Le proteste che stanno dilagando in questi giorni nelle città statunitensi, per l’omicidio di un afroamericano durante un controllo di polizia, offrono numerosi spunti di discussione molto interessanti per chi si occupa di privacy e nuove tecnologie.
In questa sede non tratteremo il tema della morte di George Floyd (non che non ci interessi, sia chiaro); ciò che invece affronteremo è l’aspetto tecnologico della rivolta che, come vedremo, ha assunto un ruolo primario nelle strategie di entrambi gli schieramenti. Il digitale ha mostrato con la massima chiarezza il proprio volto ambivalente. Strumento utile per il progresso dei diritti civili in seno di una società democratica o anche strumento di sorveglianza, repressione e disinformazione.
Tutto è cominciato con un post e uno smartphone
In effetti, i social e la tecnologia sono all’origine stessa della protesta perché – ricordiamolo – Il video dell’arresto di George Floyd è stato reso conoscibile al mondo in quanto trasmesso con una diretta social da una persona che vi ha assistito; e poi diffuso via internet tra il 25 ed il 26 maggio 2020. Senza social forse non sarebbe scoppiato il caso; non avrebbero saputo, non avremmo saputo e tutto sarebbe stato impunito.
Nasce social anche la protesta: tutto è iniziato con un post pubblicato sul profilo Instagram di Alexandria Ocasio-Cortez (deputata statunitense da molti ritenuta possibile futura candidata alla presidenza) con il quale si invitavano i cittadini a prendere tutta una serie di accorgimenti prima di scendere in piazza. In questo post si legge, tra l’altro: indossa la mascherina, raccogli i capelli, porta con te dell’acqua e… disabilita il riconoscimento facciale e la ricezione dati dal telefono.
Questo consiglio, apparentemente banale, nasconde un significato molto importante a parere di chi scrive in quanto ci rivela come le agitazioni siano ormai diventate irrimediabilmente high tech.
In tal senso, mentre la richiesta di togliere il riconoscimento facciale è probabilmente dovuta alla necessità di poter utilizzare il telefono per chiamare i numeri di emergenza (anche nel caso in cui il proprietario abbia perso i sensi), la disabilitazione della ricezione/invio dei dati è verosimilmente dovuta alla necessità di impedire il rintracciamento da parte delle autorità.
Un cellulare acceso, con abilitazione a ricezione ed invio di dati, è un cellulare individuabile. Non solo; un cellulare acceso, porta con sé la possibilità di utilizzare il device per andare sui social o per condividere informazioni che, una volta nelle mani della polizia, possono permettere di individuare i manifestanti, anche a manifestazione ultimata.
La portata di un simile messaggio è incredibile. Insomma, un parlamentare che suggerisce di disabilitare sistemi di tracing non penso che si fosse mai visto in occidente.
Si badi, la Ocasio Cortez non ha in alcun modo incitato a comportamenti illegali, come alcuni sostengono. Ha semplicemente suggerito ai manifestanti di prendere il proprio telefono e di agire su di esso in modo assolutamente legittimo, modificando le impostazioni così da inibire possibili azioni di rintracciamento. E già da quel post traspare tutta l’ambivalenza della tecnologia: strumento di sostegno per dissenso civile e proteste, ma anche strumento che può facilitare la repressione e le indagini.
C’è difatti da ricordare che le accese manifestazioni statunitensi di questi giorni hanno evidenziato un forte conflitto tra cittadini ed una certa parte delle forze dell’ordine, venendo a mancare quella fiducia nel giusto operato della polizia. In questo contesto diventa quindi quasi naturale il sentimento di diffidenza espresso dalla Ocasio Cortez e da molti manifestanti.
Le app dei manifestanti
Già perché, il post della giovane parlamentare non è l’unico elemento tech in questa sommossa popolare.
Come accadde ad Hong Kong solo pochi mesi fa, anche i cittadini statunitensi si sono attrezzati utilizzando tutta una serie di applicativi al fine di meglio contrastare i tentativi di contenimento da parte delle forze dell’ordine. Da sempre, gli organizzatori di simili manifestazioni hanno due principali obiettivi:
- evitare lo scontro con la polizia;
- in caso di scontro, evitare il riconoscimento dei manifestanti.
Citizen e Signal
Non stupisce quindi che sistemi come Citizen e Signal (app di chat scaricabili su dispositivi Apple e Android) si stiano diffondendo a macchia d’olio tra i manifestanti.
Per capire l’estensione del fenomeno occorre guardare i numeri: secondo siti di settore, dal 25 maggio Citizen sarebbe stata scaricata circa 234.000 volte mentre Signal sarebbe stata scaricata da 121.000 persone. All’inizio di questa settimana, Citizen è stata addirittura la quarta app iOS più scaricata in assoluto negli USA. Insomma, il passaparola ha funzionato e la tecnologia sta aiutando i manifestanti nel raggiungimento dei loro due obiettivi principali sopra menzionati.
Citizen, in particolare, è un applicativo che permette agli utenti di scambiarsi informazioni in modo da monitorare in tempo reale le azioni della polizia. Se, ad esempio, le forze dell’ordine si avvicinano passando dalla Quinta strada, i manifestanti vengono informati da altri manifestanti (o da persone comuni) permettendo quindi al corteo di prendere un’altra strada. Ironia vuole che la app sia nata nel passato come app per permettere ai cittadini di cooperare con le forze dell’ordine per segnalare sospetti e furti mentre, ad oggi, come visto, viene utilizzata per difendersi proprio dalla polizia stessa.
Non a caso, nei giorni scorsi Citizen è stata rimossa da Google Play anche se pare sia adesso nuovamente disponibile in diverse città.
Funzioni simili stanno assumendo le diverse app che trasmettono scanner della radio della polizia.
Signal, invece è puramente una app di messaggistica, al pari di WhatsApp. La sua peculiarità è quella di essere, come si dice, “privacy by design e by default”. Si tratta difatti di un applicativo studiato con lo scopo di creare un sistema di messaggistica capace di non raccogliere dati.
I messaggi sono inviati con crittografia end to end, come spesso capita, in modo da evitare il famoso “man in the middle” ovvero al fine di evitare intercettazioni non desiderate da parte di soggetti terzi. Ma non solo, Signal permette di nascondere i messaggi inviati e ricevuti, così da evitare spiacevoli intrusioni nel caso di furto o ritrovamento del device.
Infine, di recente, Signal ha implementato una nuova ed interessante utilità. Signal ha difatti appena lanciato una funzione molto importante per aiutare a proteggere le identità di coloro che protestano per la morte di George Floyd. Gli utenti possono difatti ora sfocare i volti delle foto, è sufficiente selezionare la modalità “sfocatura” e tutti volti vengono automaticamente resi non riconoscibili.
E’ evidente l’utilità di una simile funzione che permette di rendere facilmente irriconoscibile il soggetto fotografato e tutti coloro presenti sullo sfondo. A tal proposito la azienda produttrice della app ha su Forbes dichiarato: “A Signal, sosteniamo le persone che sono scese in strada per far sentire la loro voce.
Crediamo che qualcosa in America debba cambiare e, anche se non sappiamo esattamente come, sosteniamo e confidiamo nelle persone che si auto-organizzano in tutto il paese per capirlo”.
Si tratta quindi di uno strumento fondamentale per i manifestanti che, come visto, grazie a Citizen evitano la polizia e grazie a Signal possono ora diminuire grandemente il rischio di essere riconosciuti.
Il sito 2020Protests invece mostra appuntamenti e raduni avvenuti o pianificati in un posto e permette di inviare sms di protesta a diverse autorità.
Chat e social per raccontare le proteste
Non c’è solo questa funzione per il coordinamento delle proteste e per evitare la polizia. I social stanno servendo anche a raccontare la protesta, portando testimonianza di eventi che altrimenti sarebbero stati probabilmente sconosciuti al pubblico.
Qui ci sono certo altri esempi di police brutality durante la protesta, come il caso noto dell’anziano spinto e lasciato sanguinare a terra; grazie al video i poliziotti sono stati sospesi.
Ma ci sono stati anche altri racconti, a mostrare diversi volti della protesta. Il poliziotto che consola un manifestante in lacrime.
Il video di due uomini e un teenager che dicono quanto si sentono impotenti, la donna arrabbiata per le persone che fanno graffiti su un negozio e altri atti di vandalismo come quella contro una macchina della polizia; e ancora un’altra macchina della polizia che si scaglia contro la folla a New York City.
Fake news e disintermediazione
Tutto utile da conoscere, grazie ai social e gli smartphone, ma con un grande rischio: che questo flusso di testimonianze arrivi anche a essere fuorviante. Il New York Times già si interroga a proposito: questi video, presentati decontestualizzati e senza intermediazione giornalistica, rischiano di mostrare una verità parziale dei fatti. Il rischio è insomma quello di non facilitare la vera e profonda comprensione di ciò che sta succedendo, condizione necessaria per sviluppare un dibattito democratico sui diritti civili tra cittadinanza e autorità, utile a migliorare le condizioni di partenza.
Il flusso dal basso può scadere anche nelle fake news vere e proprie: abbondano i contenuti social secondo cui Floyd in realtà non è morto; e/o che è un complotto ordito e finanziato da George Soros; oppure che dietro ci siano i gruppi di sinistra di Antifa. Accusa, quest’ultima, che è stata fatta propria e promossa dallo stesso presidente USA Donald Trump. Le fake news si diffondono in modo tentacolare, dal basso, ma si avvalgono di voci autorevoli (o presunte tali) e persino istituzionali per prendere il volo, come emerge dagli studi.
I sistemi usati dalle autorità
Di contro e di nuovo: l’ambivalenza della tecnologia. C’è a questo proposito da rilevare come anche le autorità in realtà non siano esattamente sprovviste di “armi” tecnologiche per contrastare i manifestanti.
A tal riguardo, è importante evidenziare come, al già vasto ventaglio di soluzioni di cui disponevano esercito e polizia ad Hong Kong, si siano sommati, di recente, i vari sistemi di tracing nati originariamente per rintracciare e contenere i positivi al COVID.
Il Commissario per la Sicurezza del Minnesota John Harrington, in una recente intervista alla rete televisiva NBC, ha difatti affermato che la polizia sta utilizzando sistemi di contact tracing per individuare i manifestanti pericolosi e per arrestarli. La smentita è arrivata immediatamente con il classico “avete capito male, intendevo dire un’altra cosa”, ma ormai era forse troppo tardi, quantomeno, per evitare che tra i giuristi qualcuno potesse pensare al verificarsi dello scenario tanto atteso: l’utilizzo di app di tracing, per finalità diverse dal contenimento COVID.
Ora, come detto, il Commissario ha smentito, precisando che il suo intento era quello di descrivere una attività investigativa (con mezzi ordinari) volta ad individuare tutte le persone venute in contatto con determinati soggetti ritenuti pericolosi. Tuttavia, questa affermazione ha comunque portato a galla tutta una serie di critiche ed interrogativi già da più parti espressi, nei confronti dei sistemi di tracing.
Per capirci, se i manifestanti utilizzano Citizen e Signal è perché temono di essere a loro volta geolocalizzati o intercettati. Questo significa che la polizia è in grado di utilizzare sistemi come Waze, Google Map, Facebook, Instagram, per organizzare il contenimento e per indagare contro i manifestanti. Ora, se la polizia potrebbe usare WhatsApp contro i manifestanti, cosa impedisce di pensare che, ad un certo punto, quando la rivolta sfuggirà di mano, le autorità possano decidere di usare le app COVID per rintracciare i manifestanti?
Ricordiamo difatti che, sebbene le manifestazioni siano in gran parte pacifiche, in diversi casi la situazione è sfuggita di mano, trasformando la manifestazione in una vera e propria guerriglia. Interessante notare come alcune forze di polizie hanno chiesto ai cittadini di collaborare inviando loro immagini e video dei dimostranti, ma per ora con risultati poco brillanti (l’app che la polizia di Dallas aveva predisposto a tal scopo è stata sommersa di contenuti di disturbo, per renderla inutilizzabile).
Nell’armamentario tecnologico di sorveglianza, dei poliziotti americani, si possono citare anche videocamere con riconoscimento facciale, l’accesso a reti di videocamere anche di privati cittadini che danno sull’esterno (quelle Amazon e Google ad esempio) e i controversi apparati Imsi Catcher per intercettazioni on the fly di cellulari.
Allora la domanda è: se messa “spalle al muro” l’autorità deciderà di utilizzare le app COVID (non quelle in uso in Europa, comunque, che non utilizzano Gps)? E i Paesi come la Cina e la Russia arriveranno a usarle non solo per sedare le proteste, ma anche per innalzare il livello di sorveglianza permanente by default che grava, anche per mezzo della tecnologia, su tutta la popolazione? Già è noto che in Cina l’apparato di sorveglianza ha fatto grossi passi avanti durante il covid,a forza di droni, riconoscimento facciale e app sanitaria obbligatoria.
In conclusione
Non sappiamo se le azioni di controllo dal basso delle attività della polizia, con i social e i video che ne mostrano la brutalità, hanno una qualche efficacia diretta nel modo sperato dagli utilizzatori. Stesso dubbio riguarda anche le bodycam dei poliziotti, in uso in alcuni posti per sorvegliarne l’operato. Diversi studi, citati di recente dal Mit Technology Review , mostrano che i video sono serviti di radio a condannare la polizia e anzi spesso sono serviti per assolverla; l’idea di essere sorvegliati non ha cambiato l’atteggiamento dei poliziotti, in ogni caso. Questo perché le norme non sono cambiate: continuano a giustificare molte reazioni violente e a supportare anche un loro armamentario militare.
Ciò non significa che le azioni social, i video e le manifestazioni che ne sono associati e a volte persino ne conseguono siano inutili. Possono essere utili, ma come tasselli all’interno di un cambiamento più ampio. Perché possono contribuire a scuotere le coscienze e a spingere verso modifiche normative. A tutela dei diritti civili. Ancora una volta, il soluzionismo tecnologico – l’idea che basti una certa tecnologia e il suo utilizzo per cambiare direttamente le cose – si mostra un modello superficiale.
Ed è importante che queste proteste siano arrivate in questo preciso momento storico, perché permettono di porsi le giuste domande e, forse, potrebbero segnare un forte rallentamento della deriva che dalle app sta portando ai braccialetti per il coronavirus e, in alcuni casi (vedi Singapore, India) ai robot o droni utilizzati per controllare i cittadini.
Spesso quando si parla di privacy e data protection, le persone tendono a non percepire la reale importanza dei dati. In quei casi spiego che, se utilizzati in maniera impropria potrebbero portare ad una forte limitazione dei diritti, ma le persone la vedono come una probabilità molto astratta, lontana dalle loro vite.
Manifestazioni come quelle americane hanno quindi, tra l’altro, il pregio di far concretizzare davanti agli occhi di tutti i peggiori scenari di controllo e di violazione della privacy, rendendo così innegabile l’importanza della riservatezza anche ai giorni d’oggi.