Videogame culture

Psicologia, quando i videogiochi ci aiutano a vivere meglio

Dipendenza, sfiducia, minaccia: il videogioco è soggetto a una serie di pregiudizi. Oltre i timori, un focus per capire come funziona, quali emozioni suscita e come gestirle per sperimentarsi e crescere

Pubblicato il 04 Gen 2022

Francesco Bocci

Psicologo, Psicoterapeuta ad orientamento Adleriano, esperto in psicologia dei videogiochi

videogioco

La vita non è un gioco ma il gioco, videogioco compreso, può aiutarci a vivere meglio: è la sfida della psicologia del videogioco.

Il gioco rappresenta infatti una leva evolutiva nella vita dell’individuo: permette il rafforzamento delle abilità motorie, cognitive e interpersonali. È un’attività fondamentale nel processo di costruzione dell’identità personale e sociale attraverso l’apprendimento delle regole dello stare con l’altro e alla costruzione di diverse e nuove forme di comunicazione interpersonale.

L’attività di gioco è fondamentale non solo in età infantile: cambiano le forme, le modalità, gli strumenti, i significati, ma la dimensione ludica accompagna l’uomo in tutto l’arco della vita [5]. Dal punto di vista dell’antropologia dei processi educativi, il gioco rappresenta quindi uno dei primi motori della crescita dell’uomo, che fornisce dei fondamenti sicuri per i successivi sviluppi.

Bisogna saper perdere: accettare la sconfitta nei videogiochi ci rende migliori (e ci fa risparmiare)

Tra vincoli e possibilità, il potere creativo del gioco

Secondo lo storico olandese Johan Huizinga, autore del testo “Homo Ludens” pubblicato nel 1938, il gioco assume la funzione di centro di propulsione di tutte le attività umane: è un’attività libera cui si aderisce per scelta, permette l’instaurarsi di una realtà fittizia e una dimensione provvisoria, diversa da quella ordinaria, possiede una precisa dimensione spazio-temporale e presume un sistema di regole a cui il giocatore aderisce per libera scelta, la cui trasgressione produce il crollo del mondo provvisorio creato dal gioco.

Pochi anni più tardi, l’antropologo Roger Callois ha proposto una definizione di gioco quale attività libera; separata, ovvero circoscritta da limiti spaziotemporali; incerta sia negli esiti che nello svolgimento; improduttiva dal punto di vista materiale; regolata da un sistema di leggi che sospendono le convezioni ordinarie; fittizia in quanto è chiara la consapevolezza che si tratti di una realtà diversa [6].

Nell’ottica di un’antropologia psicologica si attribuisce al gioco una dimensione magica, dato che sin da piccolo il bambino può sperimentare la sensazione di essere, in quella sfera, il padrone assoluto di sé, nonostante rimanga condizionato dalle restrizioni del mondo adulto in tutte le altre sfere. Tramite il potere del gioco, il bambino getta un ponte verso la realtà e può passare velocemente da una vita in cui l’adulto sceglie tutto per lui, alla libertà assoluta.

Attraverso il gioco, il bambino cerca di autorealizzarsi e attribuisce un senso alle cose che lo circondano, procedendo nella sua crescita intellettuale ed emotiva e nelle acquisizioni culturali [4]. Il gioco del bambino è studiato dalla Psicologia Individuale [1, 2, 12] non solo come manifestazione del comportamento umano, ma come espressione dello sviluppo dello stile di vita.

Il fondatore della psicologia psicodinamica, Alfred Adler, ha scritto: “La lotta creativa del bambino inizia in un ambiente compreso soggettivamente e che pone delle difficoltà individuali. Il fanciullo, appena inizia a percepirsi come individualità, è in grado di orientarsi verso una meta finale e ciò accade abitualmente entro i primi due anni di vita. Da allora in avanti i suoi fenomeni psicologici non sono più reazioni, ma atteggiamenti di risposta creativa, corrispondenti alla tensione con cui esperimenta sé stesso in una situazione specifica”. E ancora: “Siamo stati portati ad attribuire al bambino un potere creativo che getta nel movimento tutte le sue influenze e tutte le sue potenzialità, al fine di superare un ostacolo”. “È per così dire, sia l’opera che l’artista” [1].

Citando lo psicologo Kurt Lewin: “Soltanto in uno spazio di vita sufficientemente libero nel quale il bambino ha la possibilità di scegliere i suoi obiettivi, in armonia con i suoi bisogni, in cui nel contempo egli esperimenta le difficoltà che obiettivamente si frappongono al loro conseguimento, può formarsi un chiaro livello di realtà e svilupparsi la capacità di prendere in modo responsabile delle decisioni”.

Cosa sono e a che servono le emozioni primarie

Nell’esperienza di gioco le emozioni primarie dell’uomo si manifestano e si sperimentano creativamente. In letteratura troviamo numerosi tentativi di categorizzare il mondo delle emozioni. Un approccio possibile è quello di considerare due finalità principali: vi sono le emozioni che innescano processi di “separazione”, che attuano un processo di “separazione” dall’Altro da Sé o da una parte di Sé, e quelle che uniscono, nelle quali è chiaramente riconoscibile la relazione sociale.

Nelle prime ritroviamo: la tristezza, quando ci viene a mancare qualcosa (“che ha che fare con qualcosa che manca, o con una perdita”), la paura, per tutelarci da una minaccia esterna (“che è una forma di tutela da un pericolo o una minaccia”) e la rabbia, propria della competizione.

Tali emozioni sorgono e si mostrano solo quando servono ad uno scopo che è conforme al metodo di vita o alla linea direttrice dell’individuo ed hanno come obiettivo quello di produrre un cambiamento della situazione in senso più favorevole per l’individuo stesso. La rabbia, ad esempio, può esprimere il desiderio dell’individuo di superare le proprie imperfezioni.

Nelle emozioni che uniscono abbiamo la gioia e la scoperta, portatrici del desiderio di entrare in relazione con qualcosa dentro o fuori di noi. La gioia esprime correttamente la sconfitta di una difficoltà ed in essa non è assente neppure il movimento verso l’alto, poiché il soggetto passa da un senso di insoddisfazione e di inferiorità ad uno di soddisfazione e superiorità. Nel gioco ritroviamo anche l’effetto liberatorio della gioia.

Da dove nasce il pregiudizio sul gioco

Se pensiamo al videogioco come al “gioco moderno”, possiamo pensare che in esso si possano ritrovare tutte le caratteristiche del gioco classico. Il videogioco è infatti un gioco digitale mostrato a video e come tale serve anche ad esprimerci, come tutti i giochi di tipo analogico. In esso ritroviamo non solo il livello animativo ludico, ma anche quello creativo ed immaginativo: è possibile così riconoscerne anche la funzione riparatoria e terapeutica.

Immaginate che qualcuno vi chieda di fare un disegno: si possono usare materiali più o meno raffinati, di diversa consistenza (cartoncino, carta lucida, ecc), e scegliere di utilizzare il disegno esclusivamente come fonte di gratificazione personale, di divertimento, oppure anche come veicolo di comunicazione con l’altro, come strumento per dire al mondo, con forme nuove, ciò che non è possibile mettere in parola. Così può avvenire anche con il videogioco: certamente possibile fonte di gratificazioni momentanee anche molto intense, ma potenziale strumento creativo, a seconda della scelta soggettiva.

Possiamo definire il gioco (e quindi anche il videogioco) come una compensazione vitale per l’uomo. Eppure, siamo quasi tutti inevitabilmente prevenuti nei suoi confronti, persino i giocatori. Questo pregiudizio fa parte della nostra cultura e si manifesta nel linguaggio quotidiano: diciamo che è un giocatore chi manipola gli altri per ottenere ciò che vuole, chi gioca con i sentimenti, chi tratta con leggerezza le emozioni altrui.

Il gioco è spesso percepito come qualcosa di poco serio, talvolta vissuto come dimensione legata all’infantile. Quindi di chi gioca, in fondo, non ci fidiamo mai veramente. Allo stesso modo diffidiamo dei giochi, del modo in cui essi ci incoraggiano ad agire, di quello che potremmo diventare se cominciassimo a giocarli. Ma in realtà, non abbiamo paura dei giochi: ciò che più temiamo è di restarne ammaliati, perdendo il senso del limite tra realtà e finzione.

In queste pagine si indaga invece un’interessante via alternativa: considerare il gioco come una compensazione vitale che trasformi in modo positivo e funzionale ai nostri compiti vitali i nostri atteggiamenti, attraverso l’attivazione di dinamiche emozionali ed inconsce. Per farlo, è necessario vincere questi timori, concentrandoci su come il gioco funziona e su come agiamo ed interagiamo quando giochiamo insieme.

Psicologia del videogioco: la realtà messa alla prova

Tutti i videogiochi hanno in comune quattro tratti definitori: un obiettivo, delle regole, un sistema di feedback e la volontarietà della partecipazione.

L’obiettivo è l’esito specifico verso cui tende l’attività dei videogiocatori: concentra l’attenzione e orienta continuamente la partecipazione al gioco, dando un senso di finalità. Le regole permettono di liberare la creatività favorendo il pensiero strategico, imponendo dei vincoli al modo in cui i giocatori possono raggiungere l’obiettivo. Il sistema di feedback dà la percezione dell’effettiva raggiungibilità dell’obiettivo, quindi funge da “promessa”, aumentando la motivazione al gioco con una struttura di punteggio, di livelli, di classifiche. La volontarietà della partecipazione richiede di accettare di buon grado l’obiettivo, le regole e il sistema di feedback: la possibilità di entrare nel gioco o di abbandonarlo quando si vuole, garantisce che un’attività sia spontanea e non forzata.

Tutti gli altri elementi di un videogioco (come di qualsiasi altro tipo di gioco) diventano rafforzativi o migliorativi di questi quattro elementi. Per esempio, una storia attraente rende l’obiettivo più intrigante, una metrica complessa irrobustisce la forza motivazionale del sistema di feedback, le esperienze in multiplayer fanno meno prevedibile e più piacevole un’esperienza prolungata, una grafica immersiva di alto livello aiuta l’attenzione.

Possiamo dire che rispetto ai videogiochi la realtà è troppo facile: essi ci provano con ostacoli volontariamente assunti che aiutano a mettere a frutto i nostri punti di forza ed a farci sperimentare una fatica da noi scelta e non subìta. Come ha scritto Bernard Suits: “Giocare un gioco è il tentativo volontario di superare ostacoli non necessari”. Videogiocare è un’attività che abbiamo scelto noi stessi, un’attività compensatoria faticosa che ci siamo auto-imposti di portare a termine e, a quanto pare, la fatica (anche quella virtuale) rende felice l’uomo, a patto che non sia imposta da altri e non abbia conseguenze reali sulla sopravvivenza. Quindi, a patto che non provochi delle perdite reali.

Psicologia del videogioco: cosa succede quando giochiamo

Quando giochiamo tendiamo a percepire in modo ottimistico le nostre capacità e a provare un vigoroso impulso all’azione: sensazioni che si situano all’opposto di uno stato depressivo, benché il gioco ci porti a vivere contenuti narrativi propri di situazioni deprimenti o angoscianti, che noi stessi scegliamo di interpretare in modo fittizio e temporalmente limitato.

Un gioco è un’occasione per concentrare la nostra energia, con ottimismo implacabile, su qualcosa in cui siamo bravi (o in cui diventiamo più bravi) e che ci diverte, al di là dei contenuti. Quando videogiochiamo siamo impegnati con grande intensità: questo ci pone esattamente nella condizione mentale e fisica per generare ogni tipo di emozione. Giocare ci fa sentire onnipotenti in un contesto in cui possiamo esserlo. Ma ci fa sentire anche impotenti, mettendoci a confronto con regole e dinamiche dettate dal gioco che non possiamo controllare totalmente.

Tutti i sistemi neurologici e fisiologici che stanno alla base della felicità (attenzione, gratificazione, motivazione, emozioni, memoria…) sono pienamente attivati dall’attività di gioco. Questa attivazione emotiva estrema è la ragione principale per cui i giochi digitali che oggi godono di maggior successo creano tanta dipendenza e migliorano molto l’umore.

Quando siamo in uno stato concentrato di impegno ottimistico, diventa più possibile avere pensieri positivi, stringere connessioni sociali e migliorare i nostri punti di forza. L’attività di gioco è quindi del tutto diversa dal lavoro reale, che molto spesso svolgiamo perché “dobbiamo farlo”.

La vita non è un gioco: è giusto allora, è condivisibile, è opportuno ma, soprattutto, è praticabile conciliare la vita reale col gioco? E, ancora di più, col videogioco? Questa è la sfida della psicologia dei videogiochi oggi. Cosa ci dicono? Cosa portano nelle vite dei nostri ragazzi? Rispetto ad altri mezzi di intrattenimento fanno più paura perché vengono associate alla dipendenza. Il divertimento robusto è quello che proviamo sperimentando uno stress positivo. Possiamo dire che la vita non è un gioco ma il gioco ci aiuta a vivere meglio.

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