Preservare l’umano nella società digitale significa soprattutto disegnare oggi ed immaginare per domani una cultura digitale che sia sostanzialmente antropica, capace cioè di custodire la vita umana ma non solo. Mettere l’uomo al centro è una espressione certamente efficace, ma che rischia di essere semplicistica nel momento in cui è necessario declinarla in scelte concrete.
L’antropocentrismo come sappiamo è stato sottoposto a dura critica soprattutto in relazione a questioni di etica ambientale ed un antropocentrismo forte, che riconosce diritti esclusivamente all’essere umano, è una posizione difficilmente sostenibile.
Chiesa e digital: il pensiero
La trasformazione digitale comporta uno sguardo complesso su di una realtà estremamente complessa. Dunque uno sguardo che sia il più possibile multidisciplinare e senza precomprensioni, includendo quello sguardo altro di cui sempre più l’omologazione e la contemporanea frammentazione dei saperi necessita. In questa prospettiva anche il sapere teologico, forte di una epistemologia provata ed un “atterraggio” storico altrettanto provato, può essere uno strumento a servizio anche di chi non ne condivide i presupposti di credenza. Rispetto alla trasformazione digitale, l’interesse della Chiesa e del suo pensare non sono affatto una recente scoperta, ma affondano nei primordi stessi della digitalizzazione a cui diversi uomini e donne di Chiesa hanno contribuito.
Al riguardo, il Santo Padre Francesco ha avuto modo di sottolineare come: “L’ambiente digitale rappresenta per la Chiesa una sfida su molteplici livelli; è imprescindibile quindi approfondire la conoscenza delle sue dinamiche e la sua portata dal punto di vista antropologico ed etico. Esso richiede non solo di abitarlo e di promuovere le sue potenzialità comunicative in vista dell’annuncio cristiano, ma anche di impregnare di Vangelo le sue culture e le sue dinamiche”.
Il valore del bene comune
Come declinare allora, in scelte ed architetture, la centralità dell’umano? Credo particolarmente interessante accostare a questo auspicio il trascendentale bene comune. Esso è espressione validata nelle carte costituzionali e nei grandi trattati internazionali, ma che fa poi fatica ad essere declinata in specifici. Per alcuni il bene comune è un concetto ormai impraticabile in un mondo fortemente individuale e multiculturale. Mi pare questa una posizione che impoverisce il dibattito e ne esclude un elemento forse risolutivo. Il mio punto di vista ha una matrice credente per cui rivendico la possibilità di conferire al dibattito un potenziale arricchimento di senso, anche per coloro che non ne condividono la prospettiva di partenza.
Infatti l’argomento valoriale, qualunque matrice esso abbia, è forse quanto oggi manca nel dibattito sulla cultura digitale spesso solipsisticamente chiusa in un vulnus computazionale ed epistemico. Introdurre nella questione della centralità dell’umano il bene comune significa recuperare la dimensione di prossimità e di relazionalità che la semplice efficienza e connessione computazionale non possono considerare. Bene comune significa prima di tutto non l’adesione ad un quadro etico o di interessi diversi condivisi che permettano la sussistenza di rapporti sociali, ma piuttosto una cornice in cui l’agire diventa una determinazione di sé, dell’indole relazionale e personalistica dell’essere umano. Dunque il bene comune non è prima di tutto un corpus in qualche modo negoziato tra singolo e molteplicità o tra tradizioni culturali diverse chiamate ad insistere nello stesso tempo e nello stesso luogo.
Esso si configura piuttosto come un appello all’intima radice personale e libertaria dell’individuo. La prossimità non è una scelta o una opzione, la posso solo riconoscere ed accogliere: l’altro c’è, il vederlo e comprenderlo mi restituisce una dimensione personale, un io finalmente riconoscibile da un tu ed un noi in forza del quale dare senso al mio io altrimenti isolato ed incapace di generare. In questa prospettiva il prossimo non è una minaccia, ma una risorsa indispensabile, un bene che sussiste solo perché riconosciuto come comune.
In questa prospettiva, che non possiamo approfondire in tutte le sue conseguenze, il bene comune nella cultura digitale assume una nuova e più densa significanza. Se la società digitale assume come fine il bene comune, tale fine ne giudica continuamente i mezzi e custodisce la centralità dell’essere umano entro i termini in cui egli riconosce ed agisce per riconoscere l’essere umano altro da sé e con esso il mondo che lo circonda che diventa strumento necessario a tale custodia.
Conclusione
Concludo con una citazione da un romanzo di Dezső Kosztolány, Anna Édes:
“Lei ama il genere umano, vero?
– Io? Non lo amo.
– Come?
– Non lo amo perché non l’ho mai visto, non lo conosco. Il genere umano è un concetto vuoto. E faccia attenzione, consigliere, al fatto che tutti i mascalzoni dicono di amare il genere umano. Il genere umano è l’ideale dell’egoista, del subdolo, di quello che non dà nemmeno un pezzo di pane al proprio fratello. Impiccano e uccidono esseri umani, ma amano il genere umano. Profanano il proprio altare familiare, cacciano di casa le loro mogli, non si occupano dei loro padri, delle loro madri, dei loro figli ma amano il genere umano. Non esiste un altro concetto più comodo. Infine, non ti obbliga a niente. Mai nessuno verrà incontro a me presentandosi, “io sono il genere umano”. Il genere umano non chiede da mangiare, non vuole vestiti, si tiene a debita distanza, sullo sfondo, con la gloria sulla fronte augusta. Esistono solo Pietro e Paolo. Solo uomini. Il genere umano non esiste”.
Nella cultura digitale non può esistere un generico essere umano al centro, esiste il mio prossimo che posso amare o odiare. Nella cultura digitale io posso creare un’architettura di senso, di strumenti, di regole e di prassi che mi permettano di amare il prossimo, possibilmente come me stesso, così da poter esserne riamato.