Il praticare lo sport preferito, il viaggiare per turismo, l’applicarsi ai propri interessi culturali e sociali sono attività che la più fortunata parte della popolazione mondiale percepisce come indifferibili, del tutto compresi nel proprio stile di vita, motore e motivo della fatica quotidiana legata al lavoro.
Sebbene ci possa sembrare strano pensarlo, basta guardare alla vita dei nostri nonni o bisnonni per accorgersi, che sport, turismo e hobby erano occupazioni riservate a pochissimi individui fino a qualche decina di anni fa. A quell’epoca, erano parole che avevano un senso solo nella vita di persone molto ricche e perlopiù senza una professione, come i nobili, ad esempio, e altri fruitori di tesori lasciati dagli avi.
La possibilità di utilizzare il proprio tempo per la propria realizzazione si è estesa alle grandi masse in perfetta e causale coincidenza con la progressiva automazione delle mansioni più pesanti, gravose, pericolose, disagevoli.
Innovazioni e benessere sociale
Oggi, ad esempio, chi fa sport lo pratica nel tempo libero dal lavoro e utilizzando il reddito derivato da quello. E il “tempo libero” esiste perché gli automi hanno una maggior produttività degli umani e agiscono in situazioni che man mano che gli anni passano sempre più riteniamo disumane.
È successo per ogni ondata di innovazione: la generazione che svolge il compito che la macchina diventa in grado di svolgere teme per il proprio reddito, quella successiva (i figli) pensa che quella stessa fatica mai vorrebbe essere costretta a praticarla per guadagnarsi il pane, ora dopo ora, giorno dopo giorno in una vita resa buia dalla stanchezza permanente, dalla salute compromessa da sforzi eccessivamente pesanti o svolti in condizioni pericolose.
Paure infondate e facili entusiasmi vanno di pari passo con l’innovazione
Si perpetua ogni volta questo meccanismo: si diffonde l’innovazione, segue immediata la paura di perdere il proprio reddito e ruolo sociale poi, passato qualche anno, si definisce “disumana” quella fatica da cui l’automa ha liberato l’umano.
Allo stesso modo, ad ogni passaggio epocale dell’innovazione, qualcuno dice “questa volta è diverso” non appena gli si fa notare quanto sopra.
È probabilmente accaduto per il fuoco, per la ruota, per la scrittura e poi via via per il telaio a vapore, per l’elettricità, per la comunicazione a distanza, per i computer.
Ora è il turno dell’Intelligenza Artificiale e certo “questa volta è diverso”, esattamente come tutte le altre volte, perché la “diversità” sta nelle condizioni in cui i cambiamenti si verificano, molto meno nei loro meccanismi di impatto.
Così sempre insieme ai peana ci sono le esaltazioni mistiche, quelle per cui tutto andrà bene comunque.
Il timore infondato e l’accettazione incondizionata camminano accanto, in genere basando il primo sulla scarsa comprensione tecnica del fenomeno e la seconda su una visione specialistica che si concentra sui risultati positivi e non percepisce i rischi che ogni cambiamento comporta.
Ora è i turno dell’intelligenza artificiale
Riguardando le drammatiche previsioni sull’occupazione di tante fosche analisi del recentissimo passato, quelle che prevedevano la “perdita di milioni di posti” per l’avvento dell’AI, oggi possiamo verificarne la capacità predittiva, invero assai scarsa.
Di più: le misurazioni fatte dimostrano il contrario, e cioè che il tasso di occupazione aumenta proprio in quei Paesi che maggiormente investono in innovazione, compresa l’intelligenza artificiale nelle sue diverse espressioni.
Nondimeno, l’apparizione della Generative AI ha riaperto il baratro: si va dal “moriremo tutti” di certi che chiamano “giornalismo” la compilazione ordinata tramite copia-e-incolla dei comunicati stampa al “guadagneremo molto di più” di chi spera di passare da controllato (dal professore, dal capufficio o dal cliente) a controllore (dell’app generativa) e intanto farla franca.
I due estremi si toccano in un punto: la convinzione che il cambiamento sia gestibile su piccola scala, localmente, nel Paese X diversamente che nel Paese Y, nell’azienda Tale differentemente dall’impresa Talaltra, in un certo mestiere e non in un altro, così moltiplicando i tentativi di fermarne l’avanzamento con qualche regoletta, utile come un secchio per svuotare il mare.
Il lavoro non è una torta
Un’altra concezione che sempre appare e data per scontata, verità indiscutibile semplicemente perché non discussa: che il lavoro sia una torta, un insieme finito che fa 100 e l’occupazione umana una parte di quel 100 e quella degli automi il restante, uomini e macchine in competizione tra loro per assicurarsi una fetta più grande.
Eppure basterebbe guardare allo sport e al turismo per vedere che non c’è nessuna torta e che le attività economiche non sono un insieme finito, perennemente uguale a se stesso: pensate a quanta ricchezza e posti di lavoro sono nati da quei due ambiti negli ultimi decenni, proprio grazie all’automazione più rude, quella di fabbrica e di cantiere, che ha ridotto gli orari e concesso ai molti di poter guardare a tante ore come proprie, liberate da incombenze così gravose da togliere ogni desiderio di fare una corsa, leggere un libro, partire per il mare o la montagna. Quello che prima era lusso dei pochi di nobili natali è divenuto quotidianità per tanti.
La risposta che si sente dare dai fideisti assoluti nell’intelligenza artificiale è spesso anch’essa legata a questo concetto del “lavoro come torta”: dicono “si perderanno posti nel settore X ma pensate a quanti ingegneri e tecnici e persone competenti in ogni ambito li troveranno proprio per portare avanti l’AI, studiarla, applicarla, manutenerla, insegnarla, migliorarla”.
Insomma, tranquilli che la torta è sempre quella, ma cambiandone la nostra fetta sarà grande come prima. Quasi un’imitazione dello “steady universe” di cui persino i più grandi scienziati dell’età d’oro della fisica avevano certezza, fino a quando Hubble e Humason dimostrarono che l’universo non era affatto bloccato nelle sue dimensioni ma, anzi, andava espandendosi a velocità straordinarie.
Sviluppo tecnologico e nuove vie per l’ingegno
Ogni sviluppo tecnologico di grande portata non è solo sostitutivo di applicazioni fisiche o logiche ma apre nuove vie all’ingegno, all’estensione delle curiosità umane e alla creazione di valori nuovi, che generano a loro volta interi segmenti economici. Il rapporto sequenziale tra tecnica, cultura e consumo è tipico della nostra specie e circolare, sicché può innestarsi in uno qualsiasi dei tre ambiti e portare innovazione in ognuno.
L’importanza del dibattito sull’innovazione
Se, come la storia ci ha provato, l’innovazione porta benefici all’umanità nel suo insieme (e basta vedere i dati che riguardano lo stato attuale di Homo Sapiens per capirlo), questo non vuol dire che essa vada intesa e attesa messianicamente, senza una penetrante valutazione critica dei suoi aspetti, da quelli che riguardano il consumo delle risorse ambientali, a quelli che provocano danni locali che, come l’inquinamento, colpiscono tutti, ricchi e poveri, a quelli che sono ragione di guerre, carestie, migrazioni di milioni di persone.
E in guerra, carestia, migrazione l’uomo e l’umanità si spengono, la luce della dignità si affievolisce, rafforzandosi invece la diseguaglianza, lo sfruttamento, il degrado della persona che quando è troppo povera o spaventata per concepire diritti torna, lei sì, ad essere macchina senza libertà, produttrice costretta e consumatrice del poco cui la obbliga la sua stessa sopravvivenza.
Quando si ragiona di questo, com’è accaduto nel convegno senese organizzato da SAIHUB e collegato alla conferimento da parte dell’Università di Siena della laurea honoris causa a Yann LeCun, uno dei padri dell’AI, allora si fa qualcosa che incide minimamente ma davvero sul futuro. La discussione continua e il suo allargamento ad ogni componente sociale, quando sottratta a imbelli allarmismi o ciechi entusiasmi di certa prosperità futura e invece basata su dati di fatto, sulle conquiste e sulle critiche è il meccanismo che fa scattare la condivisione di approcci e valori, quella che chiamiamo semplificando “etica”, che è pre-visione del futuro, suo fondamento, con un potere diverso da qualsiasi norma di legge, la quale è invece risposta puntuale e perciò inevitabilmente di rincorsa rispetto a cambiamenti tecnici tanto veloci e altrettanto speditamente disponibili.
Conclusioni
In fondo, se nelle nostre città sono sparite le pelliccerie e quel genere di abbigliamento non è più visto come status symbol, questo non è dovuto a qualche norma, a qualche divieto ma invece alla convinzione sociale che si è diffusa in pochi anni secondo cui la vita di un animale non è sacrificabile per l’apparire, per un lusso senza necessità.
La responsabilità nel suo uso è ciò che rende buono o cattivo l’esito sociale di una tecnologia, vecchia o nuova che sia, e quella responsabilità è comune, non di pochi e non cedibile, per questo ne va discusso costantemente, con chiarezza, con tutti.