web e immagine sociale

Reputazione digitale: ecco perché servono nuove tutele e responsabilità

In un ambiente come quello virtuale, dove il danno alla reputazione può essere catastrofico, servirebbero differenti forme di tutela e responsabilità: quelle attuali non sono funzionali al ripristino della legalità e al ristoro dei danni effettivamente subìti. I limiti delle attuali normativi, i paradossi,

Pubblicato il 04 Lug 2022

Davide Biondini

avvocato esperto in diritto del web e partner di Fabricamente

Social network e app di dating

“Ci vogliono venti anni per costruire una reputazione e cinque minuti per rovinarla. Se ci pensi imparerai a fare le cose diversamente”[1].

Questa celebre frase di un noto economista statunitense, pur rimarcando una verità eterna, trova il suo limite nella ingovernabilità dell’odierna società dell’informazione.

In uno spazio dove il reale viene costantemente filtrato da schermi virtuali, regolamentati più da logiche di potere e business che dall’etica e dal diritto, siamo tutti esposti al “verdetto valoriale dell’infosfera[2]. Giudizio che, purtroppo, non sempre dipende da nostre azioni o pensieri ma, piuttosto, dalle modalità di funzionamento del web che ha prevalentemente lo scopo di capitalizzare l’attenzione altrui[3] monetizzando opinioni e apprezzamenti a danno degli utenti.

Reputazione online, come difenderla? Guida pratica per aziende e professionisti

Web e lesione alla propria immagine sociale

Se a ciò si aggiunge che qualsiasi spazio virtuale è caratterizzato da meccanismi virali, ovvero da strumenti e logiche che permettono di moltiplicare esponenzialmente le interazioni dei contenuti senza che l’interessato possa esercitare un controllo sugli stessi, il danno alla reputazione può divenire catastrofale. La sensazione di impotenza rispetto alla incontrollabilità dell’informazione e alla ineluttabilità della lesione della propria immagine sociale può essere letale.

Infatti, se la ricerca costante dell’altrui stima è sempre stata una necessità primaria di ogni essere umano, oggi più che mai, ciò che la community pensa di noi può determinare il nostro destino, non solo come persone fisiche ma anche come imprenditori e come attori di ruoli sociali per mezzo dei quali quotidianamente cerchiamo di costruire la nostra identità personale, il nostro brand e la nostra reputazione.

Peraltro, se in passato il problema di “apparire” era croce e delizia di pochi personaggi noti che catalizzavano l’attenzione dei media tradizionali, oggi siamo tutti esposti al pubblico e alla gogna mediatica.

Reputazione, perché le attuali tutele non sono più adeguate

Dunque, in conseguenza delle mutate dinamiche di socializzazione e di estrinsecazione del sé, la reputazione, quale diritto fondamentale di ogni essere umano[4], meriterebbe da parte del legislatore una differente tutela, oggi non aderente ai reali rischi connessi alla sua lesione.

Purtroppo, però gli attuali istituti giuridici, posti a protezione della reputazione, almeno sotto il profilo interpretativo, pagano lo scotto di epoche in cui il valore della libertà, gravemente compromessa dai totalitarismi, ha sempre avuto un peso maggiore nelle logiche di bilanciamento dei contrapposti diritti costituzionali. La libertà di manifestazione del pensiero[5] e quella di iniziativa economica privata[6] necessitavano, al fine di favorire il processo di democratizzazione, di essere svincolate da autorizzazioni, censure o ingerenze da parte di coloro che ostacolavano il diritto all’informazione.

Tali esigenze, protrattesi fino all’avvento di internet, si sono tradotte nel principio di “neutralità della rete” che, imperante nella stragrande maggioranza degli ordinamenti giuridici comunitari, ha fondato il proprio dogma nella non responsabilità dell’internet service provider[7], soprattutto in ambito penale dove l’imputazione non può mai prescindere dalla colpa, quasi mai sussistente in assenza di un generale obbligo di sorveglianza[8] dei dati immessi dagli utenti nelle loro piattaforme.

Del resto, internet non sarebbe mai entrato nelle nostre case se non si fosse permesso ai fornitori di connettività (e non solo) di costruire le infrastrutture dell’attuale società dell’informazione. Se il danno conseguente all’attività d’impresa fosse stato imputato ai provider in base al criterio del rischio anziché a quello della colpa, alla stregua di qualsiasi altra attività pericolosa,[9] si sarebbe posto un freno allo sviluppo della tecnologia, della scienza e di ogni altra attività umana.

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Maggiori responsabilità in capo alle big tech: pro e contro

Ora che le Big Tech sono “uscite dai loro garage”, diventando player indiscussi dell’intero sistema economico e sociale, sarebbe necessaria una diversa allocazione del rischio che, come avvenuto per la Direttiva Copyright, li responsabilizzasse maggiormente rispetto i rischi connessi al trattamento dei dati dei loro utenti. Dati che strutturano la nostra identità digitale e che contribuiscono alla costruzione della nostra reputazione.

Vero è che se l’eccessiva responsabilizzazione dovesse divenire il pretesto, come di fatto spesso è avvenuto, per interferire nella libertà di espressione degli utenti, si otterrebbe un effetto opposto a quello auspicato. Soprattutto in un sistema in cui l’“opacità algoritmica” viene “venduta” come ineliminabile poiché connaturata alle proprie logiche di calcolo che, spesso, sembra restituire risultati non prevedibili nemmeno da chi li ha progettati.

La verità è che le “istituzioni non sono state in grado di andare oltre il livello politico per trovare una soluzione al come bilanciare le libertà fondamentali con le esigenze di prevenzione e repressione”[10] di alcuni illeciti posti a tutela dell’onore e della reputazione.

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I limiti delle norme italiane

Il nostro Codice penale infatti già prevede norme a tutela di contenuti offensivi diffusi in rete, quali ad esempio il reato di diffamazione[11] ma “lo scudo della tutela garantita da queste norme si infrange sotto il peso del carico del contenzioso penale, dei tempi e delle risorse necessarie ad eseguire le indagini e a celebrare i processi”[12] e di una spazio-temporale (nel quale l’illecito nasce e si sviluppa) su cui nessuno può vantare una potestà legislativa e giurisdizionale esclusiva.

Ad esempio, la diffamazione sui social network sovente finisce, nelle Procure italiane, nei registri “contro ignoti” – e quindi in una richiesta di archiviazione – per impossibilità di risalire all’autore del reato, spesso celato da un nickname indistinguibile se non mediante la collaborazione delle piattaforme, non sempre disposte a fornire informazioni. Soprattutto quando l’illecito non costituisce reato anche nel Paese dove il provider ha la propria sede legale (la diffamazione negli U.S.A non è un illecito penale).

Ecco che, di fronte alla mancata individuazione del responsabile dell’illecito, nemmeno la tutela risarcitoria[13], da sempre braccio armato dei diritti fondamentali degli individui, è ora in grado di ricucire gli strappi cagionati da condotte illecite.

Il dato veramente tragico è che il risultato di questo fallimento ha “portato ad una progressiva degiurisdizionalizzazione dell’attività di contrasto agli illeciti relativi ai contenuti on line e nella mortificazione di diritti fondamentali come quello di difesa”[14].

I paradossi dell’attuale situazione

Gli Stati hanno di fatto delegato la regolamentazione dell’ordine pubblico alle multinazionali ICT[15] attribuendogli anche poteri di prevenzione, svincolati però da corrispondenti responsabilità decisionali.

Il paradosso di questo nuovo paradigma regolamentare è che non solo rischia di comprimere i diritti della personalità, di cui la reputazione fa parte, ma anche la libertà di espressione e altri importati principi che costituiscono le fondamenta di una ogni società democratica.

L’era tecnologia ha definito “nuove geometrie di potere, facendo sbiadire il confine tra la dimensione pubblica sovrana e quella privata degli interessi particolari”[16] .

Pertanto, i diritti nel web sono oggi disciplinati da diversi ecosistemi di norme: quelle algoritmiche tipiche dell’informatica, quelle private dei colossi tecnologici e infine quelle emanate dalle Istituzioni che, perduto il monopolio statale, agiscono per lo più mediante strumenti di co-regolamentazione e softlaw.

Conclusioni

Al fine di garantire l’effettiva tutela dei diritti nella realtà digitale sarà quindi necessario costruire un diritto sovranazionale globale che sappia interfacciarsi con i diversi sistemi di regole dalle quali è oggi impossibile prescindere.

Tale trasformazione non potrà però attuarsi senza un adeguato processo di sensibilizzazione degli utenti rispetto ai danni cagionabili da illeciti commessi nel web che, come premesso, non hanno assunto solo una nuova pelle ma un contenuto tale da incidere sulle nostre scelte e sul nostro futuro.

Note

  1. Warren Buffett
  2. Daniele Chieffi. La reputazione ai tempi dell’infosfera. Franco Angeli 2020.
  3. Giovanni Boccia Artieri. Prefazione a la reputazione ai tempi dell’infosfera. Franco Angeli 2020.
  4. Cfr art 12 Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo
  5. Art 21 Costituzione
  6. Art 41 Costituzione
  7. Dir. 2000/31/CE recepita da D.lgs 70/2003
  8. Art. 17 Dir. 2000/31/CE recepita da D.lgs 70/2003
  9. Art. 2050 cod. civile
  10. Andrea Monti. Internet e ordine pubblico. Il diritto dell’internet nell’era digitale. Giuffré Francis Lefebvre. 2020
  11. Art. 595 cod. penale
  12. Ibidem
  13. Art 2043 cod. civile
  14. Andrea Monti. Internet e ordine pubblico. Il diritto dell’internet nell’era digitale. Giuffré Francis Lefebvre. 2020
  15. Codice di condotta sul contrasto all’hate speech
  16. Fernanda Faino. Regolazione della società e protezione dei diritti nell’era tecnologica. Il diritto dell’internet nell’era digitale. Giuffré Francis Lefebvre. 2020

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