Le grandi piattaforme Internet ci condizionano molto più di quanto riusciamo a renderci conto. Hanno scavalcato la mediazione tra l’utente e l’informazione che era tipica dei media tradizionali e anche la “disintermediazione” intesa come rapporto orizzontale, diretto (tra, ad esempio, i politici e i loro elettori) per porsi come “neointermediari” che gestiscono e raccolgono informazioni da e per gli utenti grazie ad algoritmi per nulla trasparenti.
Si assiste quindi a un paradosso: mai c’è stata più informazione a disposizione dell’uomo ma mai è stata così frammentata e polarizzata. Ne sono un esempio le echo chambers, sul cui potere di influenza, tuttavia, i pareri sono discordanti.
Si tratta di temi complessi che attraversano tutti gli aspetti del nostro vivere quotidiano, fino a investire il concetto stesso di democrazia e che vengono esaminati nel libro “Potere Digitale. Come Internet sta cambiando la sfera pubblica e la democrazia” (Meltemi editore) di Gabriele Giacomini (uno degli autori di questo articolo, Ndr.), recentemente pubblicato, che vuole fare luce sulle ambiguità, sui sodalizi, sulle compenetrazioni fra potere e tecnologie digitali.
Il potere digitale
Nell’epoca della grande rivoluzione informatica, delle piattaforme online, delle multinazionali hi-tech che fatturano miliardi, grandi come Stati possiamo innanzitutto affermare che la Storia non è finita (diversamente da quanto pensava Francis Fukuyama). E non sono finite nemmeno le mille e cangianti manifestazioni del potere, le quali non a caso vanno a braccetto con il farsi della Storia. Siamo quindi di fronte ad un potere che si innova e si rinnova: il potere digitale. Non potrebbe essere altrimenti.
Nel bel mezzo delle “euforie” degli anni ‘90 e dei primi anni 2000, numerosi ed autorevoli studiosi auspicavano che il Web avrebbe permesso ai cittadini di comunicare orizzontalmente, direttamente fra loro (le famose comunità virtuali di Rheingold, modello virtuoso di partecipazione e democrazia – ma fondato sempre su una dimensione relativamente piccola), superando le classiche intermediazioni dei giornali o delle televisioni. Sostenevano inoltre che le fonti di informazione si sarebbero moltiplicate a dismisura, dando vita ad una società più aperta, inclusiva, plurale. Ciò in parte si è realizzato, ad esempio nell’ambito della cultura dell’open source, dei blog, delle piattaforme civiche e in altre interessanti esperienze.
Tuttavia, le grandi piattaforme (come Facebook, Twitter, Instagram ecc, dove avvengono gran parte dei nostri scambi comunicativi) influenzano, condizionano, con un sottile ma pervasivo “verticismo” che contrasta con l’ideale “orizzontalistico” di cui accennavamo prima. Ad esempio, quando pubblico un post su Facebook, gli algoritmi della piattaforma decidono come e in che misura questo post appare sugli schermi dei miei amici. E questa è una forma di potere fra le più importanti. Le grandi piattaforme si sono “appropriate” del quarto potere che consiste nel creare la propria agenda setting (selezionare le informazioni da divulgare come un gate keeper) e nell’indicizzare (quale importanza attribuire alle notizie), un tempo prerogative esclusive dei giornali.
Disintermediazione e neointermediazione
È opportuno riflettere criticamente sull’idea di disintermediazione, nata originariamente in ambito economico e finanziario, che può essere definita in generale come l’attività di rimuovere intermediari da un qualche tipo di relazione. Più specificatamente nel nostro discorso, il termine indica la capacità di autorappresentarsi e comunicare in prima persona, superando attraverso Internet (a, ancora di più, attraverso il Web interattivo 2.0) la mediazione tradizionalmente svolta dai mezzi di comunicazione come i giornali, le radio e le televisioni. Per disintermediazione si intende, ad esempio, sia la capacità dei politici di rapportarsi “direttamente” con i cittadini, sia quella dei cittadini di mettersi “direttamente” in rapporto con i loro rappresentanti e “orizzontalmente” fra di loro, scavalcando le tradizionali forme di intermediazioni dei mass media (dei giornalisti e delle redazioni, ad esempio). Nel discorso della disintermediazione manca, però, il convitato di pietra.
La tesi sostenuta nel libro “Potere digitale. Come Internet sta cambiando la sfera pubblica e la democrazia” (Meltemi 2018) è che il concetto di disintermediazione può essere inteso e considerato da due differenti punti di vista.
Da un lato la disintermediazione può essere intesa in senso stretto, rispetto a quanto siamo soliti conoscere, studiare e frequentare, in maniera quindi storicamente situata. Sotto questa prospettiva, si può sostenere che la rete abbia contribuito a “disintermediare” gli intermediari tradizionali: i media digitali in effetti superano in parte (e mettono in crisi) le figure di intermediari tipiche del Novecento. Dall’altro lato, però, la disintermediazione può essere intesa in senso ampio. Se intendiamo l’intermediazione in senso etimologico, in senso assoluto e non in rapporto a qualcosa di precedente, il concetto di disintermediazione non sembra più adeguato ed è certamente più consono quello di neointermediazione.
I media digitali, infatti, superano l’idea di intermediario come è stata intesa finora, ma non la superano in assoluto. Ne sono invece stati introdotti di inediti, diversi rispetto ai precedenti ma non per questo trascurabili. L’azione delle piattaforme di prendere decisioni su quello che può apparire maggiormente di altro, di organizzare e di monetizzare l’informazione, le scelte su cosa può essere rimosso e cosa no, sono tutti interventi sostanziali nell’ambito del discorso pubblico, facendo delle piattaforme digitali dei veri e propri neointermediari.
La caratteristica principale del neointermediario
La caratteristica principale del neointermediario è la sua invisibilità nel gestire, raccogliere e reindirizzare sulla base di algoritmi – segretissimi quanto la formula della Cocacola – informazioni dagli e per gli utenti. L’aspetto dell’opacità, del resto, fu già anticipato nel 1998 in “Il Computer invisibile”, saggio sull’ergonomica informatica di Donald Norman, lo psicologo dell’MIT celebre per “La caffetteria del masochista”.
La tesi del libro era che il computer svolgeva troppe funzioni in sé per poter svolgere tutte efficacemente, che si sarebbero dovuti pertanto innestare computer diffusi e invisibili per gestire ad esempio l’ambiente domestico, e creare così una rete (“ne risulterà un intero sistema di infodomestici potenti e interconnessi, in grado di offrire capacità oggi neppure immaginabili”, ovvero l’attuale internet of things), ma soprattutto l’avvento di Internet avrebbe permesso al computer di diventare uno strumento capace di fare molte più cose e di comunicare con tutto il mondo in una sua opacità (non sappiamo quello che avviene dentro e dietro il dispositivo anche perchè le interfacce devono renderci tutto più immediato e intuitivo, a portata di utente).
Echo chambers e ricerca personalizzata
Inoltre, se è vero che Internet ha aumentato il numero di fonti di informazione a disposizione, è altrettanto vero che gli algoritmi delle piattaforme (per scopi commerciali) fanno in modo che gli utenti siano esposti questi esclusivamente alle notizie che gradiscono (avete mai sentito parlare delle “echo chambers”?).
Se cerco una parola su Google, i miei risultati sono diversi da quelli di chiunque altro (la celebre “personalized search”). Google profila il mio comportamento e tende ad offrire risultati in linea con le mie preferenze, le mie idee, i miei valori, in maniera tale che percepisca il suo servizio come più gradevole.
Il problema è che così si riducono gli incontri casuali, quelli con coloro che sono diversi da noi. Eppure, sostenevano i Voltaire, i John Stuart Mill, i padri nella nostra civiltà politica, il dialogo fra differenze dovrebbe essere il lievito della democrazia.
Insomma, con l’avvento dei media digitali sembra essersi inaugurata una dissonanza: i media aumentano per tutti la possibilità di esprimere la propria voce (in termini quantitativi) ma al tempo stesso sembra aumentare – in maniera quasi paradossale – anche la distanza fra queste voci, mettendo quindi in difficoltà il raggiungimento delle finalità che dovrebbe avere un sistema politico pluralista (in termini qualitativi).
Il paradosso del pluralismo
Siamo di fronte a ciò che in “Potere digitale” (Meltemi 2018) è stato chiamato il “paradosso del pluralismo”: da un lato i media digitali aumentano per tutti la possibilità di esprimere la propria voce, dall’altro lato sembra aumentare anche la distanza fra queste voci, la loro polarizzazione, mettendo in difficoltà il raggiungimento delle finalità di un sistema politico pluralista (non meramente plurale). Sorte ironica, quella di Internet ai tempi delle piattaforme: nella storia dell’Uomo non c’è mai stata tanta informazione come sul Web, eppure il suo utilizzo – a quanto pare – non è mai stato tanto frammentato e polarizzato.
Quella delle echo chamber ricorda la tendenza che è stata ricorrente nella storia, a diversi gradi di efficacia, in diversi regimi autoritari: bloccare le informazioni contrarie al regime e proporre solamente quelle a questo favorevole. Eppure, come insegna Castells, nei media stessi si è trovata la soluzione, ad esempio ricorrendo a media alternativi oppure, come è avvenuto in molti Paesi dell’Est, beneficiando dei flussi di informazione provenienti dal mondo libero che erano impossibili da bloccare completamente. Ciò che in genere rende più stabile il regime da una parte è la ridondanza di informazioni a suo favore, dall’altro la rete di controllo che riesce ad esercitare in maniera totalitaria attraverso il meccanismo della paura, del sospetto di delazioni (anche di intimi e famigliari) che alimenta la sensazione o di un Panottico sempre potenzialmente attivo.
Non bastano insomma i media a condizionare le persone, serve anche la violenza del potere (e il terrore che esso può generare). Tornando al nostro caso, è chiaro che l’echo chamber può funzionare lì dove la persona è isolata su un flusso unico di informazioni. Ma è possibile che in ogni gruppo vi siano persone che in qualche maniera sono meno immerse nell’echo chamber o filter bubble e che, come dei visitatori, fanno da collegamento tra fuori e dentro il gruppo (attivando i famosi legami deboli di Granovetter).
Il tema è complesso, quindi, e il dibattito scientifico sulle echo chambers è tuttora aperto. Alcuni ritengono che i loro effetti siano stati sopravvalutati: perché la dieta mediale delle persone non prevede soltanto le piattaforme (è invece variabile e soprattutto ibrida), perché gli studi sulle echo chambers sono stati condotti sulle comunità di Internet composte dalle persone più attive e quindi “partigiane” (e non sulla “maggioranza silenziosa” degli utenti), perché non mancano i casi di confronto dialogico (ad esempio nelle piattaforme civiche). Considerazioni che lasciano ben sperare. Tuttavia, anche se le echo chambers dovessero (come si auspica) rivelarsi tutto sommato trascurabili nei loro effetti, parafrasando Norberto Bobbio il compito degli intellettuali dovrebbe pur sempre essere quello di seminare dubbi.
Di questo, e di altro, parla “Potere digitale” di Gabriele Giacomini (Meltemi edizioni). Attraverso un’analisi dei recenti cambiamenti sociali, questo lavoro affronta problemi come la crisi dei partiti e dei media tradizionali, l’affacciarsi di nuovi intermediari (come le piattaforme social), la frammentazione e la polarizzazione della sfera pubblica, la sfida della partecipazione online fra limiti e opportunità, l’ipotesi della democrazia digitale. Il web è il luogo dell’informazione libera e autonoma o le informazioni si stanno organizzando attorno a inediti centri di potere? Internet promuove un pluralismo dialogico o rischia di nutrire una crescente polarizzazione? La democrazia rappresentativa è da superare oppure rimane la soluzione migliore per governare?
La democrazia è un sistema aperto (quindi sempre imperfetto e in evoluzione), ma è anche responsabilizzante: è compito dei cittadini e delle classi dirigenti gestire al meglio gli esiti dell’innovazione tecnologica.