Red Dead Redemption 2 è l’esempio più sublime di artisti digitali che hanno consegnato ai posteri qualcosa destinato a essere ricordato, scuotendo le coscienze dei giocatori e parlando direttamente al loro cuore.
Il videogioco come oggetto culturale
Un esempio concreto dell’assunto su cui, ormai da diversi anni, si concentrano i miei studi e le mie attività: la necessità di espandere la percezione generale del videogioco quale oggetto culturale. È una sfida difficile, che trova resistenze tanto da parte del pubblico che degli stessi creatori di videogiochi, restii il più delle volte ad ammettere che quello che creano abbia una precisa risonanza sulla collettività, e più inclini a rifugiarsi nel rassicurante cerchio semantico del ludus. Osserviamo in azione più che mai la Sindrome di Asteroids, idea da me formulata nel mio Manuale di critica videoludica (Edizioni Unicopli): è naturale, e salutare, che esistano giochi interamente votati al puro escapismo, e altri invece che osano di più, ambendo non soltanto ad appagare un pubblico che passerà a un altro prodotto da una settimana all’altra, ma a lasciare un solco indelebile nella storia del videogioco.
La meccanica dell’emozione
Bisogna innanzitutto premettere che Red Dead Redemption 2 è un ottimo, eccellente videogioco. Esistono molti videogiochi che hanno tentato, lodevolmente, di introdurre tematiche profonde e delicate, ma la mancanza di ambizioni, o semplicemente di budget, li ha costretti a rimanere confinati nell’ambito di esperienze molto limitate dal punto di vista ludico: è il caso dei cosiddetti walking simulator, in italiano “simulatori di camminata” come Dear Esther, dove si cammina attraverso dei corridoi 3D interagendo sporadicamente con l’ambiente. Al contrario, Red Dead Redemption 2 è un fuoriclasse non soltanto per i contenuti narrativi di altissimo livello e le tematiche affrontate, ma anche perché è un gioco che, in ogni sua componente, esprime il picco di quello che l’industria videoludica e tecnologica è oggi in grado di offrire. Non potrebbe essere altrimenti: Red Dead Redemption 2 è stato infatti creato dalla Rockstar Games, che ha al suo attivo Grand Theft Auto V, il gioco più remunerativo di tutti i tempi, ed è quindi una produzione con valori stratosferici, che si muove nella cornice del gioco d’azione offrendo il massimo che questo “genere” può offrire. Un videogioco che ambisce allo status di capolavoro deve necessariamente avere una componente interattiva dalla forza dirompente, perché è nell’interattività che si annida la ragion d’essere del medium.
Una spietata illusione
Tutti i linguaggi del videogioco sono del resto parlati con la massima padronanza in Red Dead Redemption 2, persino quelli apparentemente più superficiali come la grafica, che non viene usata come un mero sfoggio tecnicistico, ma è piuttosto una tavolozza con cui i designer hanno creato un mondo incredibilmente realistico, vivido e traboccante di colore e dettagli, lavorando in concerto con il game design, ossia la scienza sottesa alle meccaniche ludiche. Laddove la maggior parte dei videogiochi punta a stupire il giocatore con la pura potenza di calcolo (seppur presente nel gioco Rockstar), Red Dead Redemption 2 usa tutti questi strumenti a sua disposizione per creare una fantasmagorica illusione, che permette al giocatore non soltanto di procedere nel gioco rincorrendo un finale, ma di immergersi a fondo nel simulacro digitale, diventando tutt’uno con i suoi protagonisti, vivendo in prima persona una ricostruzione del selvaggio West più crepuscolare che trova pochi eguali nella cinematografia mondiale. E, così come Grand Theft Auto V citava I Soprano, Gli intoccabili e i film di Spike Lee, Rockstar si dimostra abilissima nel rimediare i topoi del cinema western, tracciando una linea che parte dalla Trilogia del Dollaro di Sergio Leone fino ad arrivare a Gli spietati di Clint Eastwood. Non si tratta, si badi bene, di un semplice furto artistico, ma della dimostrazione che Rockstar si muove sulle spalle dei giganti, creando un videogioco calato nello spirito del nostro tempo e consapevole del suo retroterra artistico.
Elogio della lentezza
Per lo spettatore abituato agli effetti speciali degli Avengers di Marvel, vedere un film del grande regista russo Tarkovskij può essere un’esperienza trascendentale. Cosa rende un’opera come L’infanzia di Ivan particolarmente ostica agli occhi del moviegoer cresciuto a pane, combattimenti e superpoteri? Semplice: la lentezza. Similmente, rispetto all’esplosivo Grand Theft Auto V, Red Dead Redemption 2 si crogiola nella lentezza, un aspetto in effetti mutuato dalle sperimentazioni della scena indie, ma supportato in questa fattispecie da valori di produzione faraonici. La lentezza è strumentale nella magnum opus di Rockstar alla possibilità per il giocatore di immergersi nello straordinario mondo creato dai propri designer, che limitano volutamente le possibilità del giocatore per assicurarsi che egli spenda quanto più tempo possibile camminando, esplorando. Vivendo. Ed è così che i cavalli, per esempio, hanno una resistenza molto ridotta, che costringe il giocatore a dargli da mangiare regolarmente, riducendo sensibilmente la velocità dell’esplorazione. È anche interessante notare che la scelta di design del limitare le risorse riduce sensibilmente anche la possibilità di usare il cosiddetto fast travel, una funzione tipica dei giochi open world (“a mondo aperto”, categoria a cui appartiene appunto Red Dead Redemption 2) che permette di muoversi da un punto all’altro dell’ambientazione semplicemente premendo un tasto. In questo modo, il giocatore vive sulla sua pelle ogni singolo movimento del protagonista Arthur Morgan, attraversando ogni istante dell’esperienza e creando una parità tra il tempo videoludico e il tempo percepito dallo spettatore, con l’intensità di un piano sequenza di Stalker. Laddove Tarkovskij aveva a disposizione un set e una telecamera, oggi i designer di videogiochi possono far dialogare tra di loro componenti estetiche, narrative e squisitamente tecniche come le regole di game design.
Inseguendo Rosabella
Non si potrebbe tuttavia parlare di Red Dead Redemption 2 e della sua valenza culturale senza citare lo storytelling, ossia quell’impianto narrativo che il più delle volte eleva la potenza di un’opera interattiva e la consegna alla Storia. Si badi bene, Rockstar non si è limitata a creare un gioco capace di trattare tematiche delicate: oggi, in realtà, grazie alle sperimentazioni indie lo spettro di esperienze possibili in un videogioco si è molto allargato. Quante tra tali sperimentazioni, tuttavia, sarebbero state possibili anche in un film o in un libro, mantenendo intatta la loro forza? Dato per assodato che un videogioco oggi è libero di affrontare ogni tipo di tematica, gli autori di Rockstar hanno deciso di creare qualcosa che può essere senza timore annoverato nell’esclusivo circolo della cultura alta, non tanto per snobismo, ma per manifesta superiorità. Per anni l’industria è andata alla ricerca di qualcosa che potesse essere considerato il Quarto potere della narrazione interattiva, ossia quel punto di non ritorno oltre il quale un videogioco può esprimere qualcosa che non può essere espresso allo stesso modo da nessun’altra forma di comunicazione. Red Dead Redemption 2 è innanzitutto una storia di amore, perdita e lealtà, che sfiora l’inafferrabile senso della vita, facendoci interrogare sul significato della parola giustizia, mettendoci di fronte a ineffabili chiaroscuri, immani tragedie e attimi di sporadica e struggente bellezza. Condensare tutto questo in due ore di pellicola, strappandoci la possibilità di esserne protagonisti in prima persona, sarebbe stato semplicemente impossibile. La singolarità è arrivata: oggi, un videogioco può essere culturalmente significativo tanto quanto un capolavoro cinematografico. Abbiamo trovato il nostro Quarto potere videoludico? La risposta è un netto e deciso: sì.