gen z e lavoro

Quiet quitting, se il lavoro non è più il centro della vita: cos’è e come affrontarlo in azienda

Il fenomeno del quiet quitting è connesso alla ricerca di benessere e al contrasto del burnout: basta straordinari, orari folli, email a ogni ora. Trainato dalla Gen Z è legato all’ambiente lavorativo e al rapporto con i propri manager. Come riconoscere un quiet quitter e come raggiungere maggiori livelli di engagement

Pubblicato il 19 Set 2022

Matteo Ciccarese

Business Analyst di P4I-Partners4Innovation

Beatrice Medved

Consultant di P4I-Partners4Innovation

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Quiet quitting è diventato, negli ultimi mesi, uno dei termini più utilizzati per descrivere una tipologia specifica di atteggiamento che le persone assumono nei confronti del proprio lavoro.
Viene considerato la rappresentazione della ribellione contro la “hustle culture”, anche definibile come “cultura dello stacanovismo”.
Sebbene la traduzione letterale del termine sarebbe “abbandono silenzioso” (dall’inglese “to quit” che significa “dimettersi, lasciare, abbandonare”), il quiet quitting non indica un fenomeno legato alle dimissioni.

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Come riconoscere un quiet quitter

Dunque, quali comportamenti mette in atto chi è un quiet quitter?
Prima di tutto, riguarda persone che non sono motivate né ingaggiate all’interno dei progetti in cui sono coinvolti. Esse, infatti, limitano deliberatamente le loro attività a ciò che è strettamente necessario per concludere i progetti e a ciò che concerne il loro job title.
Il loro desiderio primario è quello di “mettere dei paletti”, stabilire dei limiti che non vogliono oltrepassare e che, soprattutto, non devono essere valicati dai loro manager, affinché il lavoro non diventi il centro della loro vita: tra tutti, ad esempio, lavorare più ore rispetto a quelle definite a contratto oppure portare il lavoro nella vita privata e a casa propria senza rispettare il work-life balance.

Paula Allen, Global Leader e Vice-Presidente Senior di Ricerca e Wellbeing a LifeWorks, indica i seguenti aspetti come segni evidenti e concreti del quiet quitting:

  • Rifiutare attività o progetti al di fuori dalla propria job description;
  • Non rispondere a e-mail o messaggistica istantanea al di fuori dell’ufficio;
  • Andar via da lavoro all’orario definito da contratto;
  • Essere meno coinvolti emotivamente dai progetti e dal luogo di lavoro;
  • Non andare oltre a quanto richiesto in termini di micro-obiettivi;
  • Essere meno interessati a fare degli extra (di mansioni e di orari) per assicurarsi una promozione.

Il rapporto tra quiet quitting, burnout e great resignation

Il fenomeno del quiet quitting è quindi legato alla ricerca di benessere e di equilibrio e al contrasto del burnout: il fatto che proprio in questo periodo se ne parli fa pensare che non sia così scollegato al sistema di valori che ha portato alla Great Resignation.
Infatti, in seguito alla pandemia di Covid-19, sono cambiate le priorità delle persone, e, come sappiamo, il benessere mentale e l’equilibrio tra vita privata e lavorativa hanno assunto un ruolo sempre maggiore.

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Il fatto che questi due trend siano in continua crescita non deve sorprendere.
In una ricerca del 2021 di BVA Doxa per Mindwork, servizio di consulenza psicologica per le aziende, sono emersi all’interno dei luoghi di lavoro e delle organizzazioni:

  • Una maggiore evidenza di burnout, come sensazione di sfinimento, calo dell’efficienza lavorativa, aumento del distacco mentale e cinismo rispetto al lavoro: l’80% del campione valutato, infatti, affermava di aver provato almeno un sintomo.
  • Un peso maggiore del lavoro sul work-life balance. Il 44% del campione afferma che nel 2021 il lavoro ha interferito in modo sostanziale con la vita privata e familiare.
  • Un maggiore desiderio di distacco dal lavoro per le persone che sperimentano livelli medio-bassi di benessere sul lavoro. Il 53% del campione afferma infatti che una soluzione per ritrovare il benessere sul lavoro è quello di distaccarsi.

Inoltre, a ulteriore supporto, secondo una ricerca di Deloitte le evidenze di burnout sono aumentate esponenzialmente e vi sono alcune osservazioni da citare:

  • L’83% dei rispondenti ha affermato che il burnout non si ferma al luogo di lavoro, ma impatta negativamente anche le relazioni interpersonali;
  • Dell’87% dei professionisti che hanno risposto di essere appassionati al proprio lavoro, il 64% ha affermato di essere frequentemente stressato, facendo crollare il mito secondo cui i dipendenti appassionati sono immuni dallo stress o dal burnout.
  • Appena il 70% dei rispondenti sente che i loro datori di lavoro non stanno facendo abbastanza per prevenire o diminuire il burnout nelle loro organizzazioni.

Quiet quitting: fenomeno generazionale o conseguenza di un ambiente lavorativo poco stimolante?

Essendo un fenomeno di cui si è sentito prevalentemente parlare sui social network, e soprattutto su TikTok (qui alcuni esempi: Esempio 1/ Esempio 2), il quiet quitting viene descritto come legato alle nuove generazioni (soprattutto alla Generazione Z).

Ma si tratta in effetti di un fenomeno nuovo?
Riflettendo sui suoi “sintomi”, è facilmente riconoscibile come l’approccio diametralmente opposto a quello del “work-aholic” sia in effetti sempre esistito, in ogni contesto organizzativo. È più realistico pensare piuttosto che nel periodo storico e nello scenario socioeconomico che stiamo attraversando, i cambiamenti nelle priorità dei lavoratori e nella cultura del lavoro prima citati portino l’attenzione su questa condizione e ne evidenzino la rilevanza.

Se da un lato è indubbio che Millennials e Generazione Z siano due generazioni caratterizzate dal cosiddetto “youth disillusionment” (o disillusione giovanile), come testimoniato dal 2021 Global Risks Report del World Economic Forum, e ciò quindi non aiuta l’ingaggio e la motivazione all’interno delle organizzazioni, dall’altro è sempre più evidente come il problema non sia derivante, o almeno non solo, dal dipendente.

Di conseguenza, viene meno il ragionamento per il quale il quiet quitting possa essere una forma di lamentela dei Gen Z, e ha sempre maggior supporto la tesi per cui esso sia strettamente legato all’ambiente lavorativo e al rapporto con i propri manager.

Infatti secondo una ricerca citata dall’Harvard Business Review e compiuta da Zerger/Folkman sul fenomeno del Quiet Quitting, i manager che stabilivano delle relazioni interpersonali e che riuscivano a connettersi anche sul piano emotivo e ad avere un atteggiamento comprensivo ed inclusivo con i propri dipendenti riuscivano ad avere una percentuale di quiet quitters minore e, allo stesso tempo, risultava maggiore la quantità di persone che si ritenevano aperte ad essere più ingaggiate.

Quiet quitting: alcuni suggerimenti per i manager

Pur considerando che un approccio da quiet quitter non è da valutarsi come completamente negativo in termini di benessere ed equilibrio tra vita privata e professionale, e anzi, in alcuni casi è descritto come necessario per la propria salute, è indubbio che le organizzazioni che desiderano raggiungere maggiori livelli di engagement (e conseguentemente un aumento della produttività) debbano trovare delle soluzioni.

Quali possono essere, dunque, le direzioni di azione da seguire per evitare che situazioni diffuse di quiet quitting impattino gravemente su performance, dinamiche di lavoro e coesione sociale nel proprio team?

Ascolto, empatia e supporto

In contesti organizzativi in cui la presenza in ufficio non è più un fatto scontato, la collaborazione diventa sempre più asincrona e dove i manager faticano a cogliere in tempo “segnali deboli” di disingaggio, malessere o, nei casi peggiori, burnout tra le proprie persone, occorre instaurare una cultura che promuova l’ascolto e il confronto reciproco.

Ciò permette da una parte di cogliere le esigenze delle persone, ma soprattutto comunica loro in modo diretto interesse e supporto da parte dell’organizzazione e del manager. Guidare con empatia significa prima di tutto mostrare interesse nel comprendere punti di vista, diversità, necessità, attitudini delle proprie persone. Per questo è fondamentale organizzare momenti di confronto aperto ed onesto, come:

  1. Mentoring tra manager e collaboratore, che nei panni di mentor e mentee hanno l’occasione di scambiare feedback, impressioni, consigli e opinioni sul lavoro.
  2. Survey periodiche di analisi dell’engagement delle persone nella propria organizzazione: collegando l’ingaggio a dei KPI misurabili, i manager avrebbero dei risultati evidenti riguardo all’efficacia delle proprie iniziative.

Ricostruire il senso di appartenenza

La “remotizzazione” del lavoro e l’avvento dell’hybrid work hanno però inciso anche sulla socialità all’interno delle organizzazioni. Oggi sempre più aziende percepiscono la necessità di ricostruire un senso di appartenenza nelle proprie persone, reso molte volte precario a causa dello spopolamento degli uffici e delle relazioni tra colleghi sempre più mediate da messaggi o videocall.
Per farlo occorre ricercare nuove dinamiche di interazione sociale, sia a distanza che in presenza:

  • progettare esperienze di team building, sfruttando le giornate in cui il team si ritrova a lavorare in ufficio, come pranzi, aperitivi, riunioni per discutere insieme degli obiettivi in presenza;
  • festeggiare i traguardi raggiunti insieme o dai singoli membri del team;
  • creare nuovi rituali sociali virtuali (anche un semplice virtual coffee può fare la differenza!);
  • promuovere l’interazione con altri team.

Ricostruire il significato del lavoro

Come detto in precedenza, è altamente probabile che un quiet quitter si senta disingaggiato. L’engagement è infatti una condizione in cui si manifestano fiducia, sicurezza psicologica, condivisione di valori, ma soprattutto in cui persona e organizzazione condividono significato, purpose e obiettivi nel lavoro.

L’unico modo perché questo si verifichi pienamente è definire obiettivi chiari e misurabili per i membri del proprio team, trasmettendo come raggiungerli, ma soprattutto perché raggiungerli. Poter riconoscere come il proprio obiettivo si giustifica all’interno degli obiettivi del team e più in alto di quelli aziendali permette alle persone di percepire l’impatto del proprio lavoro, favorendo l’impegno e la proattività.

Parallelamente, è fondamentale instaurare un feedback continuo (Continuous Feedback nell’hybrid work, come ingaggiare i team (digital4.biz)), mantenere cioè attiva la condivisione sul raggiungimento degli obiettivi, programmando occasioni ricorrenti di discussione in cui dare alle persone un riscontro su dove stanno andando rispetto alle aspettative.

Creare un ambiente di lavoro flessibile “smart

Di conseguenza, la priorità per i manager diventa innanzitutto quella di creare nuove dinamiche e meccanismi nel proprio team, e di progettare nuove modalità di lavoro flessibili e “smart” capaci di motivare e ingaggiare nuovamente le persone rispettando il work-life balance.

  • Un primo passo è, nei casi in cui non è ancora stato realizzato, progettare un modello di smart working efficace per il proprio team e la propria organizzazione (Smart “hybrid” work, un nuovo modello di lavoro è possibile: le cinque variabili da considerare – Agenda Digitale).
  • Secondariamente, definire regole condivise per l’integrazione tra vita e lavoro, ad esempio preservando le fasce orarie di inizio e fine giornata da meeting importanti, o regolando l’utilizzo delle tecnologie di comunicazione a disposizione, in modo da garantire una collaborazione efficace ma allo stesso tempo non invadere lo spazio vitale degli altri.

Esistono inoltre alcune iniziative che, spinte dall’obiettivo di costruire un’employee experience equilibrata e ingaggiante allo stesso tempo, sperimentano la riduzione dell’orario lavorativo (anche per rispondere adeguatamente e intercettare il trend in crescita dei part-timers, categoria che risulta godere di migliore work-life balance e minore stress).

Una di queste è il 4DayWeek Pilot Programme, un’iniziativa che ha preso il via nel giugno 2022 e che coinvolge più di tremila lavoratori da diversi settori nel Regno Unito che lavoreranno per l’80% del loro orario canonico, percependo comunque il 100% della loro retribuzione. Il progetto, della durata di 6 mesi e guidato dalla società no-profit 4 Day Week Global e dal think thank Autonomy con la collaborazione delle università di Oxford, Cambridge e Boston, si prefigge lo scopo di mostrare come una riduzione dell’orario di lavoro abbia impatti positivi sulla qualità della vita dei lavoratori e sulla produttività delle aziende, oltre che sull’ambiente.

Conclusioni

Settimana lavorativa ridotta, part-time, lavoro da remoto e lavoro ibrido sono manifestazioni di un processo di cambiamento epocale, nel quale vengono messi in discussione e ripensati il luogo di lavoro, il tempo dedicato al lavoro, e la centralità del “full-time job” nella vita delle persone. In questo scenario emerge chiaramente come ascolto e coinvolgimento delle persone, per essere efficaci, debbano essere comunque calate in un ambiente di lavoro flessibile, dove elasticità nell’orario e nel luogo sono accompagnati da dinamiche efficaci di gestione del team e da una cultura del diritto alla disconnessione, che consentono realmente alle persone non semplicemente di bilanciare vita e lavoro, bensì di integrarli armonicamente.

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