Da qualche tempo il percorso di chi acquista su Internet (customer journey su e-commerce) è diventato più complesso rispetto al passato. Fino a qualche anno fa era piuttosto lineare: un solo device prevalente (desktop), i social media non erano ancora invasi da prodotti, e gli strumenti per la pubblicità su Internet limitati a motori di ricerca, newsletter e banner. In questo contesto, per i merchant, era piuttosto semplice capire la redditività specifica del canale e, di conseguenza, distribuire gli investimenti in digital marketing tra i pochi strumenti a disposizione. Oggi però il contesto è radicalmente cambiato: il traffico da mobile ha superato quello da desktop; su mobile spesso ci si informa ma non si acquista; i social media sono pervasi di “consigli per gli acquisti” con i post sponsorizzati direttamente dalle aziende e indirettamente da intermediari grandi e piccoli; cresce l’affiliation marketing attraverso siti di comparazione, buoni sconto, cashback e similari; siamo inseguiti da annunci generati dai tool di remarketing, attivati da un click su un prodotto, da un carrello non finalizzato o dall’apertura di una mail. L’attribuzione della vendita al giusto intermediario è alla base di un business imponente in cui coesistono diversi player delle dimensioni più varie.
In teoria, il futuro di questi intermediari dovrebbe dipendere dalla loro capacità di portare l’utente a finalizzare un acquisto.
Perché il mercato funzioni correttamente è necessaria una solidità ed affidabilità dei dati di tracciamento nel funnel su cui si basano le attribuzioni delle commissioni.
Nell’internet in cui tutto è tracciabile, queste attribuzioni funzionano bene? Secondo molti addetti ai lavori, no. E’ noto alle cronache che alcuni combattono una guerra nascosta per alterare KPI ed analytics monitorati dagli investitori pubblicitari e massimizzare a proprio vantaggio una distorta allocazione dei budget. Ciò avviene al livello più semplice mediante BOT per ottenere follower e like su profili e post Instagram, ad esempio. Al livello più evoluto programmi eseguibili ed estensioni malevole del browser che si installano ad insaputa dell’utente e prendono il controllo sulle informazioni che il browser trasmette ai tool di analytics. In questo periodo si stanno diffondendo, ed hanno raggiunto notevole rilevanza, script che vengono installati direttamente sui server degli e-commerce: la maggior parte dei tool di digital marketing attuali vengono infatti attivati da qualche script che deve essere installato dal cliente, sul proprio sito.
Questi script sono un punto di vulnerabilità e sono in grado tecnicamente di effettuare funzionalità non dichiarate, come ad esempio la sovrascrittura di cookie preesistenti nel browser dei visitatori, alterando il conversion path di analytics e distorcendo il riconoscimento della intermediazione delle vendite al giusto intermediario. Come può un merchant difendersi da queste possibili distorsioni nella valutazione del reale ruolo dei canali di marketing utilizzati? Non potendo evitare l’installazione degli script (ormai i siti più visitati arrivano a oltre 30 sistemi di tracciamento attivati ad ogni visita di un utente), il suggerimento è di affiancare a Google Analytics altri tool, meno diffusi e più focalizzati su un particolare segmento di dati (come l’analisi delle conversioni) per poi poter confrontare le informazioni fornite. Certo l’ideale sarebbe evitare di installare script gestiti da terzi, ma con l’attuale livello di precisione nella segmentazione e nel tracciamento degli utenti questo è difficilmente possibile.
Non rimane che utilizzare il vecchio sistema dei controlli incrociati e tanto tanto buon senso: la realtà che vi racconta Analytics potrebbe essere alterata perché gli intermediari nel mondo immateriale sono di più e più subdoli di quelli del mondo materiale. Diversamente i merchant finiscono per remunerare chi non merita, pregiudicando il lavoro dei meritori. Una sorta di inquinamento dell’ambiente pubblicitario che nel medio periodo si ritorce contro tutti.