La lettura

Quant’è difficile ribellarsi ai regimi nell’era digitale: mezzi e risorse per vincere la repressione

In che modo il digitale è un’arma per far valere i diritti di un popolo di fronte ai soprusi di un potere autoritario? E come, di contro, diventa un alleato dei regimi repressivi? Il libro The Arduous Road to Revolution. Resisting Authoritarian Regimes in the Digital Communication Age offre l’occasione per riflettere

Pubblicato il 02 Set 2022

Gabriele Giacomini

assegnista di ricerca presso il Dipartimento di Studi umanistici e del patrimonio culturale dell'Università di Udine e fellow presso The Center for Advanced Studies of Southeastern Europe – University of Rijeka

Photo by Michael Dziedzic on Unsplash

Nella guerra russo-ucraina, purtroppo ancora in corso, le tecnologie digitali sono protagoniste. Non solo per gli attacchi informatici alle infrastrutture di vari paesi (sia da parte di collettivi come Anonymous, contro la Russia, sia da parte di agenzie russe, contro l’Ucraina e le nazioni alleate), ma anche nel rapporto fra i governi e le popolazioni.

Repressione digitale, mano invisibile degli Stati autoritari nel mondo

Le tecnologie dell’informazione e della comunicazione, ovviamente, possono essere utilizzate proprio per informare a comunicare. È il caso della app Kyiv Digital, del Comune di Kyiv, che segnala ai cittadini gli attacchi dal cielo, ma anche rifugi, centri di primo soccorso, farmacie, punti dove trovare acqua potabile. Ma, come ricorda la repressione del governo di Putin, che si manifesta non solo con gli arresti dei manifestanti russi contrari all’aggressione militare ma anche attraverso una “stretta” sui principali social (occidentali), le tecnologie possono anche essere utilizzate per sorvegliare la cittadinanza.

Ciò conduce a interrogativi più generali: nella nostra epoca, caratterizzata dall’utilizzo delle ICT, il diritto alla ribellione contro un regime è ancora praticabile? Se lo è, in che misura? Come può essere salvaguardato?

Digital Freedom and Repression (#CNAS2019)

Digital Freedom and Repression (#CNAS2019)

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La repressione in Russia viaggia anche su Internet

Fra la fine di febbraio e l’inizio di marzo 2022, migliaia di persone hanno manifestato in almeno 21 città in tutta la Russia, non solo nella capitale Mosca e a San Pietroburgo, ma anche in Siberia e fino a Vladivostok sulla costa orientale, provocando l’intervento della polizia per disperdere la folla. Congiuntamente, sembra siano state arrestate almeno 15.000 persone nelle prime due settimane. A causa della repressione e della censura, le proteste in Russia contro la guerra in Ucraina sono scemate fino a scomparire. Il 4 marzo 2022, all’unanimità, con 401 voti favorevoli e nessun contrario o astenuto, la Duma di Stato russa ha approvato una legge che introduce pene per “la diffusione di informazioni false sulle operazioni delle forze russe, il discredito delle forze armate russe” e per chi “chiede sanzioni anti-russe”. Rischia fino a 15 anni di detenzione chi scrive o parla male della guerra.

L’offensiva lanciata dalla Russia in Ucraina il 24 febbraio si può chiamare solo “operazione militare speciale”. Così, non ci sono più piazze straripanti o slogan urlati. Per “stringere la presa” sulla popolazione durante l’aggressione all’Ucraina, il governo russo ha agito anche nel mondo digitale, chiudendo social occidentali (come Instagram) e aumentando le pene per i “disubbidienti” online (come dicevamo, sono state introdotte pesanti pene detentive, fino a 15 anni di prigione, per chiunque pubblichi “fake news” sull’esercito). Inoltre, secondo fonti esperte in cyber-security, sembra che il governo russo si stia preparando a trasferire tutte le trasmissioni, le connessioni ai server e la gestione dei domini su una rete parallela, la intranet nazionale “Rucom”, per controllarla completamente. Altrochè “Internet libero”. Queste sono notizie che stupiscono, ma fino ad un certo punto. Perché, in realtà, ci sono state nei primi decenni del 2000 diverse ribellioni soffocate.

Dalla rivolzione verde alla primavera araba. tutte le ribellioni soffocate

Era il 2009 e i lettori si ricorderanno della “Rivoluzione verde”, chiamata anche “Twitter revolution”, la ribellione che si è verificata in Iran contro il regime dell’allora presidente Aḥmadīnizhād. Twitter e altri social sono stati funzionali a comunicare notizie sulle evoluzioni politiche, “sostituendo” la stampa estera sul campo e nutrendo il supporto internazionale al movimento.

Tuttavia, dopo la fiammata di protesta c’è stata una feroce contro-reazione del governo. I manifestanti hanno cercato di utilizzare Facebook per radunare i sostenitori, e il governo ha risposto semplicemente (ma efficacemente) bloccando l’accesso al social. Comunità online che si riuniscono sotto un unico URL sono facilmente smantellabili, organizzazioni che si affidano a nodi e strutture su Internet possono essere spezzate con facilità. Fra le politiche reattive c’è stata anche quella di ridurre la larghezza di banda di Internet, in modo tale da rendere impossibile l’accesso al Web di molte persone insieme. Inoltre, il regime ha realizzato un nuovo sistema di filtraggio pervasivo, il “National Filtering Intelligence Bank”.

A ciò si sono sommate le politiche proattive, focalizzate nella diffusione di contenuti filogovernativi. A questo scopo è stata espansa la presenza online del corpo paramilitare dei Guardiani, con la creazione di 10.000 blog gestiti dai membri basīj (soprattutto donne e studenti).

Qualche anno dopo è stato il momento delle Primavere arabe. In Egitto, ad esempio, la popolazione richiedeva modeste azioni di giustizia sociale, oltre che il limite di due mandati alla carica presidenziale (a fronte dei quasi trent’anni di ininterrotto potere di Hosni Mubarak). Anche in questo caso, il movimento rivoluzionario ha utilizzato Internet. Le e-mail, Facebook, Twitter, almeno in un primo periodo, hanno contribuito a trasformare uno sciopero generale in una delle proteste più significative nella storia egiziana.

Il contrattacco del governo egiziano, tuttavia, ha realizzato quello che sembrava impossibile: dopo la mezzanotte del 28 gennaio, un paese tecnologicamente avanzato, densamente cablato, con oltre 20 milioni di persone online è stato “staccato” da Internet. Il governo di Mubarak era talmente compromesso, e la protesta così estesa nella società, che il “kill switch” di Internet non è stato sufficiente. Tuttavia, con Al-Sisi la repressione è tornata, anche su Internet. Nel 2018 Al-Sisi ha firmato una nuova legge sulla “criminalità informatica”: i siti web possono essere bloccati e chiunque sia ritenuto colpevole di aver gestito o semplicemente visitato tali siti o di aver diffuso informazioni sulle forze di sicurezza può essere condannato a gravissime pene. In un opuscolo intitolato “Come protestare in maniera intelligente” è consigliato di “non usare Twitter o Facebook o altri siti web perché sono tutti monitorati dal Ministero dell’Interno”. Per diffondere informazioni è meglio usare la fotocopiatrice e abbandonare lo smartphone. Si suggerisce di usare le bombolette spray per oscurare la videosorveglianza.

Altri casi più recenti, come quello della Bielorussia, di Hong Kong o del Myanmar vedono emergere nuove tecniche informatiche, sia da parte dei manifestanti sia da parte dei governi, ma seguono simili dinamiche: a una primissima e rapida fase, in cui la protesta si infiamma anche attraverso l’uso delle ICT, segue una lunga fase di repressione da parte del regime, sempre attraverso le tecnologie digitali, prima netta e violenta, poi più “morbida” ma capillare. Sotto questa cappa, l’impressione è che i regimi se la cavino piuttosto bene.

Riformare la governance digitale per proteggere la libertà

I media digitali, con accesso libero e democratico, promuovono la diffusione delle idee e delle informazioni. In Occidente, dagli Indignados spagnoli a Occupy Wall Street, da Nuit Debout in Francia a Black Lives Matter, si ragiona su qual è il ruolo politico dell’attivismo nei social media, su come la partecipazione può essere valorizzata con piattaforme civiche, di informazione, coinvolgimento, si approfondisce la sapiente costruzione di contenti multimediali, di post e di commenti online, di animazioni e meme. Tuttavia, si tratta di studi che considerano attività in situazioni politiche in cui le libertà fondamentali sono rispettate, nell’ambito di sistemi che, in sostanza, tollerano il dissenso. Il punto è che la situazione rischia di cambiare radicalmente quando i governi dominano le reti e le utilizzano a loro favore. Il problema è che, detto con uno slogan, Internet libero servirebbe soprattutto quando non è libero.

I falliti tentativi di ribellione contro poteri autoritari che si sono realizzati negli ultimi anni in Iran, Egitto, Hong Kong, Bielorussia, Myanmar gettano una luce sinistra sulle possibilità degli individui di ribellarsi efficacemente utilizzano i media digitali e le tecnologie della comunicazione. Una volta che alla sollevazione del popolo corrisponde un contro-reazione decisa da parte dei regimi, le legittime aspirazioni popolari rischiano di incagliarsi. Com’è possibile fare mobilitazione in un regime autoritario, in cui i manifestanti sono presentati come ribelli, banditi, terroristi? In questa ottica, bisogna chiedersi quali sono i mezzi e le risorse che gli attivisti possono mobilitare per superare le (gravi) difficoltà organizzative di fronte a governi repressivi. Dal punto di vista normativo, è urgente teorizzare e implementare un’“innovazione liberale”, ovvero un’architettura politica che possa favorire la valorizzazione degli elementi emancipatori dei media digitali. Secondo il liberalismo, il potere deve essere limitato, proteggendo i diritti dell’individui dalle ingerenze. Ora, anche nell’era digitale, bisogna applicare una vecchia massima del liberalismo classico, “innovandolo”: i poteri “troppo potenti” vanno divisi.

Per questo, bisognerebbe scomporre il “potere digitale”, ad esempio facendo in modo che le big tech non si fondano mai con l’autorità pubblica, che ci sia sempre una certa distanza fra il potere economico e quello politico nella gestione delle ICT, che le autorità indipendenti aumentino il loro ruolo di sorveglianza, proteggendo l’autonomia dei cittadini.

I diritti dovrebbero essere aggiornati, considerando non solo il mondo fisico, ma anche quello virtuale (un diritto come quello alla privacy, ad esempio, permette di minimizzare la raccolta di dati che, potenzialmente, potrebbe essere utilizzata da un potere autoritario).

A livello internazionale, le istituzioni sovranazionali dovrebbero proteggere un ordine ospitale per i diritti digitali dei popoli, sostenendoli anche tecnologicamente nelle loro legittime rivendicazioni. A livello nazionale il potere digitale, per non rischiare di essere concentrato nelle mani del governo, dovrebbe essere distribuito fra i diversi organi dello stato, fra politica e tecnica, fra istituzioni e società civile.

Infine, a livello individuale, i cittadini dovrebbero essere in grado di difendere la propria libertà utilizzando con consapevolezza i media digitali. Promuovere l’alfabetizzazione digitale non significa soltanto preparare i giovani al nuovo mondo del lavoro, significa soprattutto dare loro strumenti di libertà.

*Per approfondire questi temi, il libro The Arduous Road to Revolution. Resisting Authoritarian Regimes in the Digital Communication Age

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