parole e social

Tutti i modi dell’hate speech sui social media: quando la lingua separa e ferisce

Le parole hanno il potere di modificare davvero la nostra visione della realtà, ci identificano, feriscono. Ecco perché, soprattutto nell’epoca dei social network, è più che mai importante sceglierle con cura, riflettere sulla qualità della nostra comunicazione

Pubblicato il 03 Mag 2018

Vera Gheno

sociolinguista specializzata in comunicazione digitale e traduttrice dall'ungherese. Docente a contratto presso l'Università di Firenze, collaboratrice Zanichelli

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La lingua è la proprietà nucleare che definisce gli esseri umani, ricorda Noam Chomsky: siamo gli unici animali su questo pianeta ad avere questo dono. Ogni altro essere vivente ha sistemi più o meno raffinati per comunicare (chiunque abbia un cane o un gatto in casa sa che il loro abbaiare e miagolare avrà mille sfumature, dalla fame alla felicità, dalla tristezza al malessere), ma nessuno possiede un codice così completo e così ricco di sfumature come il linguaggio umano, che poi si manifesta concretamente nelle varie lingue.

Già una trentina di anni fa, Italo Calvino osservava che tendiamo a usare le lingue a nostra disposizione spesso con grande superficialità:

“Alle volte mi sembra che un’epidemia pestilenziale abbia colpito l’umanità nella facoltà che più la caratterizza, cioè l’uso della parola, una peste del linguaggio che si manifesta come perdita di forza conoscitiva e di immediatezza, come automatismo che tende a livellare l’espressione sulle formule più generiche, anonime, astratte, a diluire i significati, a smussare le punte espressive, a spegnere ogni scintilla che sprizzi dallo scontro delle parole con nuove circostanze”.

Quante volte impieghiamo la prima parola che ci viene in mente? Quante volte sappiamo che, con un po’ di sforzo, potremmo trovare un termine più preciso, ma ci accontentiamo di un passepartout come cosa o fare? È un “crimine” che commettiamo più o meno tutti, spesso senza rendercene conto. Usiamo il linguaggio in maniera incerta, imprecisa, “come viene viene”, come se fosse altro a contare, come se il contenuto avesse un’importanza molto più rilevante della forma che gli diamo, sia dal punto di vista lessicale sia da quello grammaticale. Naomi Baron lo definisce linguistic whateverism, qualunquismo linguistico. Una volta, forse, questo whateverismo era meno evidente: non erano moltissimi i contesti in cui potevamo vedere facilmente esempi di testi informali scritti. Si possono citare le scritte sui muri, o quelle su ogni superficie possibile della “generazione Uniposca”. Oggi, con i nuovi media, scriviamo molto più di una volta, e anche questi usi non virtuosi della lingua sono più in vista. Il grande pregio dei social media, in un certo senso, è di averci messi a tu per tu con le nostre debolezze linguistiche. Se è vero, chiosando Eco, che internet ha dato visibilità agli “imbecilli” che prima, al massimo, pontificavano al bar sotto casa, è una fortuna che sia andata così: almeno adesso abbiamo coscienza della loro esistenza, anzi, forse iniziamo ad avere coscienza del fatto che noi stessi possiamo diventare parte di quegli imbecilli, quando succede qualcosa che ci colpisce molto da vicino e ci fa perdere la lucidità, anche linguistica.

La lingua come costante atto di identità

La lingua ci serve per comunicare e ci serve per descrivere la realtà, e su questo secondo aspetto torneremo più avanti. Da un punto di vista relazionale, la lingua ci permette di creare connessioni, ponti, e di riconoscere le persone che appartengono alla mia “tribù” (possiamo pensare di essercene evoluti, ma di fatto per molte cose siamo ancora estremamente tribali) escludendo, al contempo, chi invece a quella tribù non appartiene: la lingua unisce e divide. Ne è riprova il fatto che non esiste gruppo di amici che non abbia qualche forma di idioletto, ossia di modo “interno” di dire le cose. Che siano soprannomi, nomi di luoghi o altro, il gruppo crea coesione anche attraverso l’uso di specifiche parole chiave e, soprattutto, in base a questo parametro riesce a distinguere tra gli amici e i “nemici”.

Ancora più sottilmente, la lingua è un costante atto di identità. Ogni parola che scegliamo di usare e non usare dice qualcosa di noi, volenti o nolenti. Noi italiani, peraltro, abbiamo anche un’altra caratteristica sociolinguisticamente rilevante: nessuno di noi parla spontaneamente l’italiano standard. Ogni volta che apriamo bocca, parliamo con un’inflessione regionale che non solo permette agli altri di identificare la nostra provenienza, ma che fa partire, nella testa di ogni ascoltatore, una serie di associazioni di idee. In altre parole, ogni italiano regionale porta con sé dei giudizi formulati a scatola chiusa, ossia dei pregiudizi; insomma, ancor prima di scegliere le parole, siamo già stati scansionati e infilati in una certa nicchia per via del nostro accento, della nostra cadenza: il milanese è freddo ma super-efficiente; il napoletano vuole sicuramente fregare; il siciliano ci ricorda la mafia, o, nel migliore dei casi, il commissario Montalbano; il trentino “fa montanaro”, e via così, su e giù per la penisola, con una serie infinita di giudizi preformulati e preconfezionati che viziano, in maniera più o meno conscia, quello che noi pensiamo delle persone.

Iniziamo a vedere il linguaggio per quello che è veramente, e cioè il modo che abbiamo per descrivere con precisione prima di tutto noi stessi; di colpo ci renderemo conto di quanto sia enormemente importante scegliere la parola giusta. Le parole sono importanti. Non è solo una frase famosa di Nanni Moretti, ma molto di più. John Searle, citato anche da Gianrico Carofiglio nel suo libro Con parole precise, afferma “Non è possibile pensare con chiarezza se non si è capaci di parlare e scrivere con chiarezza”: il parlare e lo scrivere male diventano quasi una cartina di tornasole di pensieri altrettanto nebulosi.

I problemi di un contesto di sole parole

Adesso, spostiamoci in un contesto in cui noi siamo rappresentati solo dalle parole. Siamo privi di corpo, di volto, di gestualità, di tono di voce. Siamo puro testo. Va da sé che in un contesto del genere le parole sono ancora più importanti. È esattamente ciò che succede online: quando scriviamo sui social, nella sezione commenti di un quotidiano, su un forum di discussione, a rappresentare ciò che siamo ci sono solo le nostre parole. Eppure, proprio online vediamo con chiarezza inedita la sciatteria con cui sovente comunichiamo, con conseguenze talvolta anche gravi.

La comunicazione mediata produce due effetti: quello di rendere le persone più disinibite – non vedo l’altro in faccia, è più facile dirgli cose, sia belle che brutte – e, secondo vari studiosi, anche quello di renderle più “uguali”: siccome gli indizi sull’altra persona sono in numero minore, ogni utente deve in un certo senso impegnarsi di più per ricrearsi una reputazione online ex novo, che dipende solo in parte da chi siamo nella vita reale.

A questo doppio effetto si unisce un altro aspetto universalmente riconosciuto: online non facciamo altro che riprodurre dinamiche proprie della nostra vita offline, nel bene e nel male, ma con effetti spesso amplificati; molti, quando scrivono sui social, pensano di essere ancora nel salotto di casa loro, e si stupiscono se, colti in fallo, viene loro fatto notare che la loro brillante battuta non ha fatto ridere nessuno, ma anzi, ha fatto indignare diverse persone. Ho battezzato questo fenomeno effetto-tinello. Quindi: non ci vediamo in faccia, affidiamo alle parole tutta l’espressione di noi stessi, siamo sin troppo disinibiti, siamo tutti un po’ più uguali, ci comportiamo come se non avessimo di fronte l’enorme pubblico potenziale che può leggerci sui social… ed esattamente come offline, usiamo la lingua per unire e per dividere.

Il rapporto degli italiani con la loro lingua e cultura

A tutto questo, aggiungiamo pure la questione delle pericolanti competenze linguistiche e culturali degli italiani: leggono poco (circa la metà degli italiani non legge nemmeno un libro all’anno, ma soprattutto quasi una famiglia su dieci non possiede neanche un libro in casa, a dimostrazione del fatto che non si tratta di problemi dell’ultima generazione, ma di questioni che toccano ormai più generazioni), scrivono molti ipotesti (definizione coniata dalla studiosa Elena Pistolesi) ma non testi “veri”, lunghi e articolati, sono poco adusi alla discussione e tendono più spesso al litigio; non leggono i giornali, hanno un uso della rete piuttosto superficiale.

Nel corso dei decenni, altre debolezze cognitive sono state rese esplicite: la tendenza alla polarizzazione delle idee, e soprattutto quella, abbastanza comprensibile, a preferire idee e contenuti congrui con le proprie convinzioni, acuita dall’uso dei social network, fino ad arrivare all’effetto Triceratopo definito da Bruno Mastroianni, ossia quando la vista del singolo viene offuscata dall’opinione del gruppo omogeneo. Se si unisce la grande facilità di comunicare alla scarsa propensione dialettica, i problemi sono assicurati, e ne troveremo chiara traccia proprio nella lingua impiegata.

Tutti i modi di ferire con le parole

C’è un settore della lingua molto ricco e interessante da studiare che è quello delle parole che feriscono. Un articolo di Tullio De Mauro, uscito su Internazionale, ne “mappa” di vari tipi. Quelle più semplici, sia da individuare che da evitare, sono quelle esplicitamente offensive: insulti, epiteti, termini volgari, bestemmie. Sono così evidenti che possono essere facilmente “flaggate” in rete da filtri che ne impediranno la pubblicazione, ma anche in questo caso apparentemente lampante possono succedere incidenti: potrebbe capitare che un omosessuale che usa scherzosamente il termine “frocio” per autodefinirsi venga bloccato da Facebook per “hate speech”, perché il sistema, o chi controlla, non è in grado di comprendere l’uso ironico del termine. Insomma, dobbiamo considerare anche il settore delle parole che sarebbero offensive, ma che se usate in un certo modo possono anche non esserlo: nigger, se usato da un’azienda nel nome di uno smalto di colore nero (Thick as a nigger, per l’esattezza), risulta estremamente offensivo; se impiegato da una persona di colore, ad esempio un rapper, diventa invece una rivendicazione di orgoglio razziale. Insomma, non conta solo il contesto, ma anche l’atteggiamento. Non si possono avere certezze che una parola apparentemente offensiva sia usata per offendere, ma nemmeno che una parola non offensiva non venga usata per offendere. Questo è in parte il limite del cosiddetto “politicamente corretto”: si pensa che la scelta di una parola non offensiva possa persino neutralizzare un’attitudine negativa. Ma non è che un razzista diventi meno razzista se usa “afroamericano” invece di “negro”, anche se è vero che l’uso delle parole più corrette può contribuire a modificare, seppur lentamente, l’opinione pubblica.

Molto più infide sono le parole che possono diventare offensive a seconda del contesto o, soprattutto, dell’intenzione comunicativa. E in questo settore De Mauro identifica, tra gli altri, i nomi di ortaggi o animali (finocchio, rapa, bietolone, cagna, caimano, maiale), i nomi geografici (levantino, cinese, mongolo), le malattie (matta, deficiente, storpio). Quante volte sarà capitato a una donna di sentirsi dire ma hai il ciclo?, come se questo le annebbiasse il raziocinio e la rendesse meno lucida.

Ancora più insidiose sono le parole che non sembrano offensive: signora, ad esempio, può venire usato in maniera derogatoria per rivolgersi a una professionista invece del suo titolo professionale. Nell’esempio sottostante, si noti il tono che assume la contestazione anche a causa dell’uso di signora.

Davanti a una provocazione, occorrerebbe trovare la forza di rispondere nel merito, pensando al contempo alla maggioranza silenziosa che osserva lo scambio senza intervenire. Sono quindi state date alla signora, e a tutti i presenti, le informazioni necessarie per verificare quanto da me affermato.

Alla stessa maniera, si può usare con intento offensivo un’espressione come giovane studiosa, apparentemente gentile, ma in realtà pesantemente paternalistica, soprattutto quando la suddetta giovane ha ormai passato da un pezzo la quarantina, e quindi può a buon diritto dirsi “diversamente giovane”. Diventta un modo per rimarcare la differenza di livello in maniera piuttosto fastidiosa.

L’ipotesi Sapir-Whorf

Usare parole più “giuste”, accennavamo, può aiutare a modificare il modo in cui “vediamo” certe cose. Nel film Arrival, risalente a qualche anno fa, la protagonista, una linguista alle prese con il compito di decifrare il linguaggio alieno, cita l’ipotesi Sapir-Whorf: la lingua che usiamo modifica il nostro modo di vedere la realtà. Pensiamo a un caso piuttosto semplice, che probabilmente abbiamo riscontrato tutti. Da qualche anno a questa parte, l’arrivo in massa di migranti sul suolo italiano viene definito “invasione”. Aprendo il vocabolario (qui è stato consultato lo Zingarelli 2018), si verifica il preciso significato del termine:

penetrazione, avanzata violenta in un territorio altrui: l’invasione di un esercito; le invasioni barbariche, degli Unni, dei Goti | irruzione di numerose persone in un luogo: l’invasione di un podere da parte degli scioperanti | (fig.) enorme affluenza: un’invasione di turisti | invasione di campo, quella compiuta dagli spettatori durante o dopo un incontro sportivo, per protesta o per festeggiare la vittoria della propria squadra; (fig.) intromissione in un’attività o nel merito di competenze che appartengono ad altri | (sport) fallo d’invasione, nella pallavolo, quello di chi tocca la rete o mette il piede o la mano nella metà campo avversaria.

In sostanza, invasione ha un significato negativo, violento, di azione ostile. Difficile, a ben pensarci, conciliare questa visione con gli sbarchi di profughi macilenti ai quali assistiamo continuamente. In questo caso, la scelta di un termine connotato come invasione ha certamente contribuito a diffondere un clima di tensioni e paura nei confronti dei migranti: le parole hanno il potere di modificare davvero la nostra visione della realtà.

L’annosa questione dei femminili

Al contempo, è vero anche l’inverso: la realtà modifica la lingua. Proprio perché uno dei compiti a cui è preposto il nostro linguaggio è quello di descrivere le infinite sfumature della realtà che ci circonda, al variare della questa varierà anche la lingua. Uno dei temi linguistici più caldi del momento è quello che riguarda il femminile dei nomi di professione. Termini quali ministra, sindaca, ingegnera hanno sollevato grandi critiche e proteste (di “cacofonia”, quando non direttamente di inutilità). Secondo molti, dato che questi termini non esistevano prima, non dovrebbero esistere nemmeno adesso. In realtà, dal punto di vista linguistico, le forme femminili sono perfettamente regolari e previste dal sistema (nonché prevedibili, tranne alcuni casi in cui sono possibili più opzioni, come il femminile di gestore: gestora o gestrice?); semplicemente, molti di questi femminili non erano in uso perché nella realtà non esisteva la figura designata da quella parola o, per scomodare Saussure, il significato?

I femminili, regolarmente riportati dai dizionari più aggiornati – come lo Zingarelli – si formano in vari modi, quindi calciatore-calciatrice, deputato-deputata, avvocato-avvocata, il/la presidente, ecc. In italiano, il sistema dei maschili e femminili non è diviso in maniera binaria (-o per le parole maschili e -a per quelle femminili), anche se una delle tipiche repliche “ironiche” che ogni post concernente il tema provoca è “allora io da domani dico pediatro, astronauto, estetisto”, nella completa ignoranza dei meccanismi etimologici e del fatto che esistono, appunto, parole maschili in -a, esattamente come parole femminili in -o (esempio: eco, albedo).

A proposito di violenza comunicativa, si noti l’uso, peraltro piuttosto diffuso, di etichettare come “patetica” ogni lotta che non sia sentita come rilevante.

Vengono spesso citati, come controesempi che toglierebbero senso alla richiesta di usare i femminili dei nomi di professione, i pochi mestieri che hanno denominazioni al femminile pur essendo svolti soprattutto da maschi: a parte guida, vittima e spia abbiamo sentinella, vedetta, guardia, recluta.

Questi esempi sono leggermente più pertinenti, perché nulla esclude, in realtà, che si possa creare un movimento per iniziare a definire sentinello, vedetto, guardio o recluto i maschi che svolgono questa professione. Ma, da una parte, questi sostantivi sono una minoranza infinitesimale rispetto alla pletora di professioni per le quali non esiste (ancora) un femminile consolidato nell’uso, pur esistendo a livello linguistico; dall’altra, occorre ammettere che generalmente il livello di discriminazione in ambito professionale mei confronti del genere maschile non è rilevante come quella per il genere femminile. In breve, nessuna sentinella si è mai sentita discriminata perché chiamata al femminile.

Tutte le donne della “presidenta”

A proposito del femminile presidente, merita una menzione speciale il dileggio prolungato nel tempo rivolto a Laura Boldrini, che avrebbe, secondo alcune testate giornalistiche, chiesto e ottenuto, con l’avallo dell’Accademia della Crusca, di essere chiamata presidenta. Incredibilmente, tutta la notizia è un falso, originato dai titoli degli articoli di alcuni quotidiani, come per esempio il Giornale (peraltro, nel corpo dell’articolo non si parla più di presidenta, anche se i commentatori scelgono in maggioranza di ignorare questo fatto, o di verificare le informazioni). Laura Boldrini chiese, molto semplicemente, di essere chiamata signora presidente, laddove un deputato insisteva nel chiamarla signor presidente. Ecco, sempre a proposito di ostilità, alcuni commenti alla succitata notizia. Si noti come la maggior parte di chi dice la sua non metta in dubbio la notizia pubblicata, ma parta con insulti e improperi contro Boldrini e contro la Crusca, peraltro manifestando conoscenze linguistiche piuttosto superficiali… ma si sa, in ambito linguistico più che in altri campi è forte il pregiudizio dei parlanti madrelingua, convinti sovente di conoscere bene e a fondo la lingua che “vivono” sin dalla più tenera età. A dire il vero, parlare una lingua non significa affatto essere aduso a ragionamenti metalinguistici, che in casi come questo sarebbero necessari per non cadere in facili opinioni “di pancia”.

Questa notizia falsa, purtroppo, continua ancora oggi a girare. Disgraziatamente, come mostrano gli studi del gruppo di Walter Quattrociocchi, oggi in forze a Ca’ Foscari, il debunking, ossia la smentita di notizie palesemente false, ma che solleticano dei pregiudizi forti presenti nelle persone, non funziona quasi per niente. Le persone che credono alla bufala di presidenta colpiscono due, forse anche tre bersagli: Laura Boldrini, misteriosamente considerata una delle politiche più antipatiche degli ultimi anni; l’Accademia della Crusca, vissuta da molti come ente parassitario da chiudere; in generale, le “femministe”, una specie di sottocategoria “malata” delle donne, che avrebbero richieste stolte e sciocche. Per alcuni, questo “tris” è molto soddisfacente. Le donne stesse, talvolta, reagiscono con grande violenza verbale (e non solo) a questo tipo di richieste.

Un po’ di storia dei femminili

È evidente che nella questione dei femminili si incrociano molte questioni, non solo linguistiche. Se da un punto di vista di puro sistema i femminili sono regolari, e la loro comparsa è giustificata dall’aumento di donne in posizioni lavorative o rappresentative di spicco, è chiaro che la questione ha anche pesanti risvolti sociali e politici che non possono essere ignorati.

Intanto, occorre sfatare l’idea che le istanze “femministe” siano nuove, magari frutto della politica di Boldrini o di Fedeli. Uno dei primi documenti dove si discute della questione è il noto “Raccomandazioni per un uso non sessista della lingua italiana” di Alma Sabatini, risalente al 1987; da allora, la discussione è sempre proseguita, in toni forse più riservati agli addetti ai lavori che non al largo pubblico per due motivi diversi: raramente si è parlato della questione a livelli politici così alti come ultimamente; inoltre, prima dell’esistenza dei social network, la partecipazione delle persone al dibattito pubblico era comunque più limitata.

Se si consulta la sezione della consulenza linguistica sul sito dell’Accademia della Crusca, si trova testimonianza di un’attività pluridecennale di risposte sull’argomento dei femminili professionali da parte di eminenti linguisti, e non sempre in termini esclusivamente favorevoli. Ad esempio, Luca Serianni nel 1995 diceva:

A me sembra però che, al di là dell’uso di alcuni giornali (non di tutti!), più sensibili al “politicamente corretto”, nella lingua comune forme del genere non siano ancora acclimatate e, anzi, potrebbero essere oggetto d’ironia. Sul loro successo incide negativamente anche il fatto che molte donne avvertano come limitativa la femminilizzazione coatta del nome professionale, riconoscendosi piuttosto in una funzione o una condizione in quanto tale, a prescindere dal sesso di chi la esercita. I giornali hanno fatto gran parlare, a suo tempo, dell’uso di Irene Pivetti che si riferì a se stessa come «presidente della Camera», «cittadino» e «cattolico».

Nel 2003, il tono di Raffaella Setti era già diverso:

Fanno parte di questa categoria di sostantivi anche alcuni nomi professionali indicanti mestieri e professioni tradizionalmente riservati agli uomini che, con l’aumento della presenza femminile, stanno subendo un riassestamento: un caso emblematico, tra quelli uscenti in -sore, è assessore (dal verbo assidere, propriamente ‘sedere accanto’) di cui possiamo trovare, in sintonia con le Raccomandazioni per un uso non sessista della lingua italiana di Alma Sabatini in cui erano caldeggiate le forme femminili del tipo avvocata, ministra, soldata, la forma femminile assessora, favorita anche dall’impossibilità, iniziando per vocale, di indicare il femminile attraverso la scelta dell’articolo (es. il giudice e la giudice; il deputato e la deputato, ecc.).

Nel brano di Setti, peraltro, si noti che veniva menzionata ancora la forma la deputato, mentre oggi è perfettamente acclimatata la forma deputata, a dimostrazione di quanto siano veloci questi cambiamenti.

Ha avuto grande importanza nella storia della Crusca la presenza della prima donna presidente, Nicoletta Maraschio, che si definiva già la presidente nel 2009, ben prima delle richieste di Laura Boldrini che, quindi, si inseriscono su un sentiero battuto da tempo dall’Accademia, e non viceversa. Questo va sottolineato, dato che spesso la Crusca viene accusata di servilismo nei confronti delle istituzioni. Le parole della professoressa Maraschio sono le seguenti:

Essere la presidente è una buona soluzione, favorita da forme analoghe di grande diffusione, anche se non del tutto sovrapponibili, come la preside, la cantante, e per di più in diretta continuità, per quanto mi riguarda, con il titolo la vicepresidente che ho avuto a lungo. La lingua italiana consente, in questo caso, una soluzione semplice e per così dire trasparente e naturale di un problema, quello del riassestamento maschile-femminile nei nomi professionali; bastano infatti l’articolo (maschile o femminile) e l’eventuale accordo (una presidente impegnata / un presidente impegnato) a definire, insieme, il genere e la funzione. Simile il caso dei nomi in -ista (da ciclista a giornalista) non a caso sempre più diffusi perché hanno il vantaggio di fare sistema coi nomi in -ismo e di essere presenti in molte lingue.

Per seguire l’evoluzione della questione, conviene consultare anche il Tema del mese dal titolo Infermiera sì, ingegnera no?, pubblicato da Cecilia Robustelli, una delle massime esperte sulla questione in Italia, sul sito nella Crusca nel maggio 2013, dal quale emerge chiaramente la difficoltà generalizzata ad accettare che le forme femminili sono, da un punto di vista linguistico, perfettamente lecite e, anzi, caldeggiate. Scrive Robustelli:

Qual è la ragione di questo atteggiamento linguistico? Le risposte più frequenti adducono l’incertezza di fronte all’uso di forme femminili nuove rispetto a quelle tradizionali maschili (è il caso di ingegnera), la presunta bruttezza delle nuove forme (ministra proprio non piace!), o la convinzione che la forma maschile possa essere usata tranquillamente anche in riferimento alle donne. Ma non è vero, perché maestra, infermiera, modella, cuoca, nuotatrice, ecc. non suscitano alcuna obiezione: anzi, nessuno definirebbe mai Federica Pellegrini nuotatore. Le resistenze all’uso del genere grammaticale femminile per molti titoli professionali o ruoli istituzionali ricoperti da donne sembrano poggiare su ragioni di tipo linguistico, ma in realtà sono, celatamente, di tipo culturale; mentre le ragioni di chi lo sostiene sono apertamente culturali e, al tempo stesso, fondatamente linguistiche.

I commenti sono, nonostante la spiegazione, spesso molto critici:

Non ritengo che l’uso di avvocato o di ministro riferito ad una donna sia uno svilimento del ruolo della stessa donna che ricopre determinate cariche. L’indicazione di Ministro o magistrato ecc., rappresenta l’indicazione di una “funzione” e a mio sommesso avviso che quella funzione sia ricoperta da un uomo o da una donna non cambia alcunché. Anzi, non vedo perchè si debba distinguere se un chirurgo sia uomo o donna, è un professionista e questo mi basta, il voler distinguere a tutti i costi, svilisce talvolta la donna stessa!

Commenti altrettanto critici, e anche scomposti, compaiono anche sui social della Crusca:

Si fa sovente riferimento, come controargomentazione all’uso dei femminili, al fatto che le cariche sarebbero neutre; lo pensa, ad esempio, Massimo Sgrelli, Presidente del Comitato Scientifico dell’Accademia del Cerimoniale, Capo Dipartimento del Cerimoniale della Presidenza del Consiglio dei Ministri dal 1992 al 2008. Lo afferma con toni molto accesi, concludendo il suo intervento con una chiusa opinabile:

Molte donne non sanno rinunciare ad affermare la propria personalità di genere anche dove non è consentito, non sapendo distinguere la terminologia letteraria e giornalistica (dove si può) da quella istituzionale (dove non si può), e molti uomini non vogliono opporsi a richieste femministe per non apparire arretrati. E, quindi, alla fine di questa paradossale diatriba il colpevole è il… politically correct.

Una specie di sghiribizzo tutto femminile, insomma. In realtà, le due cose non confliggono: si parla di gabinetto del ministro, di carica di rettore, di posizione di chirurgo (e si preserva la neutralità della carica), ma ciò non toglie che questi termini si possano volgere al femminile quando riferiti specificamente a una persona di sesso femminile: la ministra Fedeli, la rettrice dell’università, la chirurga che ha operato mia madre, come giustamente nota anche il linguista Michele Cortelazzo in un post apparso sul suo blog il 15 gennaio 2017, di cui cito un solo passo:

“[Che l’uso dei femminili sia legittimo] Non occorre che lo dica l’Accademia della Crusca, che peraltro non è la custode (posso usare il femminile?) «della verità nazionale in materia linguistica». Chissà da quale fonte Sgrelli ricava questa funzione della Crusca. Tornando alla possibilità di usare il femminile, non lo dice la Crusca, lo dice la grammatica italiana, in base alla quale si attribuisce il genere grammaticale femminile ai nomi che rappresentano un referente umano di genere femminile. Quindi, che si possa dire sindaca, ministra, avvocata, o la presidente, non dovrebbe neppure essere argomento di discussione. Il Presidente della Crusca, Claudio Marazzini, ha però anche precisato con chiarezza che, in una fase di incertezza quale quella attuale (dovuta al fatto che l’assunzione di cariche prestigiose da parte di donne o l’ingresso di donne in alcuni ambiti professionali è recente) non ha senso «invocare la grammatica per condannare “il sindaco” usato per una donna, o viceversa per condannare “la sindaca”, a sua volta usato per una donna”

Altri documenti per approfondire la questione possono essere una nuova risposta di Cecilia Robustelli, pubblicata sul sito della Crusca nel febbraio 2017, che nella scheda si occupa specificamente dei femminili di medico, poeta, direttore e pilota; il libro Sindaco e sindaca: il linguaggio di genere (il quarto della serie coordinata dall’Accademia della Crusca per “La Repubblica”, pubblicata nel corso del 2017), sempre a cura di Robustelli e, infine, l’ottimo approfondimento contenuto nelle ultime edizioni dello Zingarelli sul termine femminile, ripubblicato come Parola del giorno sul sito web Dizionaripiù di Zanichelli l’8 marzo 2018, che ha il grande pregio di “normalizzare” ancora di più la questione. Riporto la parte saliente della scheda che, anche se lunga, rappresenta un ottimo vademecum, nonché la dimostrazione, nero su bianco, che non si tratta né di capricci femministi né di un complotto dei poteri forti, quali che siano.

In questo quadro generale, è spesso difficile formare il femminile dei nomi che indicano professioni o cariche. Il motivo è semplice: negli ultimi decenni sono avvenute nel nostro Paese profonde modificazioni sociali, economiche e culturali. Una delle conseguenze è stata la crescente presenza femminile in mestieri e professioni un tempo riservate agli uomini. Ecco allora che, quando un’abitudine consolidata identificava una certa professione col ruolo – e quindi col nome – maschile, la necessità di individuare la corrispondente forma femminile ha creato imbarazzo e dubbi. Avvocata, avvocatessa o ancora avvocato? Chirurga o ancora chirurgo? Valgono comunque le seguenti regole:

  • il femminile di nomi che indicano professioni o cariche si forma in generale senza problemi applicando le regole indicate in precedenza. Si dice perciò: la dentista, la pediatra, la analista, la farmacista; la psicologa, la radiologa, la ginecologa, la cardiologa; la chimica, la filosofa, la deputata; la direttrice, la amministratrice, la ispettrice, la senatrice; la preside, la docente, la agente. Nel caso di ‘notaio’ si può dire sia la notaia Maria Rossi che il notaio Maria Rossi. Rare invece sono le forme ingegnera, medica e soldata, con i femminili di alcuni nomi dei gradi militari;
  • è sempre opportuno usare la forma femminile, quando esiste, anziché il maschile: si dirà perciò la radiologa di turno Maria R. e non il radiologo di turno Maria R. Analogamente è consigliabile preferire l’ambasciatrice Clara L. a l’ambasciatore signora Clara L.: l’eventuale dubbio che possa trattarsi della moglie di un ambasciatore maschio sarà chiarito dal contesto;
  • talora il suffisso -essa ha intonazione ironica o addirittura spregiativa: perciò è preferibile la presidente a la presidentessa, la filosofa a la filosofessa, ecc. Nessun problema tuttavia per studentesse, professoresse, poetesse, dottoresse e, naturalmente, neppure per ostesse, duchesse, baronesse, contesse e principesse;
  • anche i nomi invariabili di origine straniera possono in generale essere femminili: si dirà perciò la manager, la leader, la art director, la designer, la scout, ecc. Ma gentleman, mister, policeman e steward sono solo maschili, mentre nurse, vendeuse, miss e hostess sono solo femminili;
  • nei composti con capo-, quando il secondo elemento si riferisce a cosa, il femminile è invariabile sia al singolare che al plurale: si dirà perciò il caposervizio, la caposervizio, le caposervizio; il caporeparto, la caporeparto, le caporeparto. Quando il secondo elemento si riferisce a persona, la desinenza femminile è quella del secondo elemento stesso: il capocomico, la capocomica, le capocomiche; il capocuoco, la capocuoca, le capocuoche;
  • alcuni nomi femminili si riferiscono sia a uomini che a donne: guida, guardia, sentinella, recluta, matricola, spia, comparsa, controfigura, maschera, ecc.; analogamente alcuni nomi maschili si riferiscono anche a donne: per esempio messo, mozzo, sosia, secondo (nei duelli), fantasma. Inoltre soprano, mezzosoprano e contralto si usano preferibilmente al maschile, benché indichino in genere cantanti di sesso femminile; si notino comunque i plurali: i soprani, le soprano;
  • mantengono il loro genere anche se riferite a persone di sesso diverso le locuzioni come battitore libero, franco tiratore, portatore d’acqua, braccio destro e prima donna;
  • alcuni nomi, infine, si riferiscono solo a uomini: galantuomo, nostromo, paggio, e marito, padre, padrino, fratello, genero, scapolo, celibe; altri solo a donne: dama, mondina, caterinetta, perpetua, e moglie, madre, madrina, sorella, nuora, nubile;

di norma il vocabolario riporta nella sezione grammaticale di ciascun lemma le indicazioni per la formazione del femminile nei casi in cui possano esservi dubbi.

Ciononostante, la doverosa conclusione sulla questione è necessariamente aperta: non si può, con certezza, prevedere quali forme entreranno stabilmente nell’uso e quali no, dato che il dirigismo linguistico non è molto efficace; saranno i parlanti a decidere se usare i femminili più contestati. Il linguista può solo dire che se esiste infermiera, va bene anche ingegnera; se usiamo maestra, nulla vieta di usare ministra; se c’è autrice, sono regolari anche rettrice o gestrice o calciatrice. Oggi abbiamo già stabilmente, da qualche decina di anni, deputata e senatrice, e da sempre regina e imperatrice, quindi non esiste nessun motivo linguistico per non volgere al femminile anche le cariche, quando riferite a donne.

Femminismi plurali

Chiaramente, va anche ricordato che esistono due orientamenti diversi di femminismo: uno è quello sotteso alla maggior parte delle osservazioni fatte fino a questo punto, a favore dell’emersione del genere della persona anche nell’ambito lavorativo; l’altro è invece a favore di un supposto neutro maschile sovraesteso (non sono poche, ad esempio, le donne che vogliono farsi chiamare avvocato, come le loro colleghe preferiscono magistrato a magistrata o il giudice Maria Rossi a la giudice Maria Rossi). Ognuno dei due schieramenti ha le sue ragioni, e sarebbe assurdo cercare di decidere chi ha ragione e chi ha torto a priori. Diciamo che, da un punto di vista linguistico, il ragionamento del neutro sovraesteso si inceppa, per l’italiano, sulla realtà che invece prevede una pletora di femminili professionali abituali: da dottoressa a segretaria, da ginecologa a professoressa, da operaia a sarta (ma anche regina, come già ricordato). Esigere il maschile usato come neutro per alcuni mestieri – quelli per i quali i femminili non sono abituali – cozza con un sistema in cui i femminili usati sono la stragrande maggioranza. Che non sia, dunque, altro che una questione di abitudine? L’italiano ha anche una complicazione ulteriore: ogni sostantivo della nostra lingua ha un genere grammaticale, che per gli esseri inanimati non ha attinenza con le caratteristiche dell’oggetto (non c’è motivo per cui luna è femminile e sole maschile, tanto è vero che in alcune altre lingue i generi delle stesse due parole sono invertiti), mentre per gli esseri animati è collegato al loro genere. Quindi in italiano il neutro non esiste proprio, e crearlo “a tavolino” sarebbe davvero difficile.

La esistenza ai cambiamenti linguistici

La resistenza ai cambiamenti linguistici, comunque, è sacrosanta. L’essere umano non nasce per il cambiamento; ama le certezze, la stanzialità anche cognitiva e linguistica. Si tende, ad esempio, a reagire con fastidio e astio a ogni neologismo incipiente; si pensi a quante proteste ha sollevato apericena, oggi entrato nei dizionari, ma anche il povero aggettivo petaloso che, invece, nei dizionari a tutt’oggi non si trova, se non nella sezione Neologismi di Treccani. In realtà, le parole nuove sono segno di vitalità di una lingua, e quindi sono visti con benevolenza dai linguisti che, peraltro, non hanno alcun ruolo attivo nella loro “approvazione”: la convinzione, ad esempio, che l’Accademia della Crusca abbia il ruolo di vagliare i neologismi è una bufala dovuta a varie distorsioni avvenute nei giorni successivi all’esplosione di petaloso, ma è davvero dura da eradicare. In realtà, le parole vengono registrate nei dizionari o perché previste dal sistema (molti femminili sono così, anche se finora non erano usati e quindi non si sentiva il bisogno di esplicitarli) oppure, e soprattutto, per questioni numeriche: i lessicografi estraggono, con strumenti statistici, tutti i termini che ricorrono un numero sufficiente di volte nei corpora rappresentativi di una lingua. In breve, una parola entra nel vocabolario se la usiamo. Di conseguenza, se un termine non ci piace, possiamo sempre scegliere, per l’appunto, di non usarlo, e di conseguenza di non contribuire alla sua registrazione nei dizionari. Insomma, è sempre colpa di noi parlanti: il suo stato di salute è legato direttamente alla nostra scarsa propensione a usarla bene.

Dissentire senza litigare si può

Le discussioni sui femminili hanno offerto qualche esempio di linguaggio palesemente ostile: nelle discussioni in rete è evidente quanto sia difficile mantenere la diatriba sui fatti e non cedere alla tentazione di insultarsi a vicenda. Non tutti riescono ad applicare il metodo della disputa felice, ossia di dissentire senza litigare. La maggior parte delle persone tende, molto semplicemente, a scannarsi in maniera scomposta, spesso riproducendo comportamenti seriali da “tipini social”: così troviamo quello che ha sempre qualcosa da eccepire, quello che riduce tutto a uno scontro noi vs voi, quello che lascia intuire l’esistenza di un grande complotto, quella che pensa di essere l’unico ad avere capito tutto e, infine, quello che, nel mezzo di una discussione, saluta e se ne va.

Poiché, a dire il vero, un po’ tutti possiamo rimanere incastrati in questi comportamenti, che spesso agiscono come dei riflessi pavloviani, più che giudicare gli altri, conviene riflettere tutti un secondo di più prima di lasciarsi andare all’ostilità fine a sé stessa.

Il Manifesto per la Comunicazione non Ostile

Un buon punto di partenza può essere il Manifesto per la Comunicazione non Ostile promosso dall’associazione Parole Ostili. Il manifesto si può scaricare e sottoscrivere, ma soprattutto andrebbe letto, riprendendosi il grande lusso che è a disposizione di ognuno di noi: la possibilità di dedicare realmente qualche minuto del nostro tempo a una riflessione sulle parole che stiamo, di fatto, per verbalizzare, pressoché indelebilmente, in rete.

Consiglio soprattutto una riflessione sull’ultimo punto del Manifesto: Anche il silenzio comunica. In altre parole, non serve avere sempre un’opinione tranchant su tutto. Quando non si è competenti su un argomento, si può scegliere, nonostante la costante tentazione di polarizzare la propria opinione su qualsiasi questione, di rimanere, per l’appunto, in silenzio.

Un’altra iniziativa vòlta a far riflettere sulla qualità e sulle finalità della propria comunicazione è #GalateoLinkedIn che, come il nome fa intuire, è dedicato specificamente al social network professionale che ben conosciamo.

Insomma, alla fine del discorso, c’è qualcosa che tutti noi possiamo davvero fare per combattere la tendenza alla rissa in rete: respirare, darci il tempo di pensare, scegliere con cura le parole. Tre mosse davvero alla portata di ognuno di noi.

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