la prospettiva

Reddito di cittadinanza, perché ha senso (secondo le neuroscienze)

L’idea di un reddito di cittadinanza slegato dal lavoro viene oggi dipinta come primo passo di un’intollerabile deriva verso vizio e inoperosità. Ma la prospettiva cambia se si pensa a un futuro dominato dall’intelligenza artificiale e con sempre minori esigenze di lavoro umano. Esaminiamo il tema con metodo scientifico

Pubblicato il 16 Ott 2018

Alessio Plebe

Università degli Studi di Messina

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Si parla sempre di più oggigiorno di reddito di cittadinanza. In altri approfondimenti abbiamo già trattato cos’è e come funziona il reddito di cittadinanza, chi può ottenerlo, e molte altre informazioni utili per lettori e cittadini italiani. In tempi di previsioni più o meno allarmistiche riguardo la sostituzione del lavoro umano con le macchine, pur senza voler in alcun modo minimizzare la portata dirompente del far scendere il lavoro dall’elevato piedistallo dove si trova attualmente, ben venga la proposta del reddito di cittadinanza, che inizia a predisporre anche la società italiana ad uno scenario non più dominato dal lavoro umano.

Insomma, la computerizzazione del lavoro e l’idea di uno stipendio che non richieda più lavorare, rappresentano un dramma o una liberazione? Cerchiamo di comprendere meglio quello che a tutti gli effetti appare come un epocale stravolgimento dei nostri valori con metodo scientifico e con l’aiuto del pensiero di filosofi contemporanei e dello scorso secolo, antropologi, psicologi e studiosi di neuroscienze.

Reddito di cittadinanza e ruolo del lavoro

Con il reddito di cittadinanza anche l’Italia comincia ad accostarsi, pur se molto parzialmente, al cosiddetto reddito di base universale. Si tratta di un’idea maturata in sottofondo per decenni, in diverse parti del mondo, che sta emergendo in modo vivace negli ultimi anni. Uno dei motivi che la portano alla ribalta è il recente rapido e inaspettato progresso dell’intelligenza artificiale, che prefigura un futuro con sempre minori esigenze di lavoro umano.

L’attuazione del reddito di base universale, e di conseguenza anche della sua versione parziale che sta per essere adottata dall’Italia, pone anzitutto delle problematiche prettamente economiche. Non è di questo che intendo parlare, anzitutto non avendone le competenze. Mi interessa invece riflettere sull’impatto che può avere sulla nostra cognizione sociale l’idea di uno stipendio che non richieda più lavorare. Ritengo che la collisione del reddito di base universale con un comune sentimento riguardo il ruolo del lavoro nella vita umana, possa rappresentarne un ostacolo forse maggiore di quello economico.

Ne sono rivelatori alcuni provvedimenti che dovrebbero accompagnare il reddito di cittadinanza, in particolare due, che vengono sottolineati a gran voce da parte dei suoi promotori. Il primo riguarda l’obbligo dei destinatari di questo reddito a ricercare un lavoro, a seguire corsi di formazione, e ad accettare eventuale proposte lavorative. Il secondo invece istituirebbe un controllo sull’utilizzo del reddito di cittadinanza, con il divieto di spese catalogate come “immorali”.

In entrambi i casi si tratta di tentativi che evidentemente mirano proprio a smussare i contrasti tra l’idea del reddito universale e il sentimento comune nei confronti del lavoro. Il primo riflette la connotazione di coloro che non solo non lavorano, ma non provano disperazione e urgenza di uscire dal loro stato improduttivo, e sono bersaglio di disapprovazione sociale, apostrofati con l’epiteto “fannulloni”. Non a caso lo slogan più utilizzato dagli oppositori del reddito di cittadinanza, sia esponenti di Forza Italia che del Partito Democratico, è che servirebbe a “pagare i fannulloni”.

Il secondo tenterebbe di esorcizzare un altro assunto comune: che il non lavorare conduca ad una deriva morale, ancor più avendo dei soldi. Un’esemplare esternazione di questo sentimento si trova, per esempio, ne I miei ricordi di Massimo D’Azeglio, del 1891: “Per questo l’ozio avvilisce ed il lavoro nobilita: perché l’ozio conduce uomini e nazioni alla servitù; mentre il lavoro li rende forti ed indipendenti”. D’altra parte, a noi tutti è noto l’adagio “l’ozio è il padre di tutti i vizi”. Lo era ben noto persino al filosofo Bertrand Russell, che ne fa l’incipit del suo delizioso scritto del 1935 Elogio dell’ozio, salvo aggiungere a seguito che “le mie opinioni subirono un processo rivoluzionario. Io penso che in questo mondo si lavori troppo, e che mali incalcolabili siano derivati dalla convinzione che il lavoro sia cosa santa e virtuosa”. Dopo aver argomentato in un certo dettaglio la sua visione del lavoro, Russell vi contrappone l’ozio, trovandolo “essenziale per la civiltà, nei tempi antichi l’ozio di pochi poteva essere garantito soltanto dalle fatiche di molti. Tali fatiche avevano un valore non perché il lavoro sia un bene, ma al contrario perché l’ozio è un bene. La tecnica moderna ci consente di distribuire il tempo destinato all’ozio in modo equo, senza danno per la civiltà.”

Russell, come sua abitudine, non si poneva problemi nel porsi radicalmente controcorrente rispetto alla posizione dominante del pensiero occidentale, che da almeno tre secoli considera il lavoro la massima espressione della natura umana. Secondo Max Weber la celebrazione moderna del lavoro è diretta derivazione dell’etica protestante, che, con Lutero e Calvino, rendeva il lavoro un obbligo cristiano, e connotava come “eletti” da Dio coloro che dedicavano la vita al lavoro duro, limitando ozio e piaceri. Gli attuali storici del lavoro, come Marcel Van Linden, tendono a mitigare la tesi di Weber, sulla base di diverse testimonianze di un’attitudine diffusa in molte culture, non solo europee, nei secoli a cavallo della riforma protestante, a considerare il lavoro un dovere naturale. Così come non mancavano anche attitudini di segno opposto, soprattutto nel medioevo circolavano canzoni e poesie del genere del Paese della Cuccagna, in cui si sognava un mondo in cui il benessere, almeno alimentare, era assicurato senza dover lavorare. Indipendentemente dall’attitudine popolare, non c’è dubbio che la visione protestante del lavoro abbia segnato profondamente il pensiero moderno, influenzando pensatori come Hegel, Saint-Simon, Marx, Tolstoy.

Centralità e valore del lavoro per l’uomo nel 900

Nel 900, nonostante le istanze fortemente critiche del pensiero marxista nei confronti delle forme di lavoro capitalista, vi era comunque una coincidenza di vedute tra sinistra e destra riguardo la centralità e il valore del lavoro per l’uomo. Per il filosofo comunista Roger Garaudy il lavoro rappresenta la prima categoria morale dell’uomo. Non vi è stato praticamente mai dissenso all’interno della destra, e raro e isolato pure a sinistra. Alcune idee antilavorative erano circolate durante i movimenti autonomisti italiani degli anni ’70, in particolare da parte di Antonio Negri. Altra isolata eccezione è il pensiero dell’anarchico americano Bob Black, espresso nel suo volume del 1986 L’abolizione del lavoro, che inizia in questo modo: “Nessuno dovrebbe mai lavorare. Il lavoro è la fonte di quasi tutte le miserie nel mondo. Quasi ogni tipo di negatività che si possa concepire deriva dal lavoro o dal vivere in un mondo progettato sul lavoro. Per porre fine alla sofferenza, occorre porre fine al lavoro”.

Il movimento di idee che ha inizialmente concepito la proposta del reddito di base universale non ha relazione con queste istanze antilavoro, trae piuttosto le sue origini dalla tradizione socialista europea e americana. Uno dei lontani ispiratori è il filosofo Charles Fourier, padre dell’utopia socialista, che nel 1835 proponeva la garanzia di un minimo reddito per le classi meno abbienti. Non a caso il movimento attuale per il reddito di base universale parte dal Collectif Charles Fourier, creato nel 1986 in Belgio dal filosofo Philippe Van Parijs insieme ad altri accademici e sindacalisti per promuovere la discussione sul tema in Europa. Il primo in Italia ad aderire a questo movimento è stato l’economista Andrea Fumagalli, autore nel 1998 delle Dieci tesi sul reddito di cittadinanza.

Reddito di cittadinanza e intelligenza artificiale

Sia il dibattito sull’abolizione del lavoro che sul reddito universale cambiano radicalmente pagina con la recente prospettiva, offerta dall’intelligenza artificiale, di un declino naturale del lavoro. Non vi sono più ragioni di lottare contro il lavoro, destinato ad una spontanea marginalizzazione, e il reddito di base universale sarebbe il suo più naturale correlato. Nell’ultimo decennio si è assistito a un progresso inaspettato dell’intelligenza artificiale, che raggiungendo oramai prestazioni paragonabili a quelle umane in compiti come riconoscimento di immagini e del linguaggio parlato, e ben superiori a quelle umane nello scovare informazioni utili in grandi volumi di dati, sta allargando in modo rapido il suo raggio di applicazione.

Purtuttavia, avendo avuto l’intelligenza artificiale, sin dai suoi albori negli anni ’50, una certa propensione alle previsioni ottimistiche sul proprio sviluppo, ed alcuni suoi esponenti, come Ray Kurzweil, continuano a coltivare un gusto per la formulazione di scenari futuristi caratterizzati da esuberante entusiasmo, si impone una cautela nel verificare quale sia realmente il suo impatto attuale nel mondo lavorativo.

Prospettive di computerizzazione del lavoro

Un punto di riferimento affidabile è lo studio condotto da Carl Frey e Michael Osborne dell’università di Oxford, pubblicato nel 2016 sulla rivista Technological Forecasting & Social Change, in cui sono analizzate le possibilità di sostituzione di lavori umani in artificiali (o loro “computerizzazione” per usare lo stesso termine degli autori) in 700 categorie occupazionali. L’analisi è effettuata tramite un sofisticato modello matematico, con paese di riferimento gli Stati Uniti, per la disponibilità dell’archivio di dati O*NET, il più dettagliato ed esaustivo disponibile al mondo. Il risultato complessivo indica che sul totale degli attuali lavoratori americani il 47% ha un elevata probabilità di venire rimpiazzato dall’artificiale, e un altro 19% una probabilità media. Entrando nel dettaglio delle singole occupazioni, colpisce come nel novero delle occupazioni ad alta probabilità di sostituzione con lavoro artificiale, siano marginali quelle riguardanti attività materiali (produzione, riparazione, trasporto e movimentazione materiali). La parte dominante è costituita da lavori di tipo cognitivo: gestionale, finanziario, legale, vendita, supporto amministrativo, servizi. Considerando che attualmente negli Stati Uniti il lavoro di tipo cognitivo copre circa l’80% dell’impiego totale, la prospettiva di un diffondersi in grandi proporzioni del lavoro artificiale è seria. Per quanto accurato, il lavoro di Frey e Osborne è una previsione, soggetta quindi come tutte le previsioni ad inaccuratezze, soprattutto è difficile scadenzare nel tempo la sostituzione del lavoro umano con l’artificiale. Ma non si ravvedono ragioni che possano contrastare questa tendenza. Il lavoro cognitivo umano, in ogni sua forma, è il prodotto di un calcolo, effettuato dai nostri neuroni. Le difficoltà nel riprodurre lo stesso genere di calcolo in un computer sono essenzialmente due: non è noto l’algoritmo che lo realizzi, e anche nel caso lo fosse, sarebbe un algoritmo che funziona in modo efficiente nel dispositivo di calcolo tutto particolare che è il nostro cervello. L’intelligenza artificiale tipicamente cerca di ovviare ad entrambi gli inconvenienti, grazie a procedimenti matematici che non tentano di ricalcare nel dettaglio quelli cerebrali, ma che possono essere in grado di produrre risultati del tutto analoghi. Uno di quelli di maggior successo va sotto il nome di deep learning.

Sostituzione uomo-macchina: dramma o liberazione?

Una volta constatato che la sostituzione di lavoro umano con quello artificiale appare faccenda probabile, rimane aperto l’interrogativo se con il lavoro l’umanità perda uno dei suoi più preziosi valori, come suggerirebbe il senso comune oggi dominante, oppure se sia un momento di liberazione, come auspicato dagli esponenti anti-lavoro, e vagheggiato nell’utopia medievale del Paese della Cuccagna.

Oggi la questione può essere inquadrata in modo più scientifico, grazie ad una miglior conoscenza della nostra mente sociale derivante dalle scienze cognitive, in particolar modo da neuroscienze e psicologia evoluzionista. Anzitutto è evidente che il lavoro, in qualunque sua forma e accezione, non può rientrare nel repertorio delle motivazioni comportamentali della biologia umana, essendo un’invenzione decisamente recente rispetto alla nostra storia evolutiva. Tuttavia, il nostro cervello è predisposto ad interiorizzare certi costrutti culturali, rendendoli valori guida per la vita delle persone, facendo leva sugli stessi circuiti cerebrali dei nostri lontani progenitori, come per esempio ben descritto da Patricia Churchland nel suo Neurobiologia della morale.

Tra i circuiti chiave con cui il cervello mantiene il quadro dei valori di un individuo primeggiano quelli emotivi, nessun neurone potrebbe veicolare “valori”, ovvero forti pulsioni a fare qualcosa oppure ad evitare di farne altre, se non facendo leva su sensazioni fisiologiche di benessere o di sofferenza, ovvero le emozioni. Collegati ai circuiti emotivi giocano un ruolo importante quelli denominati “di rinforzo”, in grado di apprendere dall’esperienza in quali circostanze è opportuno innescare emozioni positive o negative, ed è questo il meccanismo principale per apprendere, a partire dalla prima infanzia, i valori sociali della propria cultura.

Il cervello umano dimostra una straordinaria flessibilità ad apprendere i valori più disparati, come dimostra la varietà di norme morali e convenzioni sociali tra diverse culture e diverse epoche della storia. Purtuttavia, risulta più immediato e facile da interiorizzare un valore che in qualche modo si adatti al piccolo repertorio di motivazioni biologiche di base.

Il lavoro per la sopravvivenza energetica

Nel nostro caso, non c’è dubbio che il lavoro abbia trovato una sua prima collocazione in una delle pulsioni fondamentali del cervello umano: la sopravvivenza energetica. Il lavoro è sorto evolutivamente proprio come modo più efficiente, per una comunità di umani, di procacciarsi cibo per sopravvivere. Da allora un po’ di cose sono cambiate, si potrebbe dire che il lavoro di oggi ricordi la sopravvivenza energetica come il sesso rievoca la riproduzione della specie. Sì, qualche volta gli umani fanno ancora sesso proprio per riprodurre la propria specie, ma si tratta davvero di episodi sporadici. Va detto che, purtroppo, la sopravvivenza energetica non è affatto una condizione scomparsa, affligge drammaticamente il 10% della popolazione mondiale, ma le problematiche che ne stanno dietro hanno ben poco a che fare col lavoro.

Nelle società sviluppate il legame tra il lavoro, concepito come valore, e la mera sopravvivenza, è davvero tenue. Inoltre misure come il reddito di base universale taglierebbero definitivamente questo legame originario, garantendo la sopravvivenza energetica senza dover lavorare. Per inciso, nella forma più compiuta sarebbe anche la soluzione per chi ancora deve lottare per la sopravvivenza.

Lavoro, socialità e competizione

Nella visione del lavoro come “nobilitante” entra certamente in gioco qualcosa in più rispetto all’aggancio con il meccanismo basilare di sopravvivenza, in particolare è ragionevole ipotizzare un coinvolgimento dei principali meccanismi cerebrali della socialità. La percezione di contribuire con il proprio lavoro al benessere della comunità di appartenenza, rientra nelle gratificazioni che il nostro cervello elargisce in comportamenti prosociali. Uno degli elementi chiave in questo meccanismo è il circuito dell’ossitocina, un peptide che nei mammiferi ha il potente effetto di indurre le cure parentali, e gradualmente nei mammiferi sociali ha esteso il suo raggio d’azione alla cooperazione verso altri conspecifici del proprio gruppo.

Ma è possibile ravvedere nel lavoro anche un meccanismo biosociale di segno opposto, orientato invece alla competizione per raggiungere un rango elevato. In questo caso il meccanismo cerebrale basilare è lo stesso della riproduzione: nei mammiferi sociali la gerarchia ha soprattutto lo scopo di garantire l’accoppiamento ai fortunati che ne raggiungono i vertici. Ma nei mammiferi con comportamenti sociali complessi il meccanismo si è dotato di una sua propria autonomia. È dimostrato per esempio come nei macachi il semplice raggiungimento di uno stato gerarchico superiore aumenti il numero di recettori dopaminergici (ovvero provochi piacere), indipendentemente dall’accoppiamento. Non c’è dubbio che nel mondo del lavoro contemporaneo la competizione per una posizione migliore nella gerarchia costituisca per molti individui una motivazione fondamentale, anche indipendente dalla retribuzione.

Non si esaurisce qui il repertorio degli aspetti che rendono il lavoro un buon candidato per essere incorporato dal cervello umano nella sua scala di valori, e in una rispettabile posizione, si potrebbe continuare analizzando, per esempio, la gratificazione nel constatare certe proprie abilità realizzative, o l’utilità nello scadenzare attività nel tempo. Il punto cruciale è che non esiste nessun aspetto del lavoro che risponda in maniera diretta e insostituibile alle spinte motivazionali primarie del nostro cervello, in altre parole non vi è nulla nel lavoro che sia costitutivo della natura umana.

Non solo la progressiva marginalizzazione del lavoro grazie all’intelligenza artificiale non renderebbe gli umani orfani di un valore connaturato, nella realtà attuale diversi dei meccanismi naturali connessi al lavoro, analizzati prima, rimangono del tutto virtuali. Per esempio, è ben raro poter apprezzare reali benefici alla comunità derivanti dal nostro lavoro, se si fa eccezione per il campo della Sanità. Già oggi è tutto sommato più facile esplicare comportamenti prosociali in modo volontario e autonomo da forme di lavoro, lo sarebbe in modo amplificato una volta messo a disposizione un reddito garantito.

Lo stesso vale per il meccanismo di competizione sociale, che nelle organizzazioni lavorative risulta soprattutto frustrante per la maggioranza che non vede realizzate le proprie aspettative. L’antropologo americano David Graeber ha pubblicato quest’anno un libro dal titolo eloquente, Bullshit Jobs: a Theory (“Una teoria per i lavori di m…”), basato su centinaia di testimonianze reali da lui raccolte tramite il sistema online YouGov, ed analizzate. Ne sono emersi i profili caratteristici dei lavori contemporanei odiosi, i cui esecutori sono perfettamente consci della loro inutilità e in alcuni casi dannosità. L’intersezione con il modello tradizionale marxista del lavoro odioso, faticoso e alienante, è minima, la caratterizzazione principale dei “lavoro di m…” è di apparire creati solamente allo scopo di tenere le persone occupate.

Lavoro, salute mentale e videogames

Esiste una preoccupazione riguardo l’obsolescenza del lavoro, diversa dal suo statuto di valore primario connaturato con l’uomo, riguardante l’aspetto pratico dell’occupazione temporale degli individui. Si può prenderla come una versione seriosa del monito l’ozio è padre di tutti i vizi, di cui si era parlato sopra, l’inquietudine riguardo la salute mentale delle persone il cui tempo non sia più scandito da un’occcupazione obbligata. Lo storico e acuto osservatore dei nostri tempi Yuval Harari ha suggerito una possibile risposta, sulle colonne di The Guardian nel maggio 2017: i giochi elettronici, in particolare quelli in realtà virtuale. Spiegando come la sua, più che una provocazione, sia la riproposizione in formato contemporaneo di una delle occupazioni prevalenti nella storia dell’umanità, tracciando un parallelismo stringente tra la struttura tipica dei videogame e le religioni: una serie articolata di personaggi virtuali, alcuni dotati di immensi poteri, una serie di regole, un repertorio di azioni magiche che consentono di guadagnare punteggio, e via dicendo.

Per quanto bizzarra possa apparire la proposta di Harari, va detto che il gioco, al contrario del lavoro, pare sia veramente una componente fondamentale della natura umana. Il neuroscienziato Jaak Panksepp, al seguito di vent’anni di ricerche, ha individuato un circuito cerebrale, comprendente sia aree corticali (dorso-mediali) che subcorticali (sostanza grigia periacqueduttale), responsabile per comportamenti di gioco e della loro gratificazione, presente oltre che nell’uomo in diversi altri mammiferi ad alta socialità.

Non a caso la psicologa Alexandra Horowitz ha osservato, in una serie di studi, come il gioco tra umani e il loro cane domestico sia il momento in cui si realizza la più profonda e accurata capacità di comprensione reciproca delle intenzioni altrui. Inoltre, in un futuro in cui diversi lavori saranno scomparsi, ai nostalgici può venire offerto di impegnarsi per gioco nei mestieri di cui più sentono la mancanza. E’ un fenomeno già presente, sotto il termine bricolage. Lo psicologo Michael Norton ha condotto uno studio, pubblicato con il titolo The IKEA effect: when labor leads to love in cui emergeva un significativo senso di gratificazione nei soggetti che riuscivano a costruire per conto proprio dei mobili, rispetto a partire da moduli pre-assemblati. L’ “effetto IKEA” potrebbe essere esteso in centri ricreativi dove le persone possono impiegare il proprio tempo libero cimentandosi come muratori, carpentieri, o tornitori.

In conclusione

Quanto detto finora non intende certo minimizzare la portata dirompente del far scendere il lavoro dall’elevato piedistallo dove si trova attualmente, si tratta di un cambiamento di valori importante, che richiederà quindi i giusti tempi per essere metabolizzato nel senso comune. È infatti comprensibile l’assillo dell’attuale governo a pararsi dalle accuse di mettere in dubbio la sacralità del lavoro, con dichiarazioni che sterilizzino in tal senso la proposta di reddito di cittadinanza. Inoltre la diffusione capillare del lavoro artificiale, della portata prevista da Frey e Osborne, non riguarderà l’Italia dei prossimi due o tre anni, ma la tendenza sembra davvero quella, ben venga quindi un primo timido tentativo di predisporre anche la società italiana ad uno scenario non più dominato dal lavoro umano.

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