Siamo sicuri che l’informatica sia una disciplina solo scientifica? Nel senso, intendiamo, in cui la cultura scientifica viene ancora oggi pigramente considerata distinta o addirittura alternativa a quella umanistica. In realtà ci sono diverse ragioni che dovrebbero far sospettare il contrario. L’informatica è qualcosa di affine alla logica, che è stata inventata da un filosofo greco, Aristotele, ed è una disciplina filosofica. L’informatica incorpora in maniera formalizzata molti dei precetti sullo stile del pensiero che hanno segnato la storia della filosofia. L’informatica utilizza molte metafore, a partire da quella del «linguaggio» di programmazione, che fanno riferimento all’ambito letterario. L’informatica è uno dei campi cruciali a partire dai quali porsi i problemi tipicamente umani della comprensione del pensiero (e questo vale fin dai fondatori del secolo scorso, per esempio Alan Turing e John von Neumann). L’informatica è vettore di comunicazione. E così via. Sono tutti temi che varrebbe la pena di affrontare singolarmente e comincerebbero a far sospettare che la profonda trasformazione che l’informatica può indurre nei sistemi educativi e della ricerca possa essere anche l’occasione per ricomporre una frattura tra «due culture» che si mostra sempre meno sensata e più dannosa.
Ma oltre che partire dall’alto dei problemi e della loro collocazione storica è possibile partire dal basso, e vedere come un esperimento di creazione informatica possa coinvolgere come attori e protagonisti studenti e docenti di discipline filosofiche e letterarie. È ciò che da circa un anno si sta facendo all’Università di Roma Tor Vergata con Potest, un nuovo sistema di scrittura concepito per gli usi umanistici. Nelle facoltà scientifiche lo standard per la scrittura è LaTeX: un sistema eccellente, ma ritagliato su misura per gli usi matematico-scientifici, con una complessità che pochissimi studenti di materie umanistiche riterrebbero un buon investimento, figlio inoltre di un tempo in cui lavorare al computer significava sempre e solo usare il terminale e avere il proprio «editor di testo preferito» (Vim o Emacs?). Ma l’alternativa a ciò è solo il solito, onnipresente programma di scrittura?
Basta pensare di no, cercare di ripartire da zero e immaginare quali siano le esigenze di scrittura tipiche, poniamo, di chi studia filosofia. Come tutti oggi, desidera lavorare all’interno di un ambiente di lavoro unico, senza dover combinare programmi diversi tra loro: elaboriamo dunque l’interfaccia utente più semplice possibile, in cui ogni particolare sia studiato per nascondere la complessità soggiacente. Ha bisogno di scrivere facilmente in diversi alfabeti: non solo i segni diacritici di tutte le lingue europee, ma anche il greco, il cirillico, e altri alfabeti ancora: bisogna dunque integrare nel sistema di scrittura i comuni sistemi di inserimento usati nelle varie filologie. L’onnipresente sistema wysiwig («ciò che vedi è ciò che ottieni») non ha utilità per la normale stesura di articoli, tesi, libri tipici del campo umanistico: allora abbandoniamolo e adottiamo markdown, un linguaggio leggero di marcatura del tipo di quello che ha permesso che Wikipedia diventasse la più grande opera letteraria collettiva della storia dell’umanità. La composizione dei testi ormai è orientata solo in parte alla carta, e in maniera crescente a formati elettronici: allora il formato di uscita preferibile dev’essere l’HTML, che con le ultime versioni dei Cascading Style Sheets può anche rivaleggiare con i migliori sistemi di composizione tipografica. Uno studente non vuole perdere tempo a seguire norme grafiche per la tesi: prevediamo allora un formato che permetta di generare in pochi secondi il file finale della tesi applicando automaticamente le norme stabilite. Le esigenze di archiviazione e di condivisione diventano cruciali in un universo culturale sempre più connesso e disponibile all’open access: i testi prodotti devono essere allora fin dall’inizio dotati degli adatti metadati per permetterne una classificazione efficiente. Un programma dev’essere simpatico? Aggiungiamo un bel patatino scrittore come mascotte: in fondo la patata non è il cibo più semplice che piace a tutti?
Quello che abbiamo qui tentato di descrivere è l’itinerario che ha condotto, in anni di studio preparatorio e in mesi di lavoro più intenso, ad un prototipo ormai perfettamente funzionante e per ora tarato per la composizione di tesi di laurea a Tor Vergata: diversi programmi liberi o gratuiti sono combinati insieme grazie a qualche migliaio di righe di codice originale. Ogni particolare è stato valutato, discusso, provato con chi ne sarebbe stato l’utente e ha visto con entusiasmo crescere sotto i suoi occhi il sistema che desiderava. Ogni volta che veniva chiesto se era possibile introdurre una nuova funzione, la risposta era: «Se sei in grado di descriverla esattamente, è possibile!» Al di là del risultato finale, questo è l’aspetto forse più interessante. Certo, è necessario che ci sia qualcuno che abbia le competenze per programmare, che conosca le API dei programmi riutilizzati per poterli combinare insieme: ma altrettanto cruciale è che ci siano persone che capiscano qual è il loro modo di lavorare, che abbiano voglia di sperimentare strade nuove, che sappiano che l’informatica non significa usare cose, ma crearle, e saperle modificare in maniera che piacciano, attirino, aiutino. Ci dice una studentessa: «All’inizio hai difficoltà, ma poi non riesci più a scrivere con altri programmi: è un po’ come il caffè, pensi di sentire il sapore anche zuccherandolo, ma quando impari a prenderlo senza zucchero capisci il suo vero sapore e non puoi più berlo diversamente». Un’altra commenta: «Ha tutto e solo ciò che serve, fa venir voglia di scrivere anche se non si ha nulla da scrivere». «Potest è magico», si entusiasma un’altra ancora, «mi ha cambiato la percezione delle cose». «Sto provando la nuova versione ed è bellissima!», incoraggia un collega, «Mi sembra di essere tornato bambino, quando i miei mi regalarono il mio primo trenino: smisi solo quando bruciai il motorino».
Nessun sistema informatico in sé, acquistato bell’e pronto, potrebbe essere accolto così. Forse il programma di cui si parla è in fin dei conti la cosa meno importante. Questo è invece il modo in cui le persone sperimentano la propria creatività, il proprio interesse. Non è facile immaginare come questo possa diventare uno stimolo per un nuovo modello di didattica dell’informatica, per esempio. Forse però la sfida è coniugare lo spirito inventivo che animava gli utenti dei primi personal computer degli anni 80, che riuscivano a sentirsi completamente padroni di macchine all’epoca molto semplici, con la ricchezza delle possibilità di oggi: questo può rendere l’informatica uno straordinario moltiplicatore di interesse, di consapevolezza, di spirito creativo.