Secondo uno dei pensatori tedeschi più influenti della nostra epoca, il filosofo di origine coreana B.C. Han, la nostra è un’epoca di psicopolitica[1] in cui il soggetto e la sua psiche diventano inconsapevoli produttori di una quantità impressionante di dati personali digitali, costantemente monitorati, monetizzati e commercializzati sulla base di una serie di dispositivi di controllo non percepiti come tali.
Sulla nozione di psicopoltica Han ha insistito a lungo, ma recentemente – in un intenso volume sulla rimozione del dolore propria di un ambiente tecnologico digitale che sembra fatto apposta per far scomparire dall’esperienza umana il vissuto della resistenza[2] – vi è ritornato con delle puntualizzazioni significative proprio perché toccano da vicino il tema della pandemia. Una delle tesi più interessanti di questo nuovo testo di Han, infatti, è che la forma di vita imposta dal Covid-19 sia come una sorta di lente di ingrandimento di alcuni tratti della nostra civiltà che appaiono fortemente deficitari sul piano etico-politico. Se nella nostra epoca l’intera vita umana diventa materia di indagine economica e ogni decisione trova nella sua sostenibilità monetaria l’unità di misura del suo significato e del suo valore, per il filosofo tedesco la pandemia ne accentua un carattere bio-politico che proprio le sue precedenti analisi avevano, però, escluso.
Secondo il canone classico del paradigma bio-politico, infatti, il potere si esercita in modo coercitivo sugli individui assoggettandone i corpi e proprio questo spiega, secondo Han, perché – contrariamente alle tesi di Foucault – l’epoca neoliberale, suadente e non repressiva, non abbia nulla a che fare con quel paradigma. In “Psicopolitica. Il neoliberalismo e le nuove tecniche del poter” Han lo diceva chiaramente, facendo sua una tesi di Stiegler («ho l’impressione che il biopotere descritto da Foucault in maniera così convincente […] non sia lo stesso potere che caratterizza la nostra epoca»[3]) e sostenendo che «il neoliberalismo non si interessa in prima istanza di ciò che è biologico, somatico, corporale», perché esso «scopre la psiche come forma produttiva»[4]. In questa linea interpretativa al posto della coercizione e dell’assoggettamento subentra la libera offerta del sé, come avviene in modo evidente nell’auto-denudamento – in parte inconsapevole (i cosiddetti “dati di scarto”) e in parte volontario – che avviene nell’ambiente digitale. Per questo il corpo entrerebbe in gioco soltanto in seconda battuta per compiacere i desideri del mentale, e dunque nelle forme succedanee dei vissuti del fitness, della chirurgia estetica, ecc., ma non occupando mai una posizione di primo piano: nel nostro tempo, «non vengono prodotti oggetti materiali, ma immateriali, come informazioni e programmi. Il corpo come forza produttiva non è più centrale come lo era nella società disciplinare e biopolitica. […] Oggi, il corpo è congedato dal processo di produzione diretta […]»[5].
Nella precedente analisi di Han si saldavano, insomma, due tesi tra loro distinte: il passaggio – da lui correttamente rilevato – da un sistema di potere di tipo dispotico a uno concessivo, che per funzionare ha bisogno di stimolare la libertà (I tesi), determinava senza soluzioni di continuità quello dal corpo alla psiche quale oggetto di dominio/produzione (II tesi). Che questa sovrapposizione fosse – come spesso accade nelle affascinanti riflessioni di Han – tanto perentoria quanto discutibile può essere argomentato in molti modi, ma in fondo a mostrarlo è proprio l’analisi proposta nell’ultimo testo, dove le considerazioni sulla pandemia divengono l’occasione per un significativo ripensamento teorico. La nuova tesi di Han, infatti, non è solo che «il virus sia (è) lo specchio della nostra società» e che esso «evidenzi(-a) in quale società viviamo»[6], ma che lo faccia dirigendoci «verso un regime di sorveglianza biopolitica»[7].
La questione che così si pone, però, è se sia la pandemia come tale a ricondurre la psico-politica alla sua sorella maggiore bio-politica o se in quanto «specchio» essa ne riveli qualcosa che già prima esisteva e che lo stesso Han non aveva saputo o voluto vedere. Sulla radicale diversità tra le due possibili risposte il testo non si attarda, ma il tema di che cosa il modo di reagire alla pandemia, più che la pandemia in sé stessa (anche su questa distinzione Han non si sofferma), dica di profondo e di non colto della civiltà occidentale è troppo importante per non essere approfondito.
Il dolore non-digitale
Ne “La società senza dolore” Han continua, infatti, la sua tesi circa la riemersione del bios, a partire dal fatto che la pandemia sembri trasformare l’esistere in mera sopravvivenza, sulla base di una logica in cui «la nostra vita ridotta a processo biologico è a propria volta svuotata di senso»[8]. Eppure, al di là del fatto che il tema del sopravvivere in un contesto pandemico non può comunque essere banalizzato, la tesi deve essere rovesciata perché il corporeo nel caso della persona umana non è mai solo biologico, ma sempre biografico, e il corpo non è qualcosa che si ha, ma che si esiste e si vive, coincidendo con il nostro stesso essere.
Anzi, proprio così si illuminano le riflessioni centrali nel nuovo testo di Han a proposito della cosiddetta «astuzia del dolore»[9] (l’immagine è di Jünger che gioca, a sua volta, intenzionalmente con un riferimento hegeliano). L’astuzia consiste nel fatto che il dolore, che rappresenta il vero tema di fondo del libro, per quanto rimosso dalla nostra civiltà, continui, invece, a riuscire a far sentire la sua presa sulla vita umana, in modo evidente nel tempo pandemico, «reclama[-ndo] i suoi diritti con una logica implacabile» che lo fa riaffiorare dal «silenzio»[10] in cui cultura e tecnologia cercano di avvolgerlo.
Ma la tesi di Han non è solo quella secondo cui oggi «si moltiplicano i dolori silenti, confinati ai margini, che persistono nella loro assenza di senso, di linguaggio, di immagini»[11], e basta pensare ai morti per Covid nella più completa assenza di legami e relazioni per avere una chiara e agghiacciante immagine di conferma della verità di queste parole. Perché il pensatore tedesco osserva esplicitamente come dietro ai tentativi di silenziamento del dolore «vi siano [sono] svariate forme di violenza» che derivano esattamente dai «tratti auto-aggressivi»[12] del soggetto neoliberale. Un soggetto che può sfruttare tutto il suo essere come una risorsa imprenditoriale proprio perché, in accordo con i canoni della sua epoca, si pensa pura psiche, mentre – osserva giustamente Han – il suo dolore inatteso va considerato come l’espressione di un «corpo che grida in cerca di attenzioni e vicinanza, in cerca di amore […]»[13], protestando contro un’auto-alienazione che lo costringe – immagine bellissima – a un «tempo senza narrazione»[14], come nei giorni di isolamento nelle nostre case che trascorrono privi di storia in attesa della negativizzazione del virus.
Ora, poste queste considerazioni, il passo successivo non può che implicare, però, la revisione dell’assunto di partenza dell’analisi, proprio riscoprendo il valore carnale di ciò che nell’analisi di Han è proposto come mera biologia. Il nodo su cui la sua indagine si incaglia riguarda, dunque, il rapporto tra psiche e corpo o, come lui stesso si esprime, tra bio-politica e psico-politica, insistendo sulla loro compenetrazione e smentendo la tesi sulla loro reciproca esclusione.
Se Han sembra avere in un certo senso un’idea digitalizzata della stessa psiche – simile a quella di quelle correnti transumaniste, che il pensatore tedesco certamente avverserebbe per la loro eco prestazionale, che immaginano di poter copiare su un supporto digitale la mente umana (sulla base del cd. mind uploading) – occorre, invece, ribadire il nesso tra corpo e psiche anche dentro la presunta opposizione tra bio-politica e psico-politica.
In questa direzione risulta certamente utile fare un breve riferimento ai tracciati della cosiddetta bioeconomia, di cui Han stranamente non parla, mentre essa è legittimata in chiave valoriale proprio da quella letteratura economica di stampo neo-liberale che è in fondo l’oggetto ricorrente della sua acuta analisi critica. Come hanno mostrato in un loro lavoro sul tema Cooper e Waldby, intitolatol non a caso “Biolavoro globale. Corpi e nuova manodopera”, i pensatori che hanno elaborato la nozione di capitale umano – a cominciare proprio da quel Gary Becker, che ha ricevuto il Premio Nobel per l’economia esattamente per i suoi studi su di essa – cercavano allo stesso tempo, del tutto coerentemente, di «trasformare le più intime funzioni corporee in beni e servizi commerciali»[15], sviluppando, già nei primi anni ‘60, «la categoria dell’imprenditore di sé» in riferimento ai «nuovi mercati, all’epoca ancora lontani a venire, del sangue, degli organi e dei servizi di maternità surrogata»[16].
Così, proprio il riferimento al nesso che lega la letteratura sul capitale umano ai mercati che coinvolgono parti e/o funzioni del corpo umano, inglobandoli nei circuiti della produzione, permette, allora, di restituire a Foucault il valore di verità della sua intuizione circa il rapporto tra neoliberalismo e biopolitica: il venir meno del modello coercitivo della governamentalità – su questo l’analisi di Han è corretta, per quanto il discorso foucaultiano resti più complesso di come Han lo presenti – non annulla la centralità del corpo nella strategia neo-liberale, ma anzi la definisce e, forse, la spiega[17].
Possiamo, così, rispondere al quesito di partenza che la lettura incrociata dei due tesi di Han fa sorgere. La cifra biopolitica non è l’espressione inaudita di un’antropologia pandemica che sconvolge la triste normalità psicopolitica[18]. Semmai, è vero il contrario. La prima è intimamente iscritta nelle linee di fondo della seconda.
*Alessio Musio è autore del libro “Baby boom. Critica della maternità surrogata”
- B.C. Han, Psicopolitica. Il neoliberalismo e le nuove tecniche del potere, trad. it., Nottetempo, Roma 2016. ↑
- B.C. Han, La società senza dolore. Perché abbiamo bandito la sofferenza dalle nostre vite?, trad. it., Einaudi, Torino 2021, p. 44. ↑
- Psicopolitica, p. 34. ↑
- Ivi, p. 35 (corsivi di Han). ↑
- Ivi, p. 34. ↑
- Han, La società senza dolore, p. 22. ↑
- Ivi, p. 75. ↑
- Han, La società senza dolore, p. 31. ↑
- Ivi, p. 37. ↑
- Ivi, p. 37. ↑
- Ibidem. ↑
- Ibidem. ↑
- Ivi, p. 40. ↑
- Ivi, p. 41. ↑
- M. Cooper – C. Waldby, Biolavoro globale. Corpi e nuova manodopera, trad. it., DeriveApprodi, Roma 2015, p. 29, nostro il corsivo. ↑
- Ivi, pp. 44-45. ↑
- Sul fraintendimento di Foucault da parte di Han meritano di essere ricordate le considerazioni delineate da Antonio Lucci in: Byung-Chul Han e il tempo dell’ascolto (28 agosto 2017), reperibili all’indirizzo internet: http://www.doppiozero.com/materiali/byung-chul-han-e-il-tempo-dellascolto↑
- Da lui definita come «società della quarantena» che ha come «conseguenza un regime di sorveglianza biopolitico» (Han, La società senza dolore, p. 27). ↑