la riflessione

Ragazzi Hikikomori anche in Italia, come affrontare il problema

In aumento anche nel nostro Paese il numero di ragazzi che si isolano volontariamente rifiutando i contatti col mondo esterno. Ma il web e i social media, in questo caso non c’entrano. Vediamo come si sta cominciando ad affrontare il problema e cosa devono fare la scuola e le famiglie

Pubblicato il 24 Mag 2019

Antonio Guadagno

Ingegnere, consulente informatico, docente, formatore

Hikikomori

Si diffonde anche in Italia il fenomeno degli Hikikomori, ossia quelle persone che, senza specifiche patologie fisiche o psichiche, decidono volontariamente di isolarsi tra quattro mura. Il problema mette in difficoltà famiglie e istituzioni scolastiche. Scuola e Miur si stanno attrezzando per affrontarlo: siamo all’inizio di un lungo cammino, tuttavia.

Il fenomeno Hikikomori

E un giusto cammino deve cominciare chiarendo la strada. Con una definizione: il termine Hikikomori fu coniato per la prima volta nel 1998 dallo psichiatra giapponese Tamaki Saito. Il fenomeno è essenzialmente circoscritto a una fascia d’età ben definita: adolescenti e giovani adulti che si isolano nella propria stanza per lunghi periodi (da qualche mese a diversi anni a seconda della gravità della situazione mentale), senza alcuna necessità di contatti fisici con il mondo esterno.

Questa volontaria esclusione ha rappresentato, soprattutto in Giappone, una ribellione alla cultura tradizionale e all’intero sistema sociale, includendo in essa anche i rapporti con i familiari e gli amici.

Lo stile di vita degli Hikikomori è caratterizzato da un ritmo biologico totalmente invertito, dormendo di giorno e vivendo di notte, evitando così quanto più possibile ogni contatto con la famiglia, per cui i bisogni fisiologici sono soddisfatti nella notte.

Il fenomeno, inizialmente non compreso e sottovalutato, ormai si è esteso a livello mondiale, seppur con differenti peculiarità in termini di età e di tipologia di “ritiro”.

Hikikomori e il web

Hikikomori e dipendenza da Internet sono due cose diverse, essendo la seconda una conseguenza del ritiro e non la causa; di contro non tutti i ragazzi (e ragazze) Hikikomori passano la maggior parte del tempo navigando in Internet. L’abuso del digitale può essere una manifestazione della necessità di relazioni, ma senza il disagio di mostrarsi per quello che si è e costruendo una realtà ad hoc facilmente gestibile.

In altre parole i ragazzi Internet addicted si isolano socialmente solo perché troppo presi dalla loro dipendenza e concentrati sul proprio profilo virtuale (anzi spesso i profili posso essere molteplici). I ragazzi autoreclusi, di contro, hanno un approccio diverso con Internet: è solo un mezzo per rimanere ancora in contatto con il mondo, sia pure in modo indiretto e spesso velato.

Di conseguenza, l’Internet addiction disorder tiene a casa i ragazzi per via dell’utilizzo intensivo e ossessivo di Internet nelle sue forme più disparate: videogiochi, shopping compulsivo, gioco d’azzardo, chat-room, navigazione sui social. Il fenomeno Hikikomori nasconde i ragazzi nelle proprie camere o perché rifiutano il modello di società in cui vivono o perché non si sentono all’altezza degli standard.

Hikikomori in Italia

Migliaia sono i genitori iscritti all’Associazione Hikikomori Italia, l’unico punto di riferimento per le famiglie, che con più di quaranta gruppi di mutuo aiuto è riuscita a farli sentire meno soli. Il fondatore Marco Crepaldi è il loro unico faro: «Da una nostra indagine è emerso che il fenomeno è più presente al Nord, mentre il Lazio è la regione con più casi. La pulsione all’isolamento di un hikikomori non dipende mai esclusivamente dall’attrazione verso la Rete. Non è internet la causa del disagio, anzi toglierlo può solo peggiorare la situazione. Il computer è la loro finestra sul mondo, l’unico mezzo di contatto con la società esterna e anche il principale strumento di svago».

Hikikomori e la scuola

Questo volontario isolamento sociale sta emergendo in maniera significativa tra gli studenti italiani e le istituzioni scolastiche si ritrovano da sole e senza strumenti adeguati non solo per coglierne i segnali premonitori ma anche per affiancare le famiglie nella ricerca di un progressivo ritorno in società.

Ecco perché il MIUR, nello scorso febbraio, ha istituito un Comitato Tecnico Nazionale per la tutela del diritto allo studio di alunni e studenti in condizione di ritiro sociale volontario (hikikomori) con il compito di definire:

  • linee guida nazionali condivise per l’assistenza di alunni e studenti in condizione di ritiro sociale volontario (hikikomori);
  • iniziative atte a favorire la diffusione e il recepimento delle linee guida;
  • iniziative funzionali alla tutela del diritto allo studio, della salute e del benessere di alunni e studenti in condizione di ritiro sociale volontario (hikikomori).

L’esperienza pilota, in questo senso, è quella del Piemonte, che già da tempo ha messo a punto un protocollo con buone pratiche, promosso dalla Regione, dall’Ufficio scolastico regionale e dall’associazione Hikikomori Italia, che ha fatto emergere il fenomeno in tutta la sua drammaticità.

Naturalmente, la scuola deve favorire la maturazione di una cittadinanza digitale consapevole e attenta, ma  può fare tanto solo se in sinergia con le famiglie; è fondamentale in tal senso il costante dialogo e la comprensione degli stati emotivi dei propri figli, vigili a ogni segnale di disagio e pronti a potenziare la loro autostima.

Conclusioni

Non è giusto, ma soprattutto etico, accusare i social media in quanto tali; essi rappresentano esclusivamente un mezzo, uno strumento, che molti di noi non sono in grado usare per quello che sono e per questo dimostrano la propria incapacità (o poca maturità) a gestire l’io digitale.

E’ vero che il mondo virtuale rende più fragili e soli, ma non significa che si debba rinunciare alla tecnologia, solo che occorre divenire più consapevoli e responsabili.

Non pochi esperti hanno affermato che l’uso esasperato della rete è tipico di chi, indipendentemente dall’età, è particolarmente inesperto e quindi più vulnerabile. Sarebbe dunque auspicabile che già nei primi anni di scuola si imparasse l’uso dei media digitali senza passare per soluzioni drastiche.

Bloccare l’accesso alla rete è un modo spiccio per garantire la sicurezza, privando i ragazzi di uno strumento ormai imprescindibile. Occorre trovare un equilibrio tra chiusura totale e utilizzo incontrollato, e qui possono entrare in gioco le figure professionali che sono state formate nell’ambito del Piano Nazionale Scuola Digitale.

A tale proposito, è normale che ci si possa trovare potenziali situazioni di rischio, ma se si dispone di nozioni e strumenti necessari per far fronte alla situazione, il rischio non diventerà mai un danno.

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