l'analisi

Professione influencer: le tutele del diritto comunitario, gli interventi attesi

Nell’ordinamento italiano non esistono tutele idonee per la figura dell’influencer. Guardiamo allora al fenomeno del lavoro tramite social network da un punto di vista del diritto comunitario

Pubblicato il 03 Mar 2022

Paolo Iervolino

Comitato Scientifico di Assoinfluencer - Assegnista di ricerca in diritto del lavoro Università di Palermo

Isabella Assunta Monteleone

Comitato Scientifico dell’Associazione Italiana Influencer

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In quanto figura ancora emergente sul mercato del lavoro, l’influencer risulta purtroppo oggi ancora del tutto priva di adeguate tutele normative. Ed invero sembrerebbe non essere minimamente tenuta in conto dal legislatore italiano, il quale dovrebbe invece intervenire per offrire una più incisiva regolamentazione del lavoro tramite piattaforma, rispetto a quella sinora prospettata, dalla quale l’influencer è escluso.

In suo aiuto arriva però il diritto comunitario.

Come campa un influencer? Vantaggi e tutele solo per pochi

L’influencer e il platform work nel diritto comunitario

Una volta constatato che, nel nostro ordinamento, non esistono tutele idonee per la figura dell’influencer, potrebbe risultare utile, anche per avere una visione di più ampio respiro, guardare – in una prospettiva de iure condendo – al fenomeno del lavoro tramite social network da un punto di vista del diritto eurounitario, l’appartenenza all’Unione Europa comporta l’applicazione all’interno degli Stati membri degli interventi normativi di matrice comunitaria e laddove vi fossero riferimenti legislativi astrattamente riconducibili alla figura dell’influencer, potrebbe prospettarsi un futuro migliore per questa nuova categoria di lavoratori; sempre che – come si dirà – questi interventi vengano poi correttamente recepiti dal legislatore italiano, fatta eccezione per le fonti Self-Executing.

Il diritto comunitario ha sempre cercato di ricondurre a sistema il lavoro digitale della quarta rivoluzione industriale sotto la denominazione di platform work, ovvero lavoro tramite piattaforma. E poiché, come anticipato, il lavoro degli influencer è a tutti gli effetti lavoro tramite piattaforma, significa che ogni intervento normativo eurounitario volto alla regolamentazione del platform work può essere astrattamente riconducibile anche a questa nuova categoria di lavoratori.

L’Europa si è infatti interessata al lavoro tramite piattaforme digitali sin dall’Agenda europea per l’economia collaborativa, Communication COM(2016 )356, invitando gli Stati membri non solo a garantire per questa categoria (traduzione degli scriventi) «condizioni di lavoro eque e adeguate e protezione sociale sostenibile», ma anche a valutare «l’adeguatezza della normativa giuslavoristica, considerando le diverse esigenze dei lavoratori e dei lavoratori autonomi nel mondo digitale, nonché della natura innovativa del modello di business collaborativo». Pur tuttavia, non trattandosi di un intervento normativo, ma di tipo programmatico, nessuno Stato membro ha inteso dare attuazione all’Agenda.

Il lavoro tramite piattaforma nella Direttiva (UE) 2019/1152

Proseguendo oltre, ma rimanendo sempre all’interno del perimetro di interesse degli influencer, il lavoro tramite piattaforma è stato poi finalmente ricompreso dal legislatore comunitario nella Direttiva (UE) 2019/1152 in merito alle “Condizioni di lavoro trasparenti e prevedibili nell’Unione europea”, la quale prevede il diritto a condizioni di lavoro che rispettino la salute, la sicurezza e la dignità del lavoratore, che limitino il numero massimo di ore di lavoro, a periodi di riposo giornalieri e settimanali e un periodo annuale di congedo retribuito. Un intervento, quest’ultimo che potrebbe costituire un punto di partenza ragionevole nella regolamentazione di questa nuova figura, i cui ritmi di lavoro sono del tutto dipendenti dagli algoritmi che governano le piattaforme dei social media la cui regolamentazione, a loro volta, non è democratica.

La direttiva relativa al miglioramento delle condizioni di lavoro nel lavoro mediante piattaforme digitali

Da ultimo, la direttiva adottata dalla Commissione Europea, in data 9 dicembre 2021, avente ad oggetto i problemi qualificatori del lavoro tramite piattaforma generalmente inteso, che intende agevolare i lavoratori per quel che riguarda l’onere della prova attraverso una presunzione di subordinazione.

Le condizioni che determinano la subordinazione dalla piattaforma

L’agevolazione probatoria nei confronti della piattaforma opererà in caso di contemporanea presenza di almeno due delle seguenti cinque condizioni:

  • la piattaforma digitale determina unilateralmente il compenso;
  • la piattaforma digitale richiede al lavoratore l’adozione di specifici comportamenti (circa, ad es., l’abbigliamento, il rapporto con il cliente, la modalità di svolgimento dell’attività lavorativa);
  • la piattaforma digitale supervisiona l’attività lavorativa o verifica la qualità del lavoro svolto, anche tramite mezzi elettronici;
  • la piattaforma digitale interferisce con la organizzazione del lavoratore, limitando, anche tramite sanzioni, l’autonomia organizzativa dello stesso per quanto riguarda, ad esempio, la libertà di individuare i tempi di lavoro o i periodi di assenza dal lavoro e la libertà di accettare o rifiutare gli incarichi o di “subappaltare” l’attività;
  • la piattaforma digitale limita la possibilità, per il lavoratore, di acquisire clientela o di lavorare per più committenti.

La trasparenza dell’algoritmo

In aggiunta alla presunzione di subordinazione, il progetto di direttiva impone in ogni caso la trasparenza dell’algoritmo: il lavoratore tramite piattaforma (a prescindere dalla qualificazione), ha il diritto non solo di conoscere sin dal primo giorno di lavoro come l’algoritmo procede a controllare ovvero valutare le prestazioni lavorative e a formulare il cosiddetto ranking reputazionale, ma anche di conoscere modalità e criteri di distribuzione degli incarichi di lavoro, nonché di determinazione dei guadagni, di protezione della sicurezza e salute sul lavoro, di determinazione dell’orario di lavoro, delle promozioni e dell’eventuale sospensione o la chiusura dell’account personale da parte della piattaforma[1].

Venendo poi alla prima parte della Direttiva del 9 dicembre 2021, in una prospettiva de iure condendo, ben potrebbe dirsi che l’influencer integri sempre almeno due dei cinque requisiti richiesti dalla Commissione Europea, ma sarebbe un po’ miope pensare che questa categoria di lavoratori voglia essere subordinata. Anzi, è lecito pensare (l’opposto e cioè) che questa nuova figura professionale rifugga dalle tradizionali contrattualizzazioni, non essendo il loro principale bisogno la riqualificazione del rapporto, ma il riconoscimento sociale.

Il lavoro tramite social media

In questo senso, allora, sarebbe molto più appagante se, in sede di discussione dell’intervento normativo attuativo delle (condivisibili) tutele contenute nella Direttiva (UE) 2019/1152, si tenesse debitamente conto anche del lavoro tramite social media, quantomeno per aprire seriamente una riflessione sul tema. Poiché gli Stati membri dell’UE dovranno recepire dette disposizioni all’interno del proprio ordinamento entro il 1º agosto 2022, sarebbe infatti auspicabile che il legislatore nazionale estenda il più possibile il perimetro di azione del lavoro tramite piattaforma, sì da ricondurvi anche quello dell’influencer.

Ma ciò sarà possibile solamente quando gli interpreti del mercato del lavoro saranno debitamente aggiornati sui cambiamenti intercorsi con la “digital trasformation”. Compito quest’ultimo che spetta solo agli organismi di rappresentanza degli influencer, che iniziano infatti a spuntare nei vari Paesi del mondo – si pensi ad Assoinfluencer in Italia e AIC in America – per far aumentare la consapevolezza delle istituzioni rispetto questa nuova figura di lavoro tramite social network.

Una maggiore consapevolezza, peraltro, che servirebbe anche ai corpi intermedi, al momento concentrati solamente su una parte del lavoro tramite piattaforma, quello dei rider. Potrebbe risultare anzi utile, a questo proposito, riprendere la disposizione (art. 4.3, lett. c) contenuta nell’atto costitutivo di Assoinfluencer, che intende, per l’appunto, promuovere la stipulazione di contratti collettivi nazionali, laddove questa risultasse essere una soluzione condivisa «ai problemi che ineriscono allo svolgimento dell’attività degli influencer».

Peraltro, se prima poteva risultare problematico, proprio alla luce della giurisprudenza eurounitaria (v. sentenze Albany e FNV Kunsten), estendere l’istituto della contrattazione collettiva nei confronti dei lavoratori autonomi (il diritto comunitario non distingue il lavoratore autonomo dall’imprenditore), bisognerebbe ora recepire con forza un altro (ed utile) segnale del legislatore europeo.

Proprio perché il lavoro tramite piattaforma tout court, ma (come chiarito in precedenza) a maggior ragione quello degli influencer, rifugge il tradizionale lavoro subordinato, la Commissione europea ha dato il via ad una consultazione pubblica – che si è chiusa il 24 febbraio 2022 – finalizzata a comprendere se possa risultare utile una riconsiderazione dell’articolo 101 del TFUE che, attualmente, vieta qualsiasi accordo tra imprese (e dunque anche tra imprese e lavoratori autonomi), decisioni di associazioni di imprese e pratiche concordate che incidono sul commercio tra paesi dell’UE che potrebbero impedire, limitare o falsare la concorrenza.

Così facendo, troverebbe avallo anche nel diritto comunitario, quell’interesse collettivo dei lavoratori tramite social network che già evidenziano i vari organismi di rappresentanza succitati.

Conclusioni

Tutto dipenderà da come gli attori del mercato del lavoro andranno ad interpretare i segnali di un cambiamento ancora non debitamente compreso, ma che necessita di riconoscimento, a prescindere poi dal fatto che esso sia espressione del legislatore ovvero dei corpi intermedi, perché una politica del diritto costituzionalmente orientata vorrebbe che il lavoro venisse tutelato in tutte le sue forme ed applicazioni.

Note

  1. A questo proposito, infatti, – utilizzando le parole del Presidente di Assoinfluencer durante l’audizione presso la Camera dei deputati – va segnalato che «La necessità di mantenere un livello di performance elevato al fine di garantirsi una stabilità reddituale in molti casi spinge il professionista a ritmi lavorativi insalubri con la creazione e diffusione di contenuti digitali pressoché giornaliera. Tutto ciò al fine di scongiurare il rischio di un fisiologico calo del livello di engagement oppure una penalizzazione da parte dell’algoritmo che regola la singola piattaforma e che promuove i profili più attivi.» Una decodificazione dell’algoritmo, peraltro, si salderebbe perfettamente alla stessa proposta di Assoinfluencer sul “Time to Rest”: «una funzione da implementare in ogni piattaforma social media e attivabile per un n. X di giorni nell’arco di un anno solare per ciascun utente. Grazie ad essa il relativo account non verrà considerato inattivo nonostante l’assenza di contenuti pubblicati in quello specifico periodo temporale e non subirà penalizzazioni di sorta in termini di indicizzazione, monetizzazione, etc.»

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