Può la repressione digitale superare i confini nazionali dello Stato che la dispone per perseguitare gli avversari politici e attivisti in ogni luogo su scala globale con pervasivi effetti ubiquitari, anche quando le persone in pericolo nei propri Paesi di origine riescono a fuggire altrove? Pare proprio di sì.
Si tratta, anzi, di un fenomeno in costante crescita che, alla luce dei dati forniti da Forensic Architecture (riportati all’interno dell’articolo di un recente approfondimento a cura del MIT – Technology Review) ha raggiunto 326 casi tra il 2019 e il 2021, rispetto ai 105 riscontrati tra il 2017 e il 2019.
La repressione prende la forma di una cruenta coercizione psico-fisica: praticamente una condanna perpetua che proietta gli attivisti anti-regime in un vero e proprio limbo di minacce continue ad effetti permanenti grazie ai minori costi economici e organizzativi necessari per pianificare le “molestie digitali” rispetto alle corrispondenti azioni “analogiche”.
La repressione transnazionale digitale
L’articolo del MIT approfondisce, al riguardo, il tema della cosiddetta “repressione transazionale digitale” per indicare un eterogeneo insieme di aggressioni virtuali poste in essere mediante il ricorso ad attacchi di:
- phishing,
- spyware,
- rimozione di pagine di social media (dopo hackeraggio di account),
- hackeraggio di schede SIM
- cyberbullismo
- falsi inviti a conferenze.
Secondo uno studio a cura di Citizen Lab, i Paesi in cui si registrano i più elevati livelli di “repressione transnazionale digitale” sono Afghanistan, Cina, Iran, Yemen, Ruanda e Siria, ove si progettano svariate tecniche di controllo repressivo particolarmente invasive in grado di fornire alle autorità statali una conoscenza completa sui movimenti degli attivisti e dissidenti, nonché sulla loro vita quotidiana, grazie al costante accesso a dispositivi personali, inclusi fotocamera, microfono, e-mail e messaggi contenuti persino in applicazioni di chat crittografate. Risultano, inoltre, particolarmente insidiose, mediante l’impiego di un vero e proprio “esercito virtuale”, le campagne mirate di incitamento all’odio, al pari degli attacchi alla credibilità personale che si diffondono a seguito della pubblicazione di informazioni personali volte a prendere di mira la vittima (cd. “doxxing”).
La Cina fa tendenza
Ancora una volta, la Cina, come ormai risulta costantemente fotografato negli ultimi anni dai rapporti periodici di Freedom on the Net, sembra fare tendenza nel panorama globale, perfezionando la propria capacità di elaborare raffinate strategie comunicative mediante l’utilizzo di sofisticati strumenti in grado non solo di assicurare il mantenimento di un costante clima interno di censura generale, ma al contempo di rafforzare la propaganda “pro-Pechino”. Ciò avviene grazie alla pubblicazione di post automatici generati da bot che inondano le piattaforme social riuscendo, al contempo, a controllare, con impercettibili tecniche di supervisione, gli avversari politici oppositori, scrupolosamente monitorati dal prodigioso sistema “Great Firewall”, anche persino quando si tratta di attivisti che vivono all’estero, costretti a rimuovere i post incriminati per evitare il rischio di minacce rivolte a se stessi e ai familiari residenti in Cina. Può ritenersi al riguardo emblematico altresì il recente arresto di cinque cittadini cinesi accusati dal Dipartimento di Giustizia USA di collaborare con il Ministero della Sicurezza di Stato agli ordini di Xi Jinping per lo svolgimento di attività di sorveglianza effettuata nei confronti di dissidenti politici di Pechino residenti a New York.
Le contromisure Usa
Anche per tale ragione, nel tentativo di arginare la lesività di tali attacchi che rappresentano un pericolo non solo per le persone destinatarie (nella qualità di dirette vittime coinvolte), ma soprattutto, come sofisticata tecnica di controspionaggio, per la stabilità interna del Paese, gli USA stanno passando alle necessarie contromisure. Il Dipartimento del Commercio degli Stati Uniti, in collaborazione con l’FBI (si segnala, al riguardo, la parallela iniziativa elaborata per combattere la “repressione transnazionale digitale”) ha inserito svariate società di sorveglianza nella sua “Entity List”, che limita il relativo flusso di affari ove pregiudizievole alla sicurezza nazionale e/o agli interessi di politica estera degli Stati Uniti. In attuazione di una corposa regolamentazione vigente in materia, la cd. “Entity List” contiene un elenco di persone fisiche e giuridiche straniere (comprensivo di imprese, istituti di ricerca, organizzazioni governative e private) che sono soggette a stringenti restrizioni per l’esportazione e il trasferimento di beni e prodotti.
Il fenomeno del cyber mercenarismo
Peraltro, nonostante la rilevanza che sta assumendo tale fenomeno e l’impegno politico a prevenirne le insidiose ripercussioni, la repressione digitale ubiquitaria sembra ancora manifestare dimensioni verosimilmente sottostimate a fronte di un generale “lato oscuro” destinato a trovare terreno fertile nell’ambiente digitale.
In Rete prolifera, infatti, il cosiddetto “cyber-mercenarismo” volto al reclutamento massivo di compagini militari private, composte da combattenti stranieri qualificati ed esperti professionisti provenienti da varie parti del mondo, in grado di fornire anche un’ampia gamma di servizi di sicurezza, nonché effettuare sofisticate operazioni informatiche a distanza – offensive o difensive – mediante l’uso di spyware, malware, strumenti di intelligenza artificiale e di sorveglianza per scopi illeciti, compresa la raccolta di dati e lo spionaggio, al fine di combattere in contesti ibridi di “cyberwar” e destabilizzare l’equilibrio politico dei Paesi presi di mira. Una recente inchiesta pubblicata sempre dal MIT – Tecnhology Review, avrebbe scoperto l’esistenza di almeno 50.000 utenti presi di mira su Facebook da mercenari informatici arruolati nell’ambito del cd. “l’hacking su commissione” che consente di compiere intrusioni sulla vita delle persone, prendendo di mira le vittime (aziende, dirigenti, attivisti, giornalisti e personaggi pubblici).
I “cyber-mercenari” nuova insidia dell’ambiente digitale: chi sono e i rischi che corriamo
Potrebbe anche esprimere la medesima “ratio” destabilizzatrice la misteriosa “Sindrome dell’Avana” che, nel recente passato, ha colpito circa 200 funzionari statunitensi in servizio presso varie strutture diplomatiche USA, a causa di uno strano disturbo neurologico presumibilmente provocato da “effetti dell’energia a radiofrequenza diretta e pulsata” in grado di causare alternazioni invisibili del sistema nervoso esposto a processi degenerativi di danneggiamento, senza lasciare traccia nel tempo, talvolta culminanti anche in lesioni cerebrali traumatiche permanenti, al punto da indurre il governo degli USA ad emanare la legge “Havana Act”, (“Helping American Victims Afflicted by Neurological Attacks Act”), approvata lo scorso ottobre 2021 proprio per rafforzare il supporto medico riservato ai pazienti colpiti da tale malattia, allertando contestualmente la National Security Agency per i dovuti consequenziali approfondimenti.
Non vi è dubbio che il dilagante lato oscuro del cosiddetto “autoritarismo digitale” sta cominciando anche a sfociare in pericolose forme di sorveglianza extraterritoriale e repressione globale ben oltre i confini nazionali degli Stati a discapito di oppositori politici, dissidenti e attivisti presi di mira e facilmente localizzabili in qualsiasi momento dai regimi autoritari, senza più la possibilità di assicurare spazi di protezione al riparo dagli attacchi dei Paesi ostili.
A tali generali pericoli cui risulta esposto l’esercizio delle libertà fondamentali (come garanzia di tutela configurabile nell’interesse della collettività complessivamente considerata) si aggiungono ulteriori ripercussioni sociali e psicologiche che si manifestano, a livello individuale, nella vita delle vittime, le quali subiscono gli effetti di una vera e propria “guerra emotiva” parallela dalle preoccupanti implicazioni, aggravate da uno stato di autocensura e isolamento personale destinato ad incidere sul benessere psico-fisico, sulla salute individuale e sulle prospettive professionali configurabili nel medio-lungo termine, come rileva un recente studio di Citizen Lab.
Repressione digitale mondiale, mano invisibile del potere autoritario
La “repressione transnazionale digitale” può essere quindi considerata la “mano invisibile” negli spazi transnazionali, delle politiche di censura in grado di mettere in pericolo su scala planetaria la tutela dei diritti umani.
Un’interessante ricognizione di FreedomHouse descrive la portata concreta che la “repressione transnazionale digitale” sta assumendo, segnalando, come episodi che vengono percepiti come sempre più “normali”, frequenti casi di scomparse misteriose e improvvise, omicidi irrisolti, rapimenti organizzati nonostante la notevole distanza del luogo in cui si trova la vittima, frequenti minacce telefoniche, a dimostrazione del perfezionamento di tecniche aggressive per consentire agli Stati di esercitare un costante controllo sui propri cittadini a prescindere dalla loro residenza geografica.