterizzanti la natura umana. Se prendiamo in considerazione i reperti paleoantropologici scopriamo alcune abitudini, peraltro già presenti nel cugino scimpanzé – come l’utilizzo di sassi per estrarre il contenuto dalla frutta secca o l’uso di bastoncini per catturare larve – che tuttavia trovano nel cespuglio degli ominidi un’enfatizzazione. Anche la vita in savana, che ha favorito l’evoluzione del bipedismo, liberando le mani dalla locomozione e creando un rapporto stretto con il fuoco, ha rafforzato nella nostra specie la consuetudine a fornirsi di strumenti per sviluppare nuove funzioni. L’utilizzo degli strumenti e la tendenza mimetica hanno dato origine a quei processi ibridativi che stanno alla base della condizione umana. In definitiva possiamo dire che: i) non è possibile comprendere i predicati umani, prescindendo dalle sue caratteristiche somatiche; ii) ugualmente non lo si può fare facendo esclusivo riferimento alla natura umana.
Téchne e natura umana
Il concetto di téchne subisce uno slittamento interpretativo radicale nella visione postumanista – rispetto alla tradizionale narrativa basata sul rapporto tra Epimeteo, dispensatore di qualità agli animali, e Prometeo, trickster responsabile dell’hybris umana – perché nella filosofia postumanista si basa su una dimensione relazionale con il corpo e quindi: non compensativa, ma ibridativa. Superando la visione tradizionale dell’umanismo, basata sul principio di esonero e risarcimento, vale a dire di téchne come stampella a un’incompletezza biologica dell’essere umano, la lettura della tecnopoiesi subisce una torsione a 360 gradi, perché si considera la percezione di carenza non la causa della produzione tecnico-tecnologica, ma la conseguenza della stessa. In altre parole, attraverso la tecnopoiesi l’essere umano si rende carente, ossia costruisce delle partnership performative che oltrepassano le potenzialità del suo corpo rendendosi dipendente da queste.
Parliamo pertanto di una techno-addiction che si ripercuote non soltanto sugli aspetti prestazionali, ma si riflette anche sulla dimensione di partecipazione sociale e di adattamento alla riconfigurazione dell’ecumene che le tecnologie apparecchiano, e perciò nell’adattamento individuale. Inoltre, la presenza d’intermediari tecnico-tecnologici ha una ricaduta sui processi ontogenetici, essendo questi strumenti i più importanti elementi d’indirizzo evolutivo che il soggetto ha fin dalla più tenera età. L’influenza riguarda la maggior parte degli apparati che subiscono, al loro interno, una crescita differenziale dei predicati funzionali e una riorganizzazione istruita dal partner tecnologico. Per tale ragione, possiamo dire che: non è la tecnica che si adatta al corpo – concezione ergonomica tradizionale – ma è il corpo che si adatta alla tecnica, essendo, di fatto, molto più plastico e malleabile di questa.
Non dobbiamo poi dimenticare che la tecnosfera è, da oltre centomila anni, la nicchia evolutiva dell’essere umano per cui possiamo parlare anche di effetti di modificazione filogenetica sulle popolazioni per effetto di slittamento sulle pressioni selettive e di altri fattori, assegnabili alla diversa fitness dei fenotipi, ontogeneticamente suscettibili all’influenza tecnomediata. Secondo la filosofia postumanista la téchne non ha pertanto una funzione ancillare, non è cioè semplicemente a servizio dell’essere umano, ma rappresenta un partner ecologico nella storia dell’umanità, con la quale la nostra specie ha intrapreso una relazione coevolutiva che la rende una sorta di cantiere aperto ossia in divenire.
Non dovendosi attribuire a una funzione compensativa, la tecnopoiesi non segue il calco dell’incompletezza umana, ma emerge attraverso processi non predittibili, quale evento creativo. In ossequio a questo, mentre una presunta traiettoria compensativa dovrebbe decelerare, in virtù dei progressivi risarcimenti fatti, in una lettura espositiva, quale per l’appunto quella postumanista, la tecnopoiesi ha un andamento accelerativo, sulla base delle progressive dipendenze che produce, favorendo processi antropo-decentrativi. Questo è facilmente osservabile se prendiamo in considerazione lo sviluppo a progressione esponenziale che lo sviluppo tecnologico ha avuto negli ultimi cinquemila anni di storia dell’umanità. Ogni evoluzione tecnologica accresce ulteriori progressi.
Inoltre, in una visione postumanista la téchne non rimane mai all’esterno del corpo ma è sempre infiltrativa, per cui possiamo dire che la condizione di cyborg è quella propria di ciascun essere umano. D’altro canto, il cyborg non ha semplicemente potenziato i suoi predicati funzionali o performativi, ma li ha mutati, è entrato cioè all’interno di una nuova dimensione esistenziale. Parliamo di “ibridazione ontopoietica” per riferirci a un processo evidentemente diverso da quello generativo che avviene quando un soggetto di una certa specie si accoppia con uno di un’altra specie. L’ibridazione ontopoietica è la trasformazione ontologica che l’essere umano riceve sulla base di un innesto che non fa parte del proprio retaggio filogenetico ovvero della natura umana, ma che ha un impatto su di essa.
Le ibridazioni ontopoietiche possono avvenire in diversi modi come: i) la costruzione di una partnership collaborativa con un’altra specie, per esempio con il cane o il cavallo; ii) l’epifania animale, quando l’essere umano accede a una diversa dimensione esistenziale sulla base di un’ispirazione offerta da un altro essere vivente; iii) l’avvento di una particolare conoscenza che modifica il piano epistemico; iv) l’avvento di una nuova tecnica o di una tecnologia che modifica il piano investigativo e operativo dell’essere umano. L’ibridazione ontopoietica non si limita alla trasformazione estensiva-amputativa – quella messa in luce da Marshall McLuhan, per quanto importante sia stata questa osservazione – perché non agisce solo in modo quantitativo, potenziando una prestazione e abbassando le capacità somatiche per deficit di esercizio, ma modifica il panel di prestazioni e il piano d’intersezione umana.
La téchne opera come un virus
Una tecnologia non può, perciò, essere considerata un semplice estensore o potenziatore di qualità umane che restano inalterate, perché la téchne opera come un virus, vale a dire entra nel soma come in una cellula e lo riorganizza su un diverso piano ontologico. L’incontro con il non-umano, sia esso l’ibridazione con un’altra specie, aspetto che caratterizza gran parte della cultura umana, in termini di partnership o di epifania, dando luogo a un teriomorfismo, sia viceversa con una tecnica o tecnologia, dando luogo a un tecnomorfismo, è un processo che non rimane mai esterno o di natura potenziativa, ma è sempre infiltrativo e metamorfico. La visione estensiva, riconducibile alla lettura della tecnologia come strumento o mezzo che rimane all’esterno – non necessariamente del corpo, ma dell’ontologia – è ancora in continuità con quella tradizione che è incapace di porre al centro la relazione nell’esistenzialità.
Mentre l’umanismo, anche nell’utilizzo della tecnologia e spesso proprio attraverso di queste, insegue mitopoiesi di purificazione dell’essenza umana, che cerca processi di disgiunzione e di verticalizzazione rispetto al tellurico, cioè di elevazione, la filosofia postumanista parla di riti di contaminazione che rendono l’essere umano sempre più meticciato e allargato con il mondo, in un processo di orizzontalizzazione. L’ibridazione ontopoietica prende allora in considerazione tutti gli effetti che il rapporto con la téchne ha prodotto nella storia dell’umanità, dando una precisa connotazione al termine postumano, non più come condizione prossima ventura, bensì come condizione propria dell’essere umano, un’entità che fin dalle prime espressioni ha fatto dell’ibridazione una delle espressioni più tipiche della propria natura. Possiamo, pertanto affermare che siamo sempre stati postumani.