Il primo maggio 2019 ha alcuni primati in Italia.
E’ il primo ad avere il reddito di cittadinanza (e le relative politiche per guidare a trovare lavoro). E’ anche il primo in cui la politica affronta con forza la questione dell’inquadramento dei lavoratori della gig economy (i rider) e la questione del salario minimo, temi su cui il vicepremier Di Maio annuncia di nuovo battaglia in questi giorni.
Ma è anche un primo maggio in cui si misura la perdita di un milione di posti di lavoro stabili in dieci anni (secondo dati Istat usciti ieri: abbiamo il peggiore tasso di disoccupazione, sebbene in miglioramento; peggio di noi solo la Grecia).
E in cui, complici le fosche nubi sulla nostra economia, ci si interroga con apprensione su quale futuro possa avere il lavoro in Italia – soprattutto per le nuove generazioni – in uno scenario sempre più dominato dal digitale e dall’intelligenza artificiale, che grande impatto sul lavoro è destinata ad avere, secondo molteplici studi.
Adesso anche la World Bank (Banca Mondiale) e l’OECD (Ocse) lanciano l’allarme sui crescenti squilibri nel mercato del lavoro, favoriti dal digitale.
L’Italia rischia più di tutti
L’Italia rischia di subire ancora di più di altri Paesi le conseguenze negative di questa trasformazione, sul lavoro, perché meno di altri è pronta ad affrontare la trasformazione digitale: per motivi storici di scarso investimento sulle tecnologie, motivi culturali associati anche a ragioni anagrafiche (siamo pessimi in competenze digitali), distrazione della politica (che sta facendo tanti piani, anche sull’intelligenza artificiale, ma per ora con poche risorse salvo alcune eccezioni e pochi frutti).
La crisi del lavoro nel capitalismo digitale: i trend economici
Lo speciale futuro del lavoro di Agendadigitale.eu
Ma allora, come se ne esce? Quale lavoro, per quale futuro, in Italia? Agendadigitale.eu, in questo speciale per il primo maggio (che gli iscritti alla newsletter si troveranno oggi in casella e che si compone di molti degli articoli linkati in questo qui), prova a mettere sul tavolo alcuni spunti di riflessione.
Le distorsioni della data economy
C’è il tema dei rider – ma anche il recente caso dei licenziamenti Amazon dettati dall’algoritmo – che grida quanto sia nudo il Re della data economy: sta aprendo a nuove e più brucianti diseguaglianze, vive con una cultura che si è distorta rispetto a quella internet delle origini ed è sempre più viziata dalla finanza, dal bisogno di ricchezza a breve termine, mentre si nutre dei nostri dati personali.
C’è bisogno di nuove policy pubbliche su lavoro e redditi
La sensazione è che la questione dei rider e della gig economy sia solo la proverbiale punta dell’iceberg di un problema più grande, che richiede nuove policy pubbliche, di tipo redistributivo; un nuovo contratto sociale, dicono alcuni.
In gioco, tra l’altro, c’è la tenuta della nostra società, i nostri diritti fondamentali, il nostro valore di persone.
Investire sulle professioni e competenze digitali
Al tempo stesso, il Paese e i singoli individui devono porsi il problema di accrescere le competenze necessarie a questo futuro sempre più presente, considerando che sono digitali le professionalità richieste, che sono anche quelle che sopravvivranno alla “robotizzazione” (c’è una ricetta ipotizzabile per lavorare in futuro). Ed è su Lavoro (Industria) 4.0 che l’Italia dovrebbe puntare le risorse, per restare tra i Paesi evoluti, assicurare un futuro di benessere ai propri cittadini.
Un problema epocale, quale ruolo per l’Italia
Nel complesso, ciò che emerge da questa rassegna di articoli predisposti per voi è che sono pure utili e interessanti gli interventi pubblici immediati – come le normative sui rider o lo stesso reddito di cittadinanza; ma resteranno una piccola toppa per un problema più grande se non sono accompagnate da politiche pubbliche più ampie, tese a favorire il digitale.
Qui compresa la crescita delle competenze della popolazione e degli imprenditori (forse principale problema italiano e anche il più sottovalutato dalla politica, alla luce degli attuali piani di Agenda Digitale).
Siamo consapevoli che non può un solo Paese affrontare questo problema immenso, epocale. Alcune delle ricette – che guardano a politiche di redistribuzione, per esempio – passano da accordi transnazionali (che sempre più sembrano poco sostenibili senza includere anche la Cina nell’equazione).
Questo non sia alibi per non fare. L’Italia ha pure una responsabilità di prepararsi al futuro nel migliore dei modi, investendo su innovazione, competenze, mentre pensa a come calibrare le politiche sul lavoro.