Ritenete di avere il pieno controllo della vostra reputazione digitale? Sareste in grado di dire esattamente cosa emerge dalle vostre tracce online?
Sembrano domande facili, soprattutto per chi è avvezzo all’uso del web, eppure riflettendo con più attenzione, ci renderemo conto che pochi riescono ad avere un reale e profondo controllo sui propri processi reputazionali.
La reputazione è un concetto dotato di una profonda dimensione sociale, che non necessariamente riguarda la realtà, quanto piuttosto la percezione di essa.
Senza dubbio la considerazione che gli altri hanno di noi è connessa in modo più o meno diretto con la capacità che abbiamo di presentare e gestire la nostra identità (impression management), ma alla sua formazione concorrono molteplici processi.
Oggi la percezione della nostra identità è sempre più in relazione con le informazioni che ci riguardano che è possibile trovare o non trovare online e non necessariamente si tratta di informazioni che abbiamo deciso volontariamente di condividere.
Mantenere una buona reputazione ci impegna costantemente in una sorta di montaggio della nostra identità, attraverso un processo intenzionale ed impegnativo di selezione di contenuti che ci riguardano. Se questo è quasi ovvio per aziende o personaggi pubblici, soprattutto con la crescente attenzione al Reputation Management, il rilievo che assume in termini pratici appare meno scontato per le persone comuni.
Formazione delle impressioni e “collasso del contesto”
Il problema principale dell’impression management nell’età digitale è correlato a quello che viene definito il “collasso del contesto” generato dai social network. All’interno di uno stesso ambiente si fondono interlocutori differenti e non sempre prevedibili, rendendo notevolmente più difficile il processo di gestione della nostra identità.
Le soluzioni offerte dai social come Facebook per ridurre l’impatto di questo fenomeno – come per Facebook organizzare in categorie il proprio pubblico – per quanto possano offrire una via di uscita, non sembrano sufficientemente “economiche” nella loro gestione e lasciano adito a possibili equivoci che potrebbero a loro volta impattare sulla reputazione del soggetto. Si pensi ad una situazione in presenza in cui ci troviamo con interlocutori appartenenti a “categorie diverse” ed uno di loro commenta un nostro post oscurato all’altro: come reagirà l’altra persona? Avremo dato l’impressione di voler nascondere qualcosa, il che lascerà un alone di negatività sulla credibilità della nostra identità online.[1]
Potrebbe sembrare un’alternativa distinguere la propria presenza su ambienti specifici (ad esempio riservando LinkedIn per i contatti professionali e Facebook per quelli personali), ma anche in questo caso la soluzione è solo apparente.
Si pensi, per fare un esempio banale, al corto circuito che arriva durante un colloquio di lavoro quando cerchiamo di presentarci in modo serio e professionale, ignorando che i selezionatori hanno già approfonditamente navigato nei nostri canali social, che invece magari usiamo gestire in modo estremamente informale: il nostro profilo sarà pieno di immagini personali che ci riprendono in momenti privati, goliardici, feste, uscite, con magari un linguaggio non curato e toni non necessariamente condivisibili.
Quale sarà la percezione del nostro interlocutore? Sarà in grado di bypassare gli effetti (impliciti) di economia cognitiva che cercano conferme alle prime impressioni?
Non possiamo saperlo con certezza.
Anche escludersi interamente dai social non sembra una soluzione attuabile, giacché questo ci impedirebbe di monitorare la nostra reputazione e gestirla in maniera più diretta attraverso, per l’appunto, i processi impression management.
Il ruolo dei residui comportamentali
Partendo dalla banale selezione di immagini da mostrare online, la scelta degli status da scrivere o condividere ed i post a cui reagire, seppur con diversi livelli di consapevolezza, siamo inevitabilmente spinti da una pressione a voler confezionare al meglio il nostro Sé da presentare al mondo digitale.
I nostri interlocutori interessati a crearsi un’idea su di noi, soprattutto quando dispongono di scarse informazioni di partenza, sono portati a cercare “qualcosa” con cui integrare le poche notizie a disposizione, così anche il semplice indirizzo email può fare la differenza, lasciando implicite informazioni sulla nostra personalità. [2]
Ciò comporta che nella formazione delle impressioni, non sono sufficienti gli elementi che ciascuno sceglie di condividere volontariamente, ma hanno un peso specifico quelli che vengono definiti i “residui comportamentali”: ovvero tutto ciò che di noi resta a disposizione degli altri quando non siamo direttamente coinvolti nell’interazione e che assume rilievo importante nel dirigere il giudizio esterno sulla nostra persona.[3]
Online lasciamo molti più residui comportamentali di quanto non crediamo, soprattutto oggi dove la nostra presenza social unisce elementi pubblici e privati e gli strumenti insistono per una condivisione del Sé che renda appetibile la permanenza sullo stesso: ci chiedono di far sapere ai nostri contatti cosa pensiamo, ci suggeriscono gruppi ed amici pertinenti ai nostri interessi, ci propongono articoli o prodotti di nostro gradimento. Tutto questo, già di per sé offre indizi su di noi, che non necessariamente consideriamo collegati in modo razionale.
Esempi di residui che influenzano la percezione esterna su di noi sono il numero ed il tipo di amici, i post che commentiamo ed il tono con cui lo facciamo, le foto in cui siamo taggati, oltre quelle che decidiamo volontariamente di pubblicare.
In sostanza, così come tipico delle dinamiche social, sono considerati residui particolarmente influenti tutti quei contenuti su cui non abbiamo un controllo diretto: lo sono, ad esempio, i post e le immagini che i nostri amici e conoscenti postano sul nostro diario o i loro commenti a ciò che noi pubblichiamo.
Per lo stesso principio per cui andiamo a leggerci le recensioni di ristoranti o prodotti per ottimizzare la nostra scelta, l’opinione che altri hanno su di una persona esercita su di noi una influenza particolarmente rilevante, offrendosi alla nostra mente come garanzia attendibile di giudizio.
Si intravede in questo processo ciò che accade nella puntata di Black Mirror “Caduta libera” , che racconta una società in cui ciascuno ha un punteggio basato sulla reputazione personale: la bontà delle proprie interazioni diviene oggetto di valutazione e determina l’accessibilità ad una varietà di privilegi reali.[4]
I processi cognitivi coinvolti
L’individuo in qualità di risparmiatore cognitivo[5] non ha la propensione a sviluppare ogni volta criteri originali di giudizio sulle persone, così come non ricerca attivamente elementi che lo aiutino a formarsi un’idea del proprio oggetto di analisi. Nella psicologia quotidiana ciò che utilizziamo per farci un’idea sugli altri sono criteri, elementi ed indizi a buon mercato.
In generale il processo di formazione delle impressioni è rapido e scarsamente sottoposto al controllo cognitivo; risponde piuttosto a processi automatici di analisi e discriminazione del campo. Sui social network diviene ancora più rapido a causa della velocità di interazione e del sovraccarico cognitivo in cui siamo coinvolti.
Non sono esclusi, ovviamente, possibili errori cognitivi tra cui un peso interessante gioca l’overconfidance bias, la diffusa tendenza a considerare con eccessiva fiducia la propria capacità di giudizio, nonostante questo si basi su costruzioni non del tutto oggettive.
Un fattore di orientamento delle impressioni personali, ad esempio, è rappresentato dal cosiddetto effetto d’ordine (o primacy): i primi tratti personali che sono elaborati producono un impatto più consistente di quelli successivamente rilevati. Per dirla con un noto adagio: le prime impressioni sono quelle che contano! [6]
Così accade che la foto profilo, la copertina o le informazioni brevi su noi stessi che scegliamo di mettere in evidenza, diventano la nostra occasione per fare una buona prima impressione.
Ad esempio se dobbiamo scegliere la foto da utilizzare come immagine del profilo, indipendentemente dalla nostra reale avvenenza, cercheremo indubbiamente di mostrarci al meglio. Al di là del diffuso narcisismo social, domina cognitivamente in questo processo il peso dell’effetto alone dell’avvenenza: le persone attraenti o che si presentano al meglio vengono valutate più positivamente, sono implicitamente considerate anche come gentili, brillanti estroverse e sicure. Più in generale, se valutiamo una persona a partire dal fatto che essa possiede una certa caratteristica dominante, siamo portati a ritenere che possieda certi altri determinati tratti che riteniamo coerenti con il tratto di partenza.
Chiaramente ciò non vuol dire che queste valutazioni corrispondano sempre al vero, ma che le prime impressioni agiscono nel fornire un “contesto interpretativo” alle informazioni successivamente acquisite. Che ci piaccia o meno saremo influenzati nelle successive interazioni da quanto abbiamo percepito inizialmente. Se ho un appuntamento con una persona e sbircio sul suo profilo social, vedendo qualcosa che non condivido mi recherò sicuramente prevenuto all’appuntamento ed in virtù del “confirmation bias” cercherò implicitamente conferme del mio disappunto, non rendendomi aperto e disponibile nei suoi riguardi.[7]
Vive in questo discorso uno tra i più noti principi che contribuiscono all’interpretazione del processo di formazione delle impressioni: il principio della personalità implicita. Nella nostra mente, in modo implicito, vengono associati l’insieme di tratti, integrati tra loro, che pensiamo una persona abbia per il fatto che, in una certa occasione, gli abbiamo riconosciuto una caratteristica che noi riteniamo schematicamente associata ad altre.[8]
Comunemente le persone elaborano inferenze sulle caratteristiche inespresse per poter avere il controllo sulla relazione, nonostante sia chiaro ed evidente che il processo di costruzione della personalità implicita si riveli sostanzialmente illusorio, rimane un forte strumento suggestivo che condiziona la relazione e, quindi, la reputazione del soggetto.
Non è strano, ad esempio, che i politici che attraverso i social cerchino largo consenso tra le masse, si mostrino in “maniche di camicia”, in situazioni comuni ed informali: in questo modo verranno associati dai più con caratteristiche di simpatia, familiarità e soprattutto affidabilità.
Le implicazioni della reputazione: tra leggerezza e fake news
Un errore nella gestione della propria immagine online o scarsa cura per la stessa, possono comportare incidenti reputazionali che non sono facilmente gestibili, sia per la permanenza delle tracce in rete, sia per i numeri che potenzialmente raggiunge un contenuto se diventa virale.
Ciascuno di noi può annoverare qualche episodio in cui la leggerezza in un commento o in una condivisione gli ha creato problemi d’immagine, ma per comprendere le dimensioni che può assumere il fenomeno possiamo fare l’esempio del tristemente celebre caso di Justine Sacco. Questa top manager, per un tweet razzista postato prima di salire su un aereo diretto in Africa, non solo ha perso il lavoro, ma è stata oggetto di una campagna virale dall’hashtag #HasJustineLandedYet che ne ha minato nel giro di poche ore la reputazione definitivamente. A nulla è servito cancellare il tweet e chiudere l’account. Gli screenshot dell’infelice battuta razzista già erano alla mercè della rete, con conseguenze disastrose per la protagonista.
A casi come questi, in cui un errore materiale e/o una superficiale gestione del mezzo ha implicazioni incontrollabili e devastanti per il soggetto, si accompagna una problematica ancora più complessa: le fake news e – guardando un po’ più avanti – anche i deep fake.
La diffusione sempre più massiccia di notizie false comporta una profonda difficoltà nel delineare i confini della realtà, rendendo fragile il nostro giudizio su quanto accade nella rete. Condividere in prima persona fake news, ad esempio, incide senza dubbio sull’idea che gli altri si faranno della nostra capacità di comprendere ed approfondire gli argomenti, danneggiando la nostra credibilità.
A questo si aggiunge un ulteriore problema. Se qualcuno divenisse oggetto di una campagna di fake news che ne intacchi la reputazione, sarebbe estremamente difficile riuscire ad affrontare il danno ed arginarne gli effetti, soprattutto in assenza di una solida e ben curata reputazione alle spalle.
Le bufale costruite ad arte sono dotate di una viralità intrinseca, perché montate espressamente per toccare canali emozionali che hanno più appeal sui social, ma anche di una viralità estrinseca giacché spesso vengono accompagnate all’uso di bot che – aumentando la diffusione – fanno sì che assumano una rilevanza eccezionale nell’agenda setting online. Queste caratteristiche delle fake news, attivano l’arousal dei lettori, che si sentono di dover commentare o condividere l’informazione incrementandone a loro volta la portata virale. In casi come questo, anche qualora si tenti di correggerla, resterà nella memoria la notizia molto più incisivamente della correzione/rettifica apportata, minando in maniera permanente la reputazione di chi è oggetto della macchina del fango, anche a causa della “memorabilità” della rete.
L’arrivo tra le masse dei deepfake,[9] attiva un ulteriore campanello d’allarme verso la gestione della propria reputazione. Se girassero in rete video nei quali noi stessi, con il nostro volto, diciamo o facciamo cose pericolose per la nostra immagine, sarebbe decisamente complicato arginarne gli effetti, in assenza di sufficienti e competenti strategie di debunking.
Se i personaggi pubblici e le aziende possono affidarsi ad esperti nella gestione della propria reputazione, ciò è meno attuabile per i comuni mortali, ai quali rimane il compito di monitorare la propria presenza in rete utilizzando in modo intelligente e consapevole gli strumenti digitali.
Diviene sempre più rilevante, quindi, monitorare la propria reputazione online, osservare la percezione che dall’esterno si ha di noi e le informazioni che sul nostro conto circolano in rete, in modo da poter intervenire in modo pertinente e tempestivo.
Senza dubbio il primo passo è, ovviamente, un uso consapevole della comunicazione digitale, che può arrivare solo da un’educazione all’uso degli strumenti e alla conoscenza delle dinamiche coinvolte.
Ciascuno è chiamato anzitutto a gestire con intelligenza la propria presenza digitale e fare attenzione all’uso dei social, focalizzando le implicazioni coinvolte in comportamenti anche apparentemente insignificanti come like o commenti.
Allo stesso tempo, è altrettanto rilevante intercettare in prima persona i processi attraverso i quali ci costruiamo i giudizi sugli altri, partendo dall’osservazione della loro comunicazione digitale.
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- Wallace P. (2016), La psicologia di Internet, Raffaello Cortina Editore ↑
- Si fa riferimento all’esperimento dei ricercatori dell’università di Lipsia sul peso degli indirizzi email sulla formazione delle impressioni: Back MD, Schmulke SC, Egloff “How extraverted is honey.bunny77@hotmail.de? Interferring personality from email addresses” in Journal of Research in Personality, 42,4, 2008, pp111-1122. ↑
- Gosling SD, Mannarelli T, Morris, “A room with a cue: Personality judgement based on offices and bedrooms”, in Journal of Personality and Social Psychology, 82, 3, 2002, pp 379-398 ↑
- Episodio che trova un inquietante riscontro nella realtà con la proposta cinese del Social Credit System. ↑
- Fiske ST, Taylor SE (1991), Social cognition, Mc Graw Hill, NY ↑
- Asch S.E. (1946) cit., e Luchins A., Forming impressions of personality; a critique, in J, Abnormal and Social Psychology, 1948, 43, 318-325. ↑
- Confirmation bias: indica il processo cognitivo per cui le persone tendono a muoversi entro un ambito delimitato dalle loro convinzioni acquisite. ↑
- Bruner, J.S., & Tagiuri, R.. The perception of people, 1954. In: G. Lindzey (Ed.), Handbook of social psychology (Vol. 2, pp. The 634-654). Reading, Ma.: Addison-Wesley. Per fare un esempio, se una persona ci appare bella e solare, saremo implicitamente portati a ritenerla anche bella ed affidabile. ↑
- Il deepfake è una tecnologia basata sull’intelligenza artificiale e l’apprendimento automatico chepermette di sostituire i volti di due persone (face swapping) e soprattutto di manipolare i video per far dire a chiunque tutto quello che si vuole, riproducendone la voce e sincronizzando il labiale. Tecnologie come la app cinese Zao – che al momento permette di scambiarsi i volti con le celebrità- paventano la diffusione di applicazioni di deeplearning e face swapping alla portata di tutti. ↑