il punto di vista

Quale futuro per lo smart working? Una risposta scomoda

È sufficiente lavorare “da casa” perché il lavoro, chi lo fa e chi ne beneficia diventino intelligenti? Qualche domanda sorge spontanea, ma la risposta potrebbe non piacere a tutti

Pubblicato il 02 Apr 2021

Ottavio Ziino

Presidenza del Consiglio dei ministri

Lavoro ibrido, le politiche dei grandi gruppi italiani: il caso di Tim

L’espressione “smart working”, tradotta forse “semplicisticamente” come “lavoro intelligente”, presenta realmente aspetti di positività?

Realizza un’armonia tra prospettive e obiettivi aziendali e dei singoli lavoratori? Ci si è adeguatamente chiesti il perché, il come e le implicazioni?

È sufficiente lavorare dentro le mura domestiche – perché gli strumenti digitali sono presenti anche in ufficio – per rendere il lavoro intelligente e quindi, anche, chi lo effettua (il lavoratore) e chi ne beneficia (le aziende)?

Questi interrogativi rappresentano fili rossi sui quali si cercheranno di intrecciare le riflessioni che seguono[1].

Lo smart working da una prospettiva economico-aziendale

Atteso che lo smart working è essenzialmente una differente modalità di organizzazione del lavoro che viene prestato per un’azienda, sembrerebbe utile un inquadramento dell’argomento dal punto di vista aziendale e con una delle chiavi interpretative della dottrina economico-aziendale.

Oliver Eaton Williamson, Premio Nobel per l’economia (2009) a seguito della formulazione della teoria dei costi di transazione,[2] ha messo in luce che nelle aziende le decisioni di internalizzare (svolgere direttamente) o esternalizzare (acquistare all’esterno i beni/servizi) una o più attività/fasi produttive siano dettata dalla valutazione della convenienza aziendale di gestire le transazioni tramite l’organizzazione/gerarchia (internalizzazione) oppure il ricorso a transazioni di mercato (esternalizzazione).

Queste decisioni, come successivamente evidenziato dalla dottrina, possono riguardare anche la forza lavoro erogatrice di prestazioni, che può essere assunta (internalizzazione) o essere utilizzata con contratti temporanei, spot, on demand etc. (esternalizzazione).

Pur con il rischio di ovvietà, lo smart working è una modalità organizzativa caratterizzata dalla dissociazione fisica tra lavoratore e azienda, da modalità flessibili di erogazione temporale delle prestazioni lavorative e dal focus rispetto ai risultati da raggiungere, che sono incentivati grazie al maggiore legame tra prestazioni conseguite e retribuzione. Il ricorso allo smart working è stato possibile grazie alla diffusione delle tecnologie digitali.

Pertanto, lo smart working modifica:

  • i confini fisici dell’impresa, perché i lavoratori, anche quelli “tradizionali” (tempo pieno e indeterminato), erogano le proprie prestazioni in luoghi non nel possesso delle aziende;
  • l’organizzazione aziendale, in quanto il personale è altrove rispetto ai tradizionali luoghi di lavoro e interagisce con gli strumenti digitali;
  • la tempistica di svolgimento del lavoro, resa maggiormente flessibile;
  • (forse?) anche l’essenza del rapporto azienda-lavoratori.

Sulla base di quanto esposto, lo smart working appare che realizzi, nei fatti, un’ibridazione delle forme tradizionali di assunzione, a tempo pieno e indeterminato, con elementi caratteristici delle prestazioni lavorative dei lavoratori parasubordinati e dei lavoratori autonomi. Questi ultimi, infatti, erogano le proprie prestazioni per la gran parte al di fuori dei confini fisici delle aziende, sulla base di scadenze (flessibilità temporale), interagendo prevalentemente con strumenti digitali e beneficiano di premialità crescenti in ragione dei risultati raggiunti.

Secondo questa criticabile prospettiva, la “rivoluzione” dello smart working potrebbe in (buona?) parte sostanziarsi anche nella tendenza a riempire i rapporti di lavoro “tradizionali” di contenuti propri di altre forme di relazione azienda-lavoratori.

Quali i successivi passaggi, dal punto di vista aziendale, secondo questa provocante prospettiva? Le risposte si potrebbero collocare tra due estremi:

  • le aziende seguiranno maggiormente le indicazioni sottese alla teoria dei costi di transazione, cosicché ciascun lavoratore “tradizionale” sarà oggetto di periodico esame secondo la predetta teoria, con l’effetto che potrebbero essere sempre meno frequenti i contratti a tempo pieno e indeterminato, in quanto l’erogazione delle prestazioni dei lavoratori “tradizionali” è in parte sovrapponibile a quella dei lavoratori parasubordinati e dei libero professionisti;
  • lo smart working dei lavoratori a tempo pieno e indeterminato avrà impatti talmente positivi per le aziende che aumenteranno i contratti di lavoro “tradizionali”.

Dalle relazioni alle connessioni

Il lavoro in presenza si caratterizza dalla ovvia copresenza in un luogo fisico, dalla comunicazione tra individui, ossia il discorso, e dai riti.

Il luogo di lavoro, i tempi della prestazione lavorativa e i riti sono ritenuti elementi stabilizzanti.

Il luogo di lavoro, con i suoi oggetti, consente a ciascuno di ritrovare il proprio sé, la propria identità “riferendosi alla stessa sedia e allo stesso tavolo”[3].

I tempi della prestazione lavorativa sono in gran parte legati al luogo di lavoro ed entrambe queste dimensioni consentono di tracciare una crasi, spaziale e temporale, – tuttavia sempre più labile – tra “lavoro” e “non lavoro”, collocandoli, per quanto possibile, nelle dimensioni loro proprie.

I riti, che vedono la partecipazione di più lavoratori, quando non si sostanziano in vuoto formalismo, rafforzano, anche tramite i simboli che li caratterizzano, l’appartenenza a una comunità di lavoratori. Come gli oggetti del lavoro riempiono e identificano gli spazi del lavoro, così i riti lavorativi evitano che il tempo lavorativo scada nella sequenza di presenti che, se non ordinati dai riti che anche ci rapportano con i colleghi, potrebbero mancare di riferimenti e significato. Il prendersi un caffè insieme, le riunioni settimanali in ufficio etc sono occasioni di comunicazione con il discorso che ci vincolano all’ascolto e all’attenzione, permettendo di cercare di farci comprendere. In queste occasioni e, più in generale, nel lavoro in presenza la quantità di informazioni trasmesse e ricevute con il discorso viene necessariamente filtrata dalla capacità di inter-legĕre, cosicché si permette all’intelligenza individuale di esprimersi e si produce intelligenza collettiva e crescita, grazie all’ascolto e al confronto (“ … per crescere abbiamo bisogno di dialettica e confronto umano.” Frank Pasquale, 2020). In queste occasioni, l’autoreferenzialità trova ostacoli nell’autoalimentarsi dal confronto, così come i processi narcisistici.

Nel lavoro in presenza è possibile accrescere la vicinanza empatica e si è costretti a gestire la lontananza empatica, la negatività dell’Altro[4], senza ricorrere a palliativi o analgesici (V. oltre), perché al confronto non si può sfuggire. La dialettica, anche quando accesa, prende il sopravvento rispetto all’indifferenza che denota, comunque, la volontà di rendere pubblica una scelta (peraltro, nell’ambiente lavorativo la cd. indifferenza assertiva, ossia non cedere alle provocazioni ricorrendo all’indifferenza, è un modo positivo per disattivare i comportamenti inappropriati di un collega che, vedendo che non riceve risposte, prima o poi abbandonerà questi comportamenti perché inefficaci).

La comunicazione lavorativa in presenza si sostanzia della componente verbale e di componenti non verbali come il tono della voce, la gestualità, la distanza, lo sguardo, l’espressione facciale, la postura, il tatto, l’olfatto etc. La semantica di ciascuna frase di un discorso e la comunicazione non verbale sono indissolubili e accrescono la capacità di comunicare e comprendersi vicendevolmente: secondo la gran parte degli psicologi la comunicazione non verbale è quella prevalente nelle interazioni in presenza.

In sintesi, il lavoro in presenza è caratterizzato da relazioni sincrone spazio-temporali che beneficiano di elementi stabilizzanti, della effettiva e testata possibilità di inter-legĕre con profitto vicendevole le informazioni che sono sempre più sovrabbondanti (al rumore assordante delle macchine della prima e seconda rivoluzione industriale abbiamo sostituito il frastuono dell’inondazione di informazioni) e dalla comunicazione non verbale.

Lo smart working si concreta, grazie alle tecnologie digitali, nella destrutturazione, spaziale e temporale, del lavoro finalizzata a una migliore gestione del tempo, nell’assunto di una “superiore” razionalità dei singoli di gestire il proprio tempo lavorativo, così realizzando migliori performance, sia individuali sia collettive, nonché benefici sotto l’aspetto della gestione della vita familiare e sociale. La verifica di questi elementi è finora spiegata, in buona misura, dalla locuzione utilizzata, lavoro intelligente, perché la valutazione scientificamente solida degli impatti potrebbe necessitare ancora di tempo.

Lo sfasamento “collettivo” degli orari di lavoro – perché ciascuno deciderebbe, entro ragionevoli esigenze aziendali, quando lavorare – e del conseguente sfasamento delle esigenze familiari (o, anche, viceversa) tra individui consentirebbe anche di incrementare la quantità di relazioni interpersonali e l’appagamento di altri desideri/tensioni individuali. Si suppone, pertanto, una collettiva capacità di sincronizzazione degli individui rispetto alle proprie esigenze lavorative e familiari per potere realizzare, in tempi condivisi, migliori e più prolungate relazioni personali extra-lavorative. In pratica, lo sfasamento temporale nell’assolvimento dei compiti lavorativi e delle esigenze familiari/personali dovrebbe essere sincrono rispetto alla cerchia delle proprie amicizie e di quelle che vorremmo coltivare, cosicché tutto quanto migliori. Come ciò possa avvenire è tuttavia ancora non pienamente compreso da chi scrive.

Lo sfasamento temporale delle prestazioni lavorative si accompagna alla distanza fisica dei lavoratori, che si ritiene che possa essere sostituita, negli spazi di non sfasamento temporale tra le prestazioni lavorative, dalle nuove tecnologie digitali e, principalmente, le videoconferenze (e le videochiamate), atteso che il telefono esiste già da tempo e le e-mail, le banche dati in cloud etc. non servono a ridurre la distanza fisica tra lavoratori, ma “soltanto” a trasmettere e reperire informazioni.

Le videoconferenze, tuttavia, non permettono di veicolare la gran parte delle componenti della comunicazione non verbale, quali la gestualità, l’espressione facciale, la postura, la mimica, il tatto etc e sono ingannevoli e fuorvianti. Infatti, durante le videoconferenze è impossibile guardarsi negli occhi, perché si dovrebbe imporre agli obiettivi dei PC di ogni partecipante alla videoconferenza di muoversi freneticamente nei monitor e collocarsi negli occhi dei ciascuno di essi. Durante le videoconferenze, se si guarda qualcuno negli occhi non si trasmette questo comportamento, ma si restituisce il proprio sguardo intento a guardare altrove. Sarebbe quindi bon ton presenziare alle videoconferenze con occhiali da sole.

Nelle videoconferenze guardiamo sequenze veloci di fotografie di persone, filmati del loro muoversi (come i video di YouTube), disarticolati nel rapporto sguardo-discorso che, nella virtuale assenza di distanza, ci privano delle sensazioni di vicinanza e lontananza e di possibilità di empatia: i partecipanti sono virtualmente presenti ma affaccendati altrove. Qualunque significato diamo ai gesti e allo sguardo dei partecipanti è quello che ci restituisce l’occhio dell’obiettivo e non è quello che ci vorrebbe trasmettere il nostro interlocutore e viceversa.

Volendo estremizzare, nelle videoconferenze abbiamo davanti a noi false icone di partecipanti, perché il messaggio è falsificato da uno sguardo non vero: il confronto senza sguardo reciproco alimenta la dissociazione anche empatica e conduce, conseguentemente, al rispecchiamento narcisistico e incrementa l’alterità. Durante le videoconferenze siamo in una dimensione agli antipodi delle icone che raffigurano il Cristo Pantocratore, che guarda sempre i nostri occhi in modo compassionevole e indulgente quando ci spostiamo.

Il narcisismo indotto dalle videoconferenze digitali potrebbe essere al contempo anche autoreferenziale, perché è assente la comunicazione non verbale fondamentale per un “vero” confronto e, conseguentemente, il rispecchiamento ammirato del proprio sé e l’auto-percezione potrebbero alimentarsi vicendevolmente.

Le false icone dei partecipanti e la stessa videoconferenza sono “finestre” del PC, come i software, che apriamo e chiudiamo secondo i nostri desideri. Potremmo così sommare al rispecchiamento narcisistico e all’autoreferenzialità la possibilità di potere esercitare, in ambito lavorativo, una sorta di sovranismo (che caratterizza la gestione delle faccende domestiche, che ci sembra naturale esercitare stando a casa), scegliendo chi guardare (non negli occhi), ascoltare o cosa fare, aprendo e chiudendo le false icone dei partecipanti a una videoconferenza, anche perché “L’Altro in forma di oggetto non fa male.”[5]

Il sovranismo lavorativo potrebbe riempire anche gli spazi nei quali non siamo impegnati in videoconferenze, perché decidiamo dove lavorare e, in una cera misura, quando lavorare.

La noia del lavoro di ufficio, dei suoi riti, delle solite frasi di circostanza si sostituisce con il lavoro in solitudine, privo di vero confronto e pervaso dalla dimensione del “considerarsi”: la noia “… la noia non è altro che il dolore diluito nel tempo”[6] che lo accompagna potrebbe accumulare inesorabilmente dolore in modo silente, anche perché non condivisibile e non contrastabile, destinato prima o poi a tracimare.

È davvero smart il lavoro nel quale non può esistere lo sguardo, che è decorporizzato desimbolizzato, deritualizzato e che potrebbe alimentare il narcisismo, l’alterità, l’autoreferenzialità e il sovranismo lavorativo?

Nell’assunto che le videoconferenze possano sostituire le riunioni in presenza, perché non organizzare smart dinner, chiedendo a Deliveroo di consegnarci la cena a casa? Sarebbe davvero super smart grazie alla disponibilità di numerosi menù, l’assenza di fastidiosi spostamenti, pericoli, pensieri per i nostri figli rimasti a casa etc.?

“Non si vive di solo lavoro” e quindi sarebbe preferibile “vivere di solo lavoro solo”?

Forse al lavoro in presenza, alla comunicazione de visu e alle comunità reali di lavoratori vorremmo sostituire sempre più un lavoro nel quale assistiamo a “comunicazione senza comunità”, anche perché “la comunicazione digitale è una comunicazione estensiva: non produce relazioni, solo connessioni.”[7]?

Distinzione vs sovrapposizione e concentrazione vs frammentazione

Ai tradizionali tempi della prestazione lavorativa, assimilabili al ritmo sonno-veglia, e luoghi di lavoro, che distinguono per quanto possibile la dimensione lavorativa da quella non lavorativa, lo smart working sostituisce una maggiore flessibilità nell’erogazione delle prestazioni lavorative e la sovrapposizione fisica nei luoghi di “non lavoro” di quelli del “lavoro”.

L’assenza del tradizionale luogo di lavoro potrebbe rischiare di fare apparire casa propria come un onnipresente ufficio o, all’opposto, potrebbe dissolvere l’idea di fare parte di un ufficio nelle mura del sovranismo domestico.

La libera (o quasi) conciliazione di esigenze lavorative e familiari/personali rischia di sovrapporre confusamente e freneticamente ogni cosa, così i singoli presenti potrebbero assumere un valore assoluto e totalizzante, parcellizzato su più attività e, per questo motivo, tutto potrebbe essere confusamente importante: mentre si scrive una relazione ci si accorge di un quadro sporco e si corre a cercare uno strofinaccio per pulirlo; si guarda un interessante film in TV, lasciando il PC acceso per inserire qualche frase in una relazione durante gli spot pubblicitari; si aiutano i propri figli a fare i compiti nella scrivania dove al contempo si lavora; mentre si invia una e-mail si risponde a una telefonata di un’amica che pretende di raccontarci cose frivole, sapendo che siamo in smart working e, pertanto, abbiamo l’obbligo di conversare perché liberi di lavorare quando vogliamo etc.

Le attività svolte durante le giornate sono multitasking[8] e multidimensionali, nella permanente commistione giornaliera di “lavoro” e non “lavoro” che rende le giornate tutte uguali, perché ciascuna di esse è caratterizzata dalla confusa sovrapposizione di tanti compiti diverse tra di loro.

È permanente l’impellente necessità di rispondere a e-mail, sms, whatapps etc. Volendo ulteriormente provocare, stiamo forse diventando dei bot (servizi di messaggistica istantanea per automatizzare un certo tipo di comunicazione, quale l’assistenza nel caso in cui la lavastoviglie non funzioni), degli autoresponder (programmi che rispondono automaticamente alle e-mail che gli vengono inviate) etc.? Quando più sofisticati software, maggiormente tempestivi e capaci di connessione, potranno sostituirci?

Ciascuno cerca, sempre più nello stesso luogo, di ottimizzare ogni dimensione esistenziale, libero (o quasi) di farlo quando ritiene opportuno: tutto ciò potrebbe finire con il far dipendere ogni cosa da noi stessi, terrorizzati dall’ansia dell’inadeguatezza o dalla convinzione che non soffriamo della patologia dell’atelofobia, cullandoci sul “non tutti ci sono, non tutti lo sono”[9].

L’alienazione di marxiana memoria (estraneità da sé stesso) localizzata dentro la fabbrica potrebbe segnare il passo, in alcuni casi, all’attuale libera auto-alienazione che si realizza a casa in solitudine, su ogni dimensione, nella continua confusione tra “lavoro” e “non lavoro” e in una noia “accompagnata dall’iperattiva”[10].

Nel cercare sempre di far fruttare il proprio tempo, quale che sia la sua occupazione, ci si trasforma in imprenditori di noi stessi, si è sempre più centrati sul proprio “io”. Ognuno deve “solo” ottimizzare il proprio tempo e sé stesso e, se non ci riesce, ha la sensazione che sia il solo responsabile, perché è difficile che la solitudine possa far germogliare solidarietà, condivisione e la possibilità di individuare responsabilità al di fuori di sé medesimi.

Talvolta si immagina un contatto con il reale, con la comunità di lavoratori in presenza dove la simulazione (es. dire che “va tutto bene”) potrebbe essere trafitta da uno sguardo negli occhi “L’immaginario era l’alibi del reale, in un mondo dominato dal principio di realtà. Oggi è il reale che è diventato l’alibi del modello, in un universo retto dal principio di simulazione. Ed è paradossalmente il reale che è diventato oggi la vera utopia – ma è un’utopia che non appartiene più all’ordine del possibile, perché non si può che sognarne come un oggetto perduto”[11].

Conclusioni

Le provocazioni e iperbole proposte, forse oltre tollerabili limiti di sopportazione, potrebbero avere urtato le sensibilità degli eventuali lettori e ci si scusa.

Si auspica che qualcuno dei contenuti prima riportati abbia potuto suscitare elementi di empatia da parte di qualche Lettore, cosicché possa approfondirlo e verificarne la possibile correttezza.

Con un approccio meno dissacrante si conclude questo paper soffermandoci sull’eventuale opportunità che le tecnologie abilitanti per lo smart working potrebbero accompagnarsi a una maggiore attenzione nei riguardi della formazione necessaria per “abilitare” le persone: pianificazione, istruzioni su come organizzarsi al meglio in un contesto di lavoro più disperso e problematico di quello tradizionale in ufficio.

Una volta usciti dal tunnel della pandemia potrebbe riflettersi su questa eventualità, magari organizzando occasioni formative in presenza per tornare a incontrarci, parlare de visu e guardarci negli occhi.[12]

  1. Quanto riportato è espressione di libera manifestazione del pensiero, da contestualizzare rispetto a un approccio volutamente critico e provocatorio sullo smart working. Le opinioni espresse non riflettono posizioni, punti di vista etc. dell’Amministrazione pubblica presso la quale lo scrivente presta servizio, né gli argomenti trattati hanno specifica attinenza con i compiti svolti. L’articolo non impegna minimamente soggetti e Autori citati. Nel testo ogni riferimento ad aziende e lavoratori riguarda il settore privato.
  2. The economics of organizations: The transaction cost approach, in American Journal of Sociology, 87, 3.
  3. Hannah Arendt, Vita activa. La condizione umana, Bompiani, 2017, pag. 156.
  4. Byung-Chul Han, L’espulsione dell’Altro, Figure nottetempo, 2017.
  5. Byung-Chul Han, La società senza dolore, Einaudi, 2021, pag. 69.
  6. Ernst Jünger, Sul dolore, in Foglie e pietre, Adelphi, 1997, pag. 152.
  7. Byung-Chul Han, La scomparsa dei riti, Figure nottetempo, 2021, pagg. 11 e 18.
  8. <<In generale, però, cercare di fare multitasking significa abbassare drasticamente la qualità delle nostre performance, specialmente all’aumentare della nostra stanchezza e della difficoltà dei compiti.>>. Marco Fasoli, Il benessere digitale, Il Mulino, 2019, pag. 70.
  9. Aforisma che campeggia ancora oggi sopra il portone d’ingresso dell’ex ospedale psichiatrico di Agrigento.
  10. Byung-Chul Han, L’espulsione dell’Altro, Figure nottetempo, 2017, pag. 43.
  11. Jean Baudrillard, Cyberfilosofia, Mimesis, 2010 pag. 10. Estratto da J. Baudrillard, Simulacri e fantascienza, in Luigi Russo, a cura di, La fantascienza e la critica. Testi del Convegno Internazionale di Palermo, Feltrinelli, 1980, pag. 52 e ss.
  12. Con riferimento al settore pubblico, il recente Patto per l’innovazione del lavoro pubblico e la coesione sociale (10 marzo 2021) è un eccezionale salto in avanti in tema di modernità e di attenzione ai lavoratori, alla gestione dello SW e alle attività formative. Il Patto crea le basi per avviare una nuova stagione di relazioni sindacali nel pubblico impiego che consentirà il migliore utilizzo delle ingenti risorse messe a disposizione dalla Commissione europea per perseguire, insieme alla modernizzazione del Paese, l’obiettivo cruciale della coesione sociale. Infatti: <<Il confronto in sede ARAN sarà l’occasione per definire linee di intervento sul lavoro agile (smartworking) perché si eviti una iper-regolamentazione legislativa e vi sia più spazio per la contrattazione di adattare alle esigenze delle diverse funzioni queste nuove forme di lavoro che, laddove ben organizzate, hanno consentito la continuità di importanti servizi pubblici anche durante la fase pandemica. […]Ogni pubblico dipendente dovrà essere titolare di un diritto/dovere soggettivo alla formazione: sarà il diritto più importante a sentirsi protagonista del cambiamento che al contempo costituirà una valorizzazione dell’immagine sociale dello Stato e dei suoi lavoratori e lavoratrici e la contrattazione dovrà prevederne l’esigibilità. […]Con riferimento alle prestazioni svolte a distanza (lavoro agile), occorre porsi nell’ottica del superamento della gestione emergenziale, mediante la definizione, nei futuri contratti collettivi nazionali, di una disciplina che garantisca condizioni di lavoro trasparenti, che favorisca la produttività e l’orientamento ai risultati, concili le esigenze delle lavoratrici e dei lavoratori con le esigenze organizzative delle Pubbliche Amministrazioni, consentendo, ad un tempo, il miglioramento dei servizi pubblici e dell’equilibrio fra vita professionale e vita privata.

    Nell’ambito dei contratti collettivi nazionali di lavoro del triennio 2019-21, saranno quindi disciplinati, in relazione al lavoro svolto a distanza (lavoro agile), aspetti di tutela dei diritti sindacali, delle relazioni sindacali e del rapporto di lavoro (quali il diritto alla disconnessione, le fasce di contattabilità, il diritto alla formazione specifica, il diritto alla protezione dei dati personali, il regime dei permessi e delle assenze ed ogni altro istituto del rapporto di lavoro e previsione contrattuale). (pagg, 4, 5 e 6)>>.

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