Da pochi giorni sono in vendita nel sito della Ray-Ban, in tre varianti estetiche (in Italia a partire da 329 euro), i nuovi occhiali «Ray-Ban Stories»: difficilmente distinguibili da un paio di comuni occhiali, permettono però di scattare foto e riprendere brevi video, che possono essere poi condivisi su Facebook grazie alla nuova applicazione «View». Quest’alleanza tra l’azienda leader dei canali sociali e l’iconica marca di occhiali e montature ha immediatamente suscitato grandi preoccupazioni: che cosa accadrà quando lo sguardo altrui sarà potenzialmente percepito come un’ossessiva telecamera? La situazione non è del tutto nuova, era stata già immaginata nel celebre film del 1960 L’occhio che uccide: ma si trattava, appunto, di un film dell’orrore.
Si tratta di timori pienamente giustificati? E in caso negativo, vi sono comunque questioni da pensare più a fondo?
Occhiali di Facebook, perché sono un problema per la privacy
Ray-Ban Stories: sarà davvero rivoluzione?
Riguardo alla prima questione, le paure sono probabilmente esagerate. In primo luogo, le previsioni sul successo commerciale sono alquanto incerte: è vero che i Ray-Ban Stories hanno carte da giocare migliori rispetto all’analogo tentativo compiuto anni fa da Google, ma è anche vero che esistono illustri precedenti di oggetti che, quantunque non fallimentari in sé, tuttavia sono stati lungi dal rivoluzionare le abitudini come temuto o auspicato al momento della loro introduzione (caso tipico: l’Apple Watch): l’inerzia riguardo agli oggetti di uso quotidiano è davvero grande. In secondo luogo, nella misura in cui sostanziali timori sono stati avanzati riguardo alle questioni di privacy, è davvero difficile immaginare che, appena il problema diventasse sensibile, non siano formulate leggi che ne limitino e regolamentino l’uso: come pensare per esempio che gli stessi sistemi normativi che impongono (a volte in maniera perfino esagerata) la copertura dei volti dei bambini nei mezzi di comunicazione, accettino poi tranquillamente che qualsiasi immagine di minori sia dato in pasto al più potente e pervasivo mezzo di comunicazione attraverso uno strumento che, malgrado la microscopica lucetta che ne segnala il funzionamento, sarebbe sostanzialmente anonimo e dissimulato? In terzo luogo, non è difficile prevedere quanto, messo da parte l’effetto di curiosità e attrazione, i portatori di questo nuovo strumento risultino sgraditi nelle comuni compagnie, ancor più di quanto lo è chi in maniera petulante si ostina a far fotografie o videoriprese: qui la non accettazione sociale farebbe ciò che le leggi fossero troppo lente a ottenere. Che i Ray-Ban Stories restino un marginale e inoffensivo gadget mi pare insomma ben possibile.
Cosa c’è davvero in gioco, quindi? Quattro aspetti su cui riflettere
Ma anche se queste ottimistiche previsioni sono ragionevoli, ciò non esime dal compito di comprendere che cosa sta avvenendo. Anche un gioco marginale, quando sponsorizzato da una delle aziende più potenti ed estese del mondo, è pur sempre il segno di una tendenza profonda e interessante. Mi pare che qui le cose degne di essere pensate siano almeno quattro.
Potere e responsabilità
La prima: per quanto questi magici occhiali appaiano nuovi, e in parte lo siano realmente, è anche vero che in essi prosegue semplicemente quella direzione che almeno dalla metà degli anni 70 del secolo scorso ha caratterizzato l’orientamento dell’informatica. La data da tener presente è il 1974, l’anno della pubblicazione del bizzarro libro doppio di Ted Nelson Computer Lib / Dream Machines. Se sfogliato al diritto il libro era un’apologia forte ed entusiasta della riappropriazione dell’informatica da parte di tutte le persone, sottraendola quindi alla presa dei sommi sacerdoti della tecnologia, sfogliato al rovescio il libro era uno sguardo visionario su ciò che i computer sarebbero diventati come, appunto, «macchine da sogno»: per esempio (questo uno degli aspetti qualificanti) come tramiti di una elaborazione digitale delle immagini. Tanta acqua è passata sotto i ponti, fino al punto che da tempo siamo costretti ad aggiungere un aggettivo («analogica», per esempio) per indicare un’immagine riprodotta senza passare per un’elaborazione numerica. Basta sommare la caratteristica di «macchina universale» di qualsiasi computer con la possibilità di rappresentare numericamente qualsiasi informazione, con tutta l’approssimazione desiderata, per ottenere appunto un sogno: una tecnologia universale, potenzialmente senza limiti che non siano quelli materiali della natura fisica della realtà. Più che della presenza degli occhiali di Facebook negli scaffali, dovremmo meravigliarci dell’assenza di tutto ciò che possiamo immaginare ma sugli scaffali ancora non c’è. E, ovviamente, con ogni potere giunge insieme una responsabilità nuova, ogni novità sugli scaffali è insieme la necessità di pensare meglio al suo carattere, o non carattere, umano, al suo valore, o non valore, sociale.
I problemi privacy
La seconda cosa a cui pensare è connessa ai problemi di privacy che sono stati evidenziati. Le norme devono sforzarsi di partire da definizioni chiare, ovviamente. Il problema è che le «macchine da sogno» costringono continuamente a ripensare che cosa è pubblico e che cosa è privato. La definizione istintiva (che affonda le sue radici in migliaia di anni di storia dell’umanità) secondo cui il privato è ciò che sta al di qua della porta di casa, il pubblico ciò che sta al di là, evidentemente non funziona più: anche dentro casa sempre più numerosi sono gli atti che si inseriscono in enormi sistemi informativi e quindi cadono in un dominio potenzialmente pubblico, e dall’altra parte il carattere pubblico dello spazio fuori casa, un tempo largamente teorico, sta sempre più diventando reale. Una passeggiata solitaria in una città sconosciuta istintivamente viene vissuta come cosa privata: ma ovviamente basta avere con sé un telefono per lasciare una traccia che perlomeno sarà a disposizione di qualsiasi giudice volesse conoscere i miei spostamenti. Che ci siano leggi che tentano di mettere ordine in tutto questo è giusto: ma è molto più difficile mettere ordine nel sistema delle percezioni, dei sentimenti, delle emozioni. Gli esseri umani hanno bisogno di confini, di limiti che distinguono, separano e nascondono. Perfino la talvolta tanto ammirata vita nomade, che non conosce il legame stabile con una porzione di terra, continuamente stabilisce un limite per esempio con una tenda. Questa è una tendenza fortissima, legata quasi all’origine della civiltà umana. Se qualche early adopter degli occhiali Facebook riceverà spintoni e insulti, questo non sarà l’effetto di un malumore occasionale, ma di decine di millenni di storia umana. Questi occhiali vengono chiamati «smart»: ma non è affatto inimmaginabile che, in questo come in altri campi, si preferiscano alla fine cose un po’ più stupide ma che preservino l’intimità di cui abbiamo bisogno.
Il rapporto con la realtà
Un terzo aspetto importante riguarda il rapporto con la realtà. Una celebre opera del filosofo russo del Novecento Pavel Florenskij porta il curioso titolo La prospettiva rovesciata. In essa si cerca di riflettere sul fatto che le tradizionali icone intenzionalmente non seguano la prospettiva geometrica che è abituale nell’arte occidentale dal Rinascimento in poi: la prospettiva geometrica è paradossalmente la meno realistica, perché parte da presupposti lontanissimi dall’esperienza comune: presuppone per esempio che la realtà venga incontrata nel punto di vista immobile e puntiforme di un occhio. Questo è ciò che fa un apparecchio fotografico, ma non è ciò che fa un essere umano. In effetti, i disegni spontanei di un bambino non seguono minimamente regole geometriche, ma un’esperienza interiore e vivente che restituisce molto meglio la realtà. Facendo un grande salto e spostando le considerazioni di Florenskij nella nostra epoca dell’immagine digitale, l’alternativa sembra sostanzialmente consistere tra il vivere la realtà e il rappresentarla. Ovviamente vivere la realtà può significare anche creare un’immagine, ma certo non può significare (perlomeno non in maniera ingenua) semplicemente moltiplicarla e condividerla con uno strumento informatico. Parecchi anni fa, quando il Giappone divenne simbolo dell’avanguardia nella tecnologia fotografica, circolava la barzelletta del giapponese che aveva fatto un viaggio in Europa e al quale veniva chiesto se gli fossero piaciuti i luoghi visitati. Risposta: «Non lo so, non ho ancora visto le foto che ho fatto!». Come dovrebbe essere aggiornata oggi la barzelletta? Forse la risposta dovrebbe diventare un più profondo, e forse triste, «Non lo so, non ho ancora visto quello che ho visto».
L’aspetto normativo
Una quarta e ultima considerazione riguarda l’aspetto normativo della vicenda. Già abbiamo detto che è difficile immaginare che la legge non intervenga. Siamo sinceri: è difficile immaginarlo, ma è facile prevederlo. Le leggi hanno manifestato pigrizia e sprovvedutezza incredibili di fronte alle nuove tecnologie. Mentre ci sono stringenti vincoli riguardo alla carta stampata che rispecchiano problemi e panorami vecchi di secoli, strumenti infinitamente più influenti sono praticamente lasciati liberi di scorrazzare nella società, tra maggiorenni e minorenni, di decidere al proprio interno qualsiasi normativa, di istituire tribunali morali e politici che non rispondono a nessun consenso e controllo democratico.
Tutto questo non è affatto inevitabile per il solo fatto che si tratta di strumenti privati (anche dentro casa mia devo giustamente rispettare miriadi di leggi!): accade solo perché la politica fa una fatica enorme a comprendere e integrare nel proprio orizzonte oggetti e contesti che richiedono competenza, studio, riflessione, continuo aggiornamento. Forse questo impegno di comprensione servirebbe più ancora di mirabolanti (e poco mantenute) promesse sulla digitalizzazione della vita pubblica.