le parole sono importanti

Potere alle parole: ecco perché la competenza linguistica ci migliora la vita

Nell’era dei social è sempre più comune la convinzione di saperne abbastanza su un argomento da poter deridere o insultare qualcun altro per la sua ignoranza. Dovremmo invece riflettere sull’importanza di concederci un po’ di tempo in più per chiederci se stiamo per dire o scrivere davvero ciò che vogliamo dire o scrivere

Pubblicato il 12 Lug 2019

Vera Gheno

sociolinguista specializzata in comunicazione digitale e traduttrice dall'ungherese. Docente a contratto presso l'Università di Firenze, collaboratrice Zanichelli

social media

Nella società della comunicazione in cui siamo oramai immersi, è necessario che ogni persona si renda conto di quanto sia ancora centrale, per le nostre vite, la competenza linguistica. Parlare e scrivere con accuratezza e precisione, riuscendo a scegliere le parole giuste per ogni contesto, è una capacità che può contribuire a migliorare la vita di chiunque, in qualunque situazione: abbiamo sempre bisogno delle parole. Ancor più in questa particolare epoca in cui le tecnologie digitali rendono le comunicazioni sempre più veloci, varrebbe la pena rallentare un po’, prendersi il giusto tempo per riflettere su ciò che si legge e si scrive: essere un po’ meno social e un po’ più slow-cial.

Riporto di seguito tre casi apparentemente senza alcun nesso, ma che hanno in comune un tema spesso sottovalutato:  la percezione della competenza linguistica propria e altrui.

Simone di Torre Maura (“non me sta bene che no”)

3 aprile 2019: Simone, un quindicenne del quartiere romano di Torre Maura, affronta verbalmente un picchetto di Casa Pound contrario all’arrivo di un gruppo di sessanta rom nel quartiere. Lo fa con pacata fermezza, parlando con un forte accento romano, ma in un linguaggio comprensibile ai più. Il centro del suo discorso, quando gli chiedono se è felice dell’arrivo dei rom, è questo:

“A mme sessanta persone nun me cambiano a vita. Il mio problema non è chi mi svaligia casa, il problema mio è che mi svaligiano casa. Se mi svaligia casa un rom tutti glie dovemo annà contro, poi quand’è n’italiano, vabbè, sto pure zitto sul fatto che è italiano. Quindi su sta cosa bisogna annà sempre contro la minoranza, a me non me sta bene che no”.

La registrazione video del discorso di Simone inizia a girare per la rete e a riscuotere il plauso di molti. Non tutti, però, ammirano ciò che ha detto il ragazzo. Si alzano anche varie voci che puntano, con varie motivazioni, a sminuire la portata dell’atto del giovane. Una professionista della parola, per esempio, scrive questo tweet:

“Per carità, il pischello di Torre Maura, che gli vuoi dire, coraggioso… ma che uno a quell’età non sappia parlare in italiano non vi fa impressione?”

Si noti la scelta del termine pischello, che in Toscana indica il ragazzetto un po’ sciocco e, anche senza considerare la connotazione negativa toscana, viene generalmente usato per sottolineare la giovane età di una persona e l’inesperienza che ne conseguirebbe. Che gli vuoi dire… è un incipit che suona paternalistico, non a caso seguito da un giudizio piuttosto netto: che uno a quell’età non sappia parlare italiano non vi fa impressione? Il discorso sembra sottendere che parlare in dialetto (che poi in questo caso sarebbe più precisamente italiano regionale, cioè un italiano venato di tratti regionali) sia errato a priori. In calce al suo tweet, la discussione si fa subito infuocata:

“Mi fa più impressione lei e la sua spocchia. Occhio che il piedistallo sul quale si è posta è friabile”.

Ma arriva veloce la replica:

“Ma quale piedistallo, ma quale spocchia, cosa c’entro io? Non lo capite che quel ragazzo verrà schiacciato dal mondo se non trova parole vere, comprensibili fuori dal suo quartiere? La spocchia è di chi crede che l’ignoranza sia fica, potente, gagliarda”.

Ottiene molti like, ma diverse persone replicano così:

“Vabbè, ma usava il troglodite per farsi capire da quei fascisti. Forse. (I giovani possono migliorare, i fascisti no)”.
“A me no, a dire il vero. Stava a Torre Maura tra gente di Torre Maura: ha parlato (benissimo) la lingua che si deve parlare a Roma in certe situazioni. Se qualcosa mi ha impressionato, e in positivo, è la sostanza degli argomenti e la prontezza nel ribattere punto su punto”.
Che #Simone non sia ignorante, lo si capisce dai concetti che esprime. Ed usa un registro adatto a farsi capire dagli energumeni che ha di fronte. Cosa che faceva persino Dante, ma che le élites culturali non hanno mai fatto. Anche per questo regnano gli energumeni.
Esattamente. Concetti importanti spiegati col linguaggio più consono al contesto. Non credo si possa pretendere di più da un ragazzo di quell’età. Averne…
Nel tuo tweet c’è molta spocchia e superiorità. Io a Simone auguro di avere la possibilità di crescere e migliorarsi in scuole degne.

Sarà davvero un segno di ignoranza, per Simone, essersi espresso in quel modo? Tra i commentatori ci sono alcuni linguisti, che avallano la competenza comunicativa del ragazzo: ha impiegato il registro linguistico giusto per il contesto e la situazione. Ciononostante, la discussione continua, a tratti in maniera feroce, anche su altri canali.

Seguendo lo schema classico delle discussioni nell’iperconnessione, si formano due schieramenti contrapposti, che molto velocemente arrivano a insultarsi reciprocamente esulando, di fatto, dal tema del contenzioso. Su Facebook, in difesa di quel tweet, si schiera una persona piuttosto in vista, la quale afferma, con parole accese, che tutti sbagliano a prendersela con colei che ha scritto quelle parole perché quella persona svolge una mirabile attività pro bono di divulgazione letteraria nelle scuole: di conseguenza, non va attaccata.

Da un punto di vista logico, questa difesa ha una falla: dato che nessuno è generalmente buono o cattivo a priori, è possibile che una persona svolga attività meritevoli ma magari esprima per una volta un pensiero non condivisibile: le due cose non si escludono a vicenda. Le buone azioni, infatti, non salvano a priori dalla possibilità di dire una cosa da molti percepita come sbagliata.

Da canto suo Simone, probabilmente, è ben capace di parlare italiano, e ha usato l’italiano regionale (e non il dialetto, che è un’altra cosa) perché il contesto e gli interlocutori lo richiedevano. E che Simone sappia parlare italiano quando serve lo certifica una delle persone forse più competenti sul tema, il suo docente di italiano:

Volevo dire alla signora […] che mi commuove il fatto che i giornalisti italiani si preoccupino così tanto della salvaguardia della lingua italiana… e soprattutto contribuiscano con interventi illuminanti e spesso risolutivi su questioni che toccano non solo le corde più intime del nostro essere umani, ma soprattutto la nostra capacità di analizzare i veri problemi della società (o delle società?) in cui viviamo quotidianamente. #simone è un ragazzo come tanti. Parla e scrive un ottimo italiano in classe. Quella fierezza, quella capacità di controbattere a delle argomentazioni poco consone non solo nella sostanza, ma espresse anche in maniera volgare dal linguaggio del corpo, mi piacerebbe poter dire di avergliela trasmessa io anche in parte infinitesimale. Ma non è così. È tutto merito suo. Io sono orgoglioso di Simone, e così tutti i miei amici e colleghi. Signora […], io sono il professore di italiano e storia di Simone.

Al momento in cui scrivo, questo post di Facebook conta quasi dodicimila condivisioni e un migliaio di commenti, quasi tutti favorevoli.

Il caso social “Inps per la famiglia”

17 aprile 2019: si mette in moto la macchina del reddito di cittadinanza voluta dal governo gialloverde; la pagina Facebook INPS per la famiglia, già aperta da anni, pubblica questo post:

#RedditodiCittadinanza #RdC Chi ha ricevuto sms e/o mail da Inps con accettazione della sua domanda può verificare l’importo negli esiti della sezione Reddito di Cittadinanza dei servizi online Inps accedendo con PIN dispositivo o Spid da questo link:

In breve tempo, il post viene sommerso di richieste e manifestazioni di delusione per le somme ricevute. A parte dubbi sacrosanti, molte persone, esprimendosi in modo sovente sgrammaticato e comprensibile solo a fatica, iniziano a mettere in piazza, senza alcuna apparente remora, le loro situazioni, spesso tragiche quando non completamente illegali, apparentemente non rendendosi conto stare scrivendo nero su bianco e in pubblico informazioni talvolta non proprio pacifiche.

Io che non percepisco niente solo perché fine al 13 maggio 2018 ho percepito la naspi ho finito la disoccupazione cioè sono passati 12 mesi che non ci sono entrate faccio la richiesta del reddito di cittadinanza, domanda accolta 2 adulti 2 bambini zero euro di entrata . Mi date 126,00 . E poi dovrei stare a vostra disposizione io e mia moglie 2 ore al giorno e il restante di formazione. MA SAI COSA TO DICO IO CHE HO VI SEGUO DA 10 anni . NON VI VOTO PIÙ CHIUSO UN CAPITOLO. Luigi Di Maio stasera sei stato al programma di rete 4 hai detto che se qualcuno a preso tipo 40 tu ai detto che sicuramente c’è una entrata di 740 più 40 fanno i tuoi famosi 780 . MI SPIEGHI IO MIA MOGLIE E I MIEI 2 figli minori non percepiamo niente in più devo pagare un pigione mi dai 126 euro. Mi dai una spiegazione che io ti ripeto non ho entrare di soldi da 12 mesi
è possibile che il mio ex compagno abbia avuto accesso al reddito di cittadinanza pur avendo lavorato a nero, le prove non le ho, ma l’ho visto io di persona? i controlli non porterebbero comunque a niente… e lui in piu dovrebbe il mantenimento ai figli…
Grazie con i vostri 40€ ho risolto molti problemi 2 dissocupati e un pensionato da 600€ .Tanto era impossibile finché il popolo non fa una pazzia le cose non cambieranno seriamente .È in questo momento e il problema delle persone no nel isee con Cud 2017 pensano che la gente abbia messo da parte soldi se prima aveva un misero reddito ma un Cristo esiste e lui dovrà pensare a voi o chi di voi
io lavoro in nero posso richiedere l’ASSEGNO MIA MOGLIE NN LAVORA COME POSSO FARE

Per centinaia di messaggi, il (poi si scoprirà che è la) social media manager della pagina risponde in maniera composta e professionale; a un certo punto, tuttavia, forse a causa dell’inaspettata mole di commenti, perde la pazienza e inizia a blastare, dando alcune risposte aggressive e sarcastiche: per esempio, questa è l’interazione con a una utente con un soprannome un po’ infantile, che non riesce a eseguire la procedura necessaria per ottenere il pin per accedere al reddito.

INPS: Ma lei non ha voluto richiedere PIN e SPID come le abbiamo detto da giorni ormai. Non può vedere l’importo se non ha quelli… secondo lei perché le dicevamo di farli perché ci piaceva perdere tempo???
Utente: Lo. So ma n so farlo mi. È arrivato msg che è stata accolta mo sono curiosa della cifra
INPS: Le ripetiamo se usa FACEBOOK e si fa i selfie con le orecchie da coniglio sa anche richiedere un PIN

Il riferimento è alle foto che la signora ha sul profilo. A un altro utente risponde:

Perché invece di ripetere le stesse cose non va sul sito Inps e richiede il PIN che ci vogliono 5 minuti!!??

Davanti a queste risposte, l’opinione di chi assiste si divide: molti protestano per il tono non istituzionale delle comunicazioni, ma molti altri fanno i complimenti per la social media manager che espone a pubblico ludibrio l’ignoranza delle persone che stanno facendo domande demenziali. Ovviamente, a quel punto si scatena anche la gara a fare la battuta più sagace a danno degli “imbecilli” che stanno rispondendo al post, tanto che il numero di commenti aumenta in maniera vertiginosa. E fra una spiritosaggine e l’altra, la pagina smette di rispondere.

Il giorno dopo, una secca comunicazione cercherà di riportare l’ordine, scusandosi al contempo per lo “sbrocco” di chi gestiva la pagina:

#Importante #atuttigliutenti In linea con quanto previsto dalla netiquette e dalla social media policy della pagina e in considerazione del grande interesse e impatto del #redditodicittadinanza e di altre misure a favore della famiglia, risponderemo solo a commenti inerenti agli aspetti tecnici delle prestazioni erogate da Inps. Cogliamo l’occasione per scusarci con quanti possano essersi sentiti toccati od offesi da alcune nostre risposte.

È circolata la voce che la SMM sia finita in ospedale per lo stress causato dalla situazione.

La presidenta o la presidentessa?

8 maggio 2019: Durante un convegno a Roma su uso ponderato delle parole, hate speech, cyberbullismo, ruolo delle donne nella lingua e nella società, ecc., il moderatore definisce Livia Turco prima presidente, poi “si corregge” in presidentessa.

Viene contestato da un pubblico prevalentemente femminile che quasi in blocco gli grida che è preferibile dire la presidente. Una persona seduta alle mie spalle grida piuttosto stizzita: “No! Si dice presidenta!”. Io, che mi occupo da tempo della questione dei femminili professionali, non riesco a resistere a girarmi e correggerla: “Guardi che è presidente, basta cambiare l’articolo, come per gerente, docente o insegnante”. La mia interlocutrice replica piuttosto seccata: “No! È giusto presidenta! Se la parola non esiste la inventiamo! Perché le donne prima non facevano le presidenti e quindi dobbiamo inventare una parola nuova!”. Cerco di spiegare alla signora che non è necessario creare parole completamente nuove perché la lingua italiana prevede sufficienti modi per la creazione dei femminili in base a specifiche regole, ma la signora non è convinta, anzi: ribadirà successivamente che i nomi maschili finiscono in -o e in femminili in -a, e quindi bisogna dire presidenta.

Lingue e anarchia

Come ben sappiamo, il sistema non è “binario” ed esistono, tra l’altro, nomi di genere promiscuo, che sono identici al maschile e al femminile (come, appunto, presidente o astronauta) e per i quali basta cambiare l’articolo. Imporre la declinazione di genere a un termine di genere promiscuo è, linguisticamente parlando, una sciocchezza: forzare la lingua in direzioni incongrue è controproducente per la causa stessa.

La signora ha insistito nel ribadire che nulla vieta di inventare le parole, perché le regole sono fatte per essere trasgredite… Certo, se non fosse che le regole linguistiche non sono imposte dall’alto, ma sono frutto di stratificazioni storiche e sociali che hanno, a guardarle da lontano, un senso, una praticità. Moltiplicare le regole linguistiche in nome di una creatività senza limiti è inutile: ci sono altri àmbiti (linguistici e non) nei quali ha più senso esercitare l’anarchia.

In ogni caso in quell’occasione, quando è venuto il mio turno di parlare, ho cercato di calmare gli animi aggiungendo che la cosa più importante è sapere che in questo momento storico entrambe le posizioni sono accettabili, sia quella di declinare i femminili professionali (ovviamente con un minimo di attenzione al funzionamento dell’italiano), sia quella di non declinarli (che però è una posizione di resistenza al cambiamento, un cambiamento tutto sommato naturale, conseguenza delle modifiche che stanno avvenendo nella società).

La percezione della competenza linguistica (propria e altrui)

Cosa accomuna questi tre casi? Sembrano distanti ma, a ben guardare, al centro della questione si pone ogni volta la lingua, anzi, la competenza linguistica. Se volessimo essere ancora più precisi, direi che il tema è la percezione della competenza linguistica propria e altrui.

Simone viene “accusato”, per di più da una persona colta, di parlare dialetto – quando a dire il vero parla un italiano regionale – e si tenta di dequalificarlo per questo, anche se probabilmente la sua scelta in quel contesto era più che giustificata: parlando “come un libro stampato” non sarebbe mai “arrivato”.

Coloro che intervengono sul profilo di INPS per la famiglia vengono additati come ignoranti non solo per le domande che fanno, ma anche per il modo con il quale le pongono, a dimostrazione che gli errori linguistici hanno una potenza stigmatizzante: se scrivi male, fai percepire che sei un ignorante; le loro scelte linguistiche vengono usate per metterli alla berlina.

Nel terzo caso, una persona colta esibisce un pregiudizio linguistico che difende con una certa aggressività, anche di fronte ad argomentazioni ragionevoli: la convinzione di essere nel giusto non viene intaccata nemmeno da controargomentazioni valide; in altre parole, non c’è autopercezione del limite della propria conoscenza (linguistica).

Sono tre esempi di crisi alle quali assistiamo spesso (o magari vi finiamo coinvolti), sia online che offline. E ognuno di noi, nel suo piccolo (o nel suo grande), può ritrovarsi a doverne gestire una, o dalla parte di chi blasta o dalla parte di chi viene blastato.

Siamo nel terzo millennio, eppure la lingua esibita da una persona è ancora adesso uno dei motivi principali per deriderla, per depotenziarne le istanze, per prendersene gioco.

E, d’altro canto, sembra che sia anche molto comune la convinzione di saperne abbastanza su un argomento da poter deridere o insultare qualcun altro per la sua ignoranza. Alla fine, pare di essere continuamente esposti al giudizio altrui, tanto più in rete.

Viene voglia di non dire e scrivere nemmeno una parola, per paura di sbagliare… Ma ovviamente non è la strategia migliore per risolvere i problemi.

Abbiamo sempre bisogno delle parole

L’iperconnessione ha fatto sì che i posti per “nascondersi” dalla necessità di comunicare siano diminuiti: in altre parole, tutti abbiamo bisogno di migliorarci, linguisticamente parlando, perché non possiamo evitare di comunicare. E allora, facciamolo al meglio delle nostre possibilità.

Imparare a comunicare meglio inizia dal recepire con più attenzione ciò che gli altri dicono e scrivono. Abbiamo la convinzione che, siccome i mezzi che usiamo per inviarci messaggi sono veloci (cioè la comunicazione arriva velocemente, in un batter d’occhio, da A a B), noi stessi siamo in qualche modo costretti a essere altrettanto veloci, sia quando leggiamo e ascoltiamo che quando parliamo e scriviamo. Possiamo invece tentare di recuperare il valore del tempo, di quei pochi secondi in più per riflettere su ciò che abbiamo appena letto o sentito, magari per dubitarne, e per chiederci se stiamo per dire e scrivere davvero ciò che vogliamo dire e scrivere.

Il nostro social networking può, con un po’ di impegno, diventare slow-cial networking.

La semplice mossa di concederci un po’ di tempo in più per comprendere e, parallelamente, per comunicare, può diventare un primo passo tutto sommato semplice nella direzione di renderci persone più forti, più potenti, meno schiave delle sollecitazioni e delle decisioni altrui. Finché continueremo a leggere senza capire e a scrivere senza pensare non potremo che essere pedine nelle mani di persone che ci muoveranno a loro piacimento, come, del resto, vediamo spesso succedere.

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